Delle moltissime recensioni che hanno accompagnato l'edizione originale del 1988 di questo romanzo di Penelope Fitzgerald, una, particolarmente aderente e acuta della scrittrice Helen Byatt, rileva come la storia sembri emergere da una combinazione «di estraneo e familiare». L'estraneità, alla Fitzgerald come al lettore, è verosimilmente il luogo e il tempo dove si svolge la vicenda: Mosca 1913, prima della rivoluzione. La familiarità sta invece nella vicenda stessa: il caso di un uomo, un agiato commerciante inglese, immigrato nella capitale russa, che viene abbandonato dalla moglie insieme ai suoi tre bambini, e si ingegna a vivere da solo, adattandosi lentamente all'incomprensione del nodo più intricato e intimo della sua esistenza: la fuga, appunto, inspiegata e inspiegabile. Eppure, inoltrandosi nel testo, la forza evocativa della scrittura, e forse la persuasione di una latente allegoria, producono un'inversione, un gioco di scambi tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo. Familiare diventa Mosca, con la sua piccola vita brulicante e quotidiana (non meno familiare di quanto appaia nella grande letteratura russa). Estranea, misteriosa diventa la vita rappresentata: una commedia umana, con tutto ciò che di curioso e inatteso e affascinante vi è nei legami tra persone. E forse prende forma il senso dell'allegoria: l'inconsequenzialità della vita.