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Le Vendicatrici. Luz: Solo per amore PDF

134 Pages·2016·0.67 MB·Italian
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Massimo Carlotto e Marco Videtta Le Vendicatrici Luz Einaudi Prologo Sapeva che era sbagliato. Che era una pessima idea. E che dopo sarebbe stato difficile se non impossibile mettere a posto le cose. Ma la rabbia era incontrollabile. Una rabbia strana che non aveva mai provato prima, che la rendeva lucida nei movimenti e nei pensieri ma la dominava totalmente. Era consapevole che se ne sarebbe liberata solo sfogandola. Su di lui. Su di lei. No, lei no. Luz era sua. Era tutta la sua vita. Anche adesso che stava tra le braccia di quel Wilson. L’immagine alimentò l’incendio che le divorava la mente. Attraversò ed entrò nell’hotel che ospitava i due amanti. La hall era squallida come la loro relazione. Fece intravedere la chiave magnetica della stanza per non suscitare curiosità nel portiere. Infilò le scale senza attendere l’ascensore. Si fermò di fronte alla 232. Non aveva la minima idea di cosa avrebbe detto o fatto. La rabbia avrebbe guidato con sicurezza lingua e corpo, costringendola a frasi e azioni di cui si sarebbe pentita per sempre. Ma a volte la vita obbliga a imboccare strade senza uscita. Chiuse gli occhi e sentí il rassicurante calore dell’ira rompere gli argini della ragione. La serratura scattò con un ronzio appena udibile. Spalancò la porta con un calcio e irruppe nella camera. Il copriletto tirato fino ai cuscini nascondeva una sagoma informe. Pensò che fossero uno dentro l’altra e non avessero fatto in tempo a staccarsi. Il dolore le strozzò la voce: – Credete che non vi veda? Fuori la testa, vigliacchi! I due rimasero immobili. Afferrò un lembo di quel tessuto liso e strattonò con tutte le sue forze. C’era solo l’uomo. Il corpo di Wilson era storto e contratto. Il sangue aveva inzuppato il lenzuolo. Non vi erano dubbi che fosse morto. Ucciso dal coltello che giaceva al suo fianco. La violenza della fine gli aveva deformato il volto. Il labbro superiore era sollevato e mostrava i denti. Non perse altro tempo e cercò il suo amore, temendo il peggio. Il minuscolo bagno era vuoto, e cosí l’armadio sgangherato e puzzolente. – Dio, ti ringrazio, – disse ad alta voce. Avvertí la presenza di una persona ferma sulla porta. Si girò di scatto. Era Luz. Una mano reggeva il cartone di una pizza, l’altra un sacchetto con un paio di birre. Il pasto frugale da consumare dopo il sesso. La donna gridò e corse verso l’uomo. Cercò di soccorrerlo, si sporcò del suo sangue. – Wilson, amore, amore mio. Lo baciò sulle labbra, sugli occhi, con tenerezza. Lei osservava, il cuore devastato dal sospetto di averla perduta per sempre. Luz la guardò. – Perché lo hai fatto? – chiese. Lei scosse la testa, tramortita dall’enormità di quella accusa. Incapace di trovare le parole giuste, si avvicinò al letto. Aveva bisogno anche lei del conforto del suo amore. Ma Luz si ribellò e con un balzo le fu addosso, aggredendola come una furia. Lei era piú forte e le bastò abbracciarla per impedirle ogni movimento. Allora la sua compagna, il suo amore, la donna che era tutta la sua vita, le vomitò addosso il suo odio. – Assassina! – gridò. Una, due, tre, quattro volte. Lei piangeva mentre la stringeva tra le braccia. Poi arrivò il portiere, spalleggiato da un facchino. I due uomini la strapparono dalla sua Luz e la gettarono a terra, immobilizzandola. Non fece nulla per difendersi, né per discolparsi. Nella mente riecheggiava quell’accusa terribile. Con la faccia schiacciata sulla moquette polverosa vide Luz uscire dalla stanza, sorretta da una cameriera. Poco dopo entrarono uomini in divisa che l’ammanettarono e la misero seduta. – Come ti chiami? – chiese uno con i capelli bianchi sulle tempie. – Ksenia. Ksenia Semënova. Il poliziotto annotò il nome sul taccuino. – Sei russa? – Siberiana. – E non te ne potevi rimanere al paese tuo? – chiese un altro poliziotto in tono duro. – Adesso ci tocca ospitarti in galera per un bel pezzo. – Non sono stata io, – disse Ksenia. – Come no! E allora è stata l’altra, la colombiana? – No. Lei è arrivata dopo. – Quindi sei stata tu. – No! Vi state sbagliando. L’agente anziano ordinò all’altro di far rientrare Luz. Quando si trovò di fronte al cadavere di Wilson scoppiò in un pianto inconsolabile. Puntò il dito contro la siberiana. – Come hai potuto? Come hai potuto, maledetta assassina? – Sei fottuta, – le sussurrò il poliziotto in un orecchio. Uno «No tengo miedo. No tengo miedo». Quando era molto emozionata o, come in questo caso, terrorizzata, Lourdes Hurtado, dieci anni, parlava a sé stessa nella lingua di sua madre. Correva a perdifiato, Lourdes, e continuava a ripetersi che non aveva paura di Robertino, Nuccio e Raffo, i tre perseguidores che all’uscita di scuola si divertivano a chiuderla in un cerchio e a spingerla, spingerla, spingerla fino a farla cadere. Se cercava di reagire erano botte, se riusciva a sgusciare via erano sassate. Quella brutta faccenda durava da due settimane, da quando Lourdes aveva innalzato con la mamma la bandiera dell’indipendenza e aveva conquistato il diritto di tornare a casa da sola alla fine delle lezioni. Del resto, l’istituto scolastico distava poche centinaia di metri da casa. Lourdes non avrebbe saputo dire come era cominciata. Forse quando Nuccio l’aveva chiamata negra e lei aveva chiarito di essere mulata. I ragazzini avevano cominciato a infilare una rima baciata dietro l’altra: mulata/sfigata, mulata/cacata, mulata/immigrata, finché Lourdes non era scappata in lacrime, ignorando la regola per cui anche se sei la piú debole devi mostrarti forte, impavida e pronta a picchiare per prima. Scappare in lacrime l’aveva messa in una posizione di inferiorità e aveva fatto di lei lo zimbello, il passatempo preferito dei tre teppistelli. Che ora la inseguivano e la incalzavano con un lancio di piccoli sassi che di tanto in tanto centravano la schiena o le gambe della bambina. Alla richiesta di mostrare la sua «patatina», Lourdes aveva reagito sputando in direzione di Robertino. Resasi conto dell’imprudenza appena commessa, se l’era data a gambe. Di solito i tre bulli, giunti al margine dei giardinetti che davano sulla scuola, rinunciavano a inseguirla, promettendole rappresaglie per il giorno successivo. Superato il cancello che delimitava l’area verde, Lourdes attraversò la strada e si voltò per controllare gli inseguitori, pronta a dileggiarli con un paio di smorfie. Con sorpresa, li vide sconfinare e puntare minacciosi verso di lei, decisi a darle una lezione esemplare. Riprese a correre, terrorizzata al punto di superare senza riflettere il bar dove ogni mattina faceva colazione con la madre, luogo ideale per trovare un rifugio sicuro. Robertino, Nuccio e Raffo avevano un anno piú di lei ed erano maschi. Ancora pochi passi e l’avrebbero raggiunta. Con una mossa disperata, Lourdes deviò in una traversa dove ricordava che erano in corso dei lavori stradali: era decisa a rifornirsi di qualche sampietrino e vendere cara la pelle. Appena ebbe svoltato, andò a impattare contro qualcuno. Una donna. Giovane. Fu tutto quello che riuscí a distinguere prima di ricominciare a correre. – Puttana negra! – urlò Nuccio, che si credeva un vero duro. – Dove scappi? – urlò Raffo, sicuro di sé come sempre. – Mulaaaata, dacci la pataaaata! – urlò Robertino, che era il creativo dei tre. Lourdes si girò e vide Nuccio strizzarsi platealmente la patta, in un gesto sproporzionato per un ragazzino di undici anni. Lourdes scappo di nuovo ma si fermò nell’udire una voce di donna apostrofare i tre ragazzi in uno spagnolo che a Lourdes ricordò la sua mamma, non per le parole, assolutamente vietate in casa, ma per il suono. – ¡Hijos de puta! Me cago en la puta madre que te parió! Maricón, déjala en paz! I tre teppistelli non capivano una parola, ma il tono e l’atteggiamento della sconosciuta furono piú che sufficienti a metterli in fuga. La giovane donna li seguí con lo sguardo ancora qualche istante, poi recuperò la valigia che, nella furia, aveva abbandonato al centro della strada. Lourdes la osservò con attenzione. Era bellissima: capelli scuri, lunghi e mossi che ondeggiavano al suo incedere fiero; gambe magre e slanciate dalla muscolatura guizzante, e uno sguardo serio e autorevole che, pensò Lourdes, avrebbe ipnotizzato un serpente. La bambina la immaginò proiettare raggi di luce rossa da quegli occhi di brace e distendere un paio di enormi ali, come un angelo guerriero. Non seppe attribuirle un’età. Per lei gli adulti erano tutti vecchi, tranne sua madre Luz e la sua compagna siberiana Ksenia. E poi, si disse, gli angeli non hanno età. Però, concluse, era meno vecchia e addirittura piú bella della sua mamma, che era già bellissima. La salvatrice afferrò il manico del trolley senza fermarsi e si avvicinò con uno sguardo che alla bambina apparve corrucciato. Lourdes la fissò dal basso in alto con infinita ammirazione e riuscí a ringraziarla in quella che per lei era la lingua madre. – Parli spagnolo? – le chiese l’angelo. – Sí. – Come ti chiami? – Lourdes. – Vivi da queste parti? La bambina annuí. – Sai tornare a casa? Per un attimo Lourdes pensò di mentire in modo da farsi accompagnare, ma siccome la madre le aveva insegnato a non dire mai bugie, rispose con rammarico: – Sí. – Sicura? – insisté l’angelo guerriero. – Sí, è facile, – la rassicurò Lourdes. – Bene. Senza aggiungere altro, la salvatrice riprese il cammino consultando un foglietto di carta. Lourdes si accorse che procedeva con passo titubante. Sembrava aver perso tutta la sicurezza di un minuto prima. – Posso aiutarti? – le urlò prima che sparisse dietro l’angolo. L’altra si voltò, tornò a guardare con poca convinzione l’indirizzo scritto sul foglietto. Lourdes agí con risolutezza. Raggiunse il suo angelo sperduto, le sfilò di mano il pezzo di carta e lo lesse con tutta l’attenzione di una brava allieva di quarta elementare. Un sorriso carico di soddisfazione le si allargò sul viso. Afferrò la giovane donna per la mano e la tirò con dolcezza nella direzione opposta. Procedette a passo spedito e il sorriso non l’abbandonò piú. Era un sorriso di trionfo perché non potevano piú esserci dubbi: quel meraviglioso angelo era venuto apposta per lei. – ¿Qué pasa, mi amor? – domandò Luz dal letto dove avevano appena fatto l’amore. Ksenia non rispose. Continuava a fissare un punto indefinito fuori dalla finestra. Da qualche mese avevano preso l’abitudine di tornare a casa durante la chiusura per la pausa pranzo della profumeria Vanità, di cui erano diventate socie insieme ad altre due amiche, Eva D’Angelo e Sara D’Avossa. Correvano a casa con il pretesto di una dieta a base di frullati e centrifughe, e spesso finivano a letto, digiune ma felici. Erano le uniche ore della giornata che trascorrevano insieme in modo assoluto, esclusivo. Poi Ksenia raggiungeva le socie in profumeria, mentre Luz aspettava con ansia materna il ritorno di Lourdes da scuola. Stentava ad abituarsi a quel rigurgito di precoce indipendenza, e i primi giorni aveva pedinato di nascosto la figlia per accertarsi che non le accadesse nulla. Lourdes era stata inappuntabile: aveva atteso il semaforo verde, guardato prima a sinistra e poi a destra al momento di attraversare la strada e non si era mai distratta con le vetrine, né aveva dato confidenza a sconosciuti. Per una settimana aveva coperto la distanza tra scuola e casa con un incedere impettito e saltellante, che rivelava la sua profonda soddisfazione. E cosí Luz si era fidata e aveva ceduto. Ma dal momento in cui la bambina rientrava a casa, il resto della giornata era dedicato a lei. Parlavano un po’ in spagnolo e giocavano fino all’ora di cena, quando Ksenia rientrava dal negozio e Luz preparava i suoi manicaretti colombiani: ajiaco santafereño, una minestra a base di pollo, patate e mais servita con panna e capperi; sobrebarriga chorreada, carne cotta al forno e in umido, accompagnata da purè di patate, e il «tesoro dell’Amazzonia», una zuppa di pesce cotto in latte di cocco, difficile da trovare a Roma. Ma soprattutto i buñuelos, palline di mais fritte e cosparse di un caramello all’uvetta e cannella. Lourdes ne andava matta. Di notte, poi, Luz e Ksenia crollavano abbracciate nel letto matrimoniale, cotte dalla stanchezza. Ma ogni tanto Luz andava a infilarsi tra le lenzuola della figlia per annusarle i capelli. Ancora non aveva deciso chi tra Ksenia e Lourdes avesse l’odore migliore. Questa era l’esistenza di Luz Hurtado, da un anno e mezzo a quella parte. Una vita che lei riteneva principesca, considerando che prima era stata costretta a fare la prostituta, poteva vedere la figlia solo una volta alla settimana e non conosceva ancora Ksenia, il vero amore della sua vita. Per questo aveva bisogno di capire cosa significasse quello sguardo fisso nel vuoto della sua compagna. – A veces no te puedo aguantar. Ksenia si girò. Luz aveva ottenuto lo scopo rivolgendosi a lei nella lingua che la compagna non aveva mai voluto imparare, forse per non invadere lo spazio riservato tra Luz e la figlia. – Che hai detto? – chiese la siberiana usando la loro lingua comune, l’italiano. – Che a volte non riesco ad afferrarti, a capire dove sei. – Non pensi mai alla tua famiglia? – domandò Ksenia, cambiando apparentemente argomento. – In Colombia? – domandò Luz. Ksenia annuí. – Al paese mi sono rimasti mia madre e un fratello piccolo che fra poco se ne andrà. Gli altri sono chi in Spagna, chi a Los Angeles. – E non ti mancano? Non provi nostalgia? – Un giorno faremo una grande reunión, una fiesta che durerà quattro giorni e quattro notti. Ma per me sei tu la mia famiglia. Tu e Lourdes. E Felix. E Angelica. Eva e Sara. È una famiglia numerosa, non credi? E poi la nostalgia ha a che fare col passato, e io voglio vivere nel presente. Ci faccio poco, col mio passato. – Sono due anni che non vedo mia madre e mia nonna, – disse Ksenia tornando a guardare dalla finestra. Luz si alzò dal letto e con passo felino si avvicinò al suo amor. Le accarezzò i capelli color miele e la baciò sulle labbra con infinita tenerezza. – Tu hai ventidue anni e sei ancora una figlia. Io ne ho trenta e sono madre da dieci anni. E questo cambia profondamente la prospettiva sulle cose. Comunque i soldi per un biglietto per Novosibirsk ce li abbiamo, e cosí te ne stai con la tua vecchia. – E tu? – Espero que el tiempo pase rápido. – Questa l’ho capita. – Lo so. Si sorrisero e tornarono a baciarsi, stavolta con passione. Luz si staccò bruscamente e domandò apprensiva: – Che ore sono? – Le quattro e mezzo passate. – Lourdes! – esclamò la colombiana, in preda all’ansia. – Tranquilla, starà per arrivare. – Lo sa che non deve fare tardi. Lo squillo del telefono le fece sobbalzare. Luz si precipitò a rispondere: – Forse è la scuola, – disse. Invece era Felix Cifuentes, che con la sua bonaria ironia si annunciò cosí: – C’è un angelo senza ali che chiede di te. Me l’ha portato un diavoletto che si chiama Lourdes. In sottofondo si sentiva la voce squillante della bambina che chiedeva di parlare con la madre. Mezz’ora dopo Luz e Ksenia suonavano alla porta di un appartamento al secondo piano di un palazzo umbertino. Vennero accolte da un bel settantenne

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