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Le origini del totalitarismo PDF

696 Pages·2017·3.6 MB·Italian
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Hannah Arendt Le origini del totalitarismo Introduzione di Alberto Martinelli Con un saggio di Simona Forti Introduzione di Alberto Martinelli 1. Attualità dell’opera A cinquant’anni dall’inizio della seconda guerra mondiale e dalla firma del patto tra Hitler e Stalin per la spartizione della Polonia, la ristampa del classico studio di Hannah Arendt sulle origini del totalitarismo appare particolarmente opportuna. Da un lato, la ripresa del dibattito storiografico sul nazismo nella Germania occidentale e l’Historikerstreit che ne è scaturito e, dall’altro, la volontà e la possibilità di molti intellettuali sovietici nell’epoca della glasnost di Gorbaciov di effettuare una analisi non falsificata della storia sovietica e di gettar luce sul totalitarismo staliniano, rendono infatti quanto mai attuale l’opera della Arendt. E il tramonto del conflitto ideologico tra i custodi dell’ortodossia marxista leninista e i difensori del «mondo libero» rendono fortunatamente improbabili sia gli equivoci, le incomprensioni e le accuse di conservatorismo e di ambiguità ideologica che sono state rivolte alla Arendt da parte della «sinistra», sia le strumentalizzazioni filo-americane della sua opera che sono state effettuate da parte della «destra». Oggi siamo quindi in grado di leggere quest’opera importante e controversa senza le lenti deformanti dell’ideologia e di valutare le tesi che essa propone con migliori strumenti critici e con maggiori dati e informazioni. In questa introduzione non intendiamo sviluppare un’analisi approfondita del contributo della Arendt, ma delineare sinteticamente la sua figura intellettuale, ricostruire gli argomenti di fondo dell’opera, confrontandoli con le altre principali interpretazioni della sindrome totalitaria e discutere alcune delle tesi piú importanti e piú controverse del libro come il carattere di assoluta novità del tipo totalitario di regime politico e la applicabilità di tale definizione concettuale al nazismo e allo stalinismo. 2. Una apolide della cultura e della politica Hannah Arendt è una delle figure intellettuali piú significative e complesse della cultura del ’900. Ebrea, profuga, costretta fino all’età di cinquant’anni a vivere di collaborazioni editoriali, si definí costantemente come un’apolide, una sradicata, un pariah, sia della politica che della cultura. Testimone consapevole e sensibilissima degli eventi e delle tragedie del proprio tempo, si formò nelle università tedesche della Germania weimariana, studiando filosofia a Marburg con Martin Heidegger e a Heidelberg con Karl Jaspers, con il quale si laureò scrivendo una tesi su Der Liebesbegriff bei Augustin e sviluppò una profonda amicizia testimoniata da un ricco carteggio. Fuggita con la madre dalla Germania nel 1933 dopo l’avvento al potere di Hitler, si trasferí prima in Svizzera e poi a Parigi dove sposò in seconde nozze Heinrich Blucher, divenne intima amica di Walter Benjamin, frequentò Raymond Aron, conobbe Bertold Brecht e lavorò per l’Agenzia ebraica occupandosi dell’espatrio degli ebrei tedeschi e austriaci dal Reich. Dopo l’occupazione tedesca della Francia settentrionale, venne internata in un campo dal governo di Vichy come straniera sospetta, ma venne rilasciata e riuscí a imbarcarsi con il marito a Marsiglia per New York. E negli Stati Uniti trascorse la seconda metà della sua vita, scrivendo opere importanti di filosofia e di teoria politica e analizzando con lucido coraggio e forte impegno civile i grandi eventi della società americana e della politica mondiale. In tutto il suo complesso percorso esistenziale, Hannah Arendt appare come un intellettuale cosmopolita e apolide, che trova i suoi termini di riferimento in tre culture, quella tedesca, quella ebraica e quella nord-americana, senza tuttavia identificarsi pienamente con nessuna di esse; e ancor meno identificandosi con le nazioni che tali culture esprimono. Nel Carteggio con Jaspers la Arendt parla molto della Germania, di Israele e degli Stati Uniti, ma con sentimenti ambivalenti e sempre con grande intuito e lucido disincanto1. La Germania rappresentava, come ella scrive in una delle sue lettere, «la lingua madre, la filosofia e la poesia». Ma la Germania non poteva certo costituire il fondamento di un’identità nazionale, come la Arendt a differenza della maggior parte degli ebrei tedeschi comprese molto presto, già prima dell’avvento del nazismo, grazie alla sua conoscenza dell’antisemitismo. Piú complesso fu il suo rapporto con l’ebraismo e con Israele. La Arendt dichiarò di «essersi educata con fatica e tormento all’esperienza ebraica» in un processo di riappropriazione delle proprie origini di natura squisitamente storica e politica, in piena autonomia dalla religione ebraica che, come ogni religione, non le diceva assolutamente nulla. La ricerca intorno alla sua appartenenza all’ebraismo iniziò con lo studio psicologico-letterario sulla vita di Rahel Varnhagen, l’ebrea tedesca non assimilata amica di Heine (un’opera che, come scrisse Walter Benjamin, «nuotava vigorosamente contro la corrente dominante della apologetica ebraica»); continuò poi in forma piú propriamente politica attraverso la sua collaborazione a diverse organizzazioni sioniste per agevolare la fuga degli ebrei dal Reich e per raccogliere fondi a favore di un esercito ebraico che combattesse a fianco degli alleati contro i nazisti; e si sviluppò infine nel rapporto arduo e sofferto con lo stato di Israele. In una serie di interventi negli anni dell’immediato dopoguerra, la Arendt sostenne la tesi che la pace in Medio Oriente e la sopravvivenza di Israele richiedevano la costituzione di uno stato non confessionale capace di offrire la cittadinanza politica agli arabi. Queste posizioni e soprattutto la sua determinazione nel cercare la verità e nel dirla tralasciando ogni calcolo opportunistico delle possibili conseguenze provocarono sovente critiche, incomprensioni e proteste da parte di Israele e di larghi settori della comunità ebraica internazionale. Tipico il suo libro sul processo Eichmann a Gerusalemme, che seguí come inviato speciale del New Yorker2. Con grande coraggio civile, ma anche con toni aspri e a volte urtanti, la Arendt denunciò le reticenze circa il fenomeno tragico del collaborazionismo ebraico e i toni teatrali del processo che rischiavano di oscurare quello che era a suo parere il punto centrale e cioè la banalità del male, che non si deve in alcun modo demonizzare o mistificare. La figura di Eichmann costituisce nella sua atroce normalità l’espressione piú inquietante del nazismo. Il tipo sociale caratteristico del totalitarismo, piú che nel demagogo senza scrupoli o nell’avventuriero che si vende al migliore offerente, è infatti rappresentato dall’individuo atomizzato della società di massa, incapace di partecipazione civile, che trova la sua nicchia in un’organizzazione che ne annulla il giudizio. Nel totalitarismo questi individui possono anche divenire gli ingranaggi di una macchina di sterminio. Si tratta di un’interpretazione impopolare e scomoda per molti: per lo stato israeliano che voleva fare del processo un processo esemplare, capace di contribuire alla legittimazione del nuovo stato, per gli stessi superstiti e i parenti e gli amici delle vittime per i quali la banalizzazione della figura del carnefice rischiava di rendere ancora piú insensate le loro sofferenze, e per i tedeschi che preferivano convincersi della eccezionalità del male perpetrato dai nazisti per ridimensionare le complicità diffuse con il nazismo e che si risentirono per il modo in cui la Arendt aveva presentato la resistenza tedesca. La Arendt dovette subire per quasi due anni in Israele, in Germania e negli Stati Uniti, una vera e propria campagna diffamatoria che la turbò profondamente. La confortò la solidarietà degli amici e in particolare di Jaspers che definí il suo lavoro su Eichmann «grandioso nella sostanza, una nuova testimonianza del tuo incondizionato desiderio di verità per quanto riguarda gli intenti, e nella forma del pensiero, profondo e disperato». Pur riconciliandosi negli anni successivi con Israele, la Arendt mantenne un atteggiamento di distacco e di critica nei confronti del nazionalismo ebraico. Un rapporto meno controverso la Arendt ebbe con gli Stati Uniti. Ma anche in questo caso il sentimento di gratitudine mai venuto meno per essere stata sospinta dalla tempesta in un paese multinazionale e aperto agli stranieri, in cui «la repubblica ha almeno una chance», non le impedí certo di criticare con intransigenza e tenacia scelte politiche dei governi americani e tendenze di questa società, dalla caccia alle streghe di McCarthy contro gli intellettuali di sinistra all’intolleranza razziale, dalla delinquenza giovanile e dal degrado dei servizi pubblici alla «dissennata, sudicia, inutile guerra in Vietnam» e di stigmatizzare la fondamentale contraddizione tra libertà politica e schiavitú sociale che si manifesta nella società americana. Vivissima fu sempre, in particolare, la sua attenzione a ogni evento o processo che potesse rappresentare un segnale di tendenza totalitaria e la sua denuncia di ogni pericolo in questa direzione, perché, come scrisse significativamente, «non abbiamo alcuna voglia di vedere ancora una volta una repubblica colare a picco». Come non è facile ascrivere Hannah Arendt a una tradizione culturale definita, cosí non è agevole definire la sua identità scientifica. La sua produzione scientifica è ricca e multiforme e comprende penetranti saggi di critica letteraria, impegnative opere filosofiche e importanti contributi di teoria politica, oltre a drammatiche riflessioni sulla condizione dell’ebreo, come la biografia di Rahel Varnhagen, e sulla tragedia dell’olocausto, come Eichmann in Jerusalem. In The Human Condition la Arendt ricostruisce la degradazione dell’idea greca di politeia3. In The Life of the Mind si propone di analizzare i presupposti filosofici del complesso processo storico attraverso il quale è stata distrutta la conquista piú preziosa della cultura occidentale è cioè la teoria e la pratica della libertà4. Nel libro sulla rivoluzione si esaminano le grandi rivoluzioni moderne per mostrare come esse, a cominciare dalla rivoluzione francese, abbiano saputo distruggere la tirannia ma non costruire la libertà5, e argomenti analoghi vengono sviluppati in una prospettiva libertaria anche nelle opere sulla violenza e sulla disobbedienza civile6. La formazione filosofica di Hannah Arendt con Jaspers e Heidegger al tempo della nascita dell’esistenzialismo si avverte in tutta la sua opera e il suo intero itinerario intellettuale è caratterizzato da uno stretto legame con la filosofia. Ma ella ha sempre ribadito la sua estraneità alla filosofia pura e, come rilevano Lotte Kohler e Hans Saner nella prefazione all’edizione tedesca del Carteggio tra Hannah Arendt e Karl Jaspers, alla filosofia in senso stretto ella aveva detto addio due volte: una volta durante la prima emigrazione, nella sua collaborazione con le organizzazioni sioniste che aiutavano gli ebrei tedeschi e austriaci a fuggire dal Reich e poi, negli ultimi anni, «nell’intento di percorrere in piena consapevolezza il cammino verso la teoria politica»7. La sua identità piú autentica è quella di teorico della politica. Si accostò alla teoria politica attraverso un composito itinerario intellettuale cui contribuirono sia una concezione della filosofia secondo la quale ogni filosofia ha conseguenze politiche e costituisce una delle premesse della politica e, per contro, la filosofia ha i suoi fondamenti anche nella vita politica reale, sia l’influenza di Heinrich Blucher che stimolò i suoi interessi nella direzione di uno studio della storia e della politica, sia soprattutto il desiderio di comprendere gli eventi grandi e terribili della storia contemporanea che avevano minacciato di distruggere per sempre la libertà dell’agire politico nella società totalitaria di massa e di fondare, come rileva giustamente Alessandro Dal Lago, «una teoria libertaria dell’azione nell’epoca del conformismo sociale»8. In questo senso la sua maggiore opera storico-politica, Le origini del totalitarismo, e la sua principale opera di teoria politica, la Vita activa, svolgono un ruolo complementare. La prima si propone infatti di analizzare le radici e i meccanismi di funzionamento dei regimi totalitari considerati come un parto mostruoso della società di massa. La seconda di rivendicare il primato assoluto dell’agire politico su tutte le altre attività umane, un agire politico nello spazio pubblico della polis. Vi è in questa concezione della politica come sfera privilegiata dell’agire umano in uno spazio pubblico in cui gli uomini possono entrare in relazione gli uni con gli altri (che si richiama esplicitamente alla polis greca) una forte critica della nozione moderna di politica, che tende essenzialmente a ricondurla all’attività amministrativa. E vi è nello stesso tempo una forte connotazione utopica, nel senso di affermare una nozione dell’agire politico come espressione diretta della cittadinanza, che trascura i vincoli posti dal governo di sistemi complessi e interdipendenti quali sono le società contemporanee. L’idea di politeia della Arendt trova infatti referenti moderni solo in esperienze circoscritte nel tempo e nello spazio come i consigli operai del periodo immediatamente successivo alla prima guerra mondiale, nella rivolta ungherese del 1956 e, per certi aspetti, nei movimenti studenteschi del 1968. Ma al di là della sua praticabilità, la sua concezione politica ha valore in quanto identifica con lucido pessimismo alcuni «mali» della democrazia moderna, e in primo luogo la costante minaccia alla libertà che deriva dalla riduzione della politica all’amministrazione dei molti da parte dei pochi, l’ipostatizzazione dello stato e la perdita di peso dello spazio politico pubblico inteso come luogo dell’interazione e del discorso tra cittadini liberi ed eguali. È questa degenerazione della politica che per la Arendt equivale a una depoliticizzazione del mondo contemporaneo, che ha contribuito all’emergere del totalitarismo, cioè del tipo di regime politico che è stato reso possibile dall’avvento della società di massa e che ha portato alle estreme conseguenze alcuni dei suoi mali. 3. Le origini del totalitarismo Le origini del totalitarismo venne scritto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, nel «primo periodo di relativa calma dopo decenni di tumulto, confusione e orrore»9. Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. Come scrive la Arendt nella prefazione alla edizione riveduta del libro nel 1966, «era il primo momento adatto per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo dello storico e lo zelo del politologo, la prima occasione per cercar di narrare e comprendere quanto era avvenuto… ancora con angoscia e dolore… ma non piú con un senso di muta indignazione e orrore impotente»10. Il contributo del libro è duplice: da un lato cerca di ricostruire il processo di genesi del totalitarismo rivisitando la storia europea recente e in particolare il periodo che va dagli anni ’80 del secolo scorso alla seconda guerra mondiale e costruendo uno schema interpretativo incentrato sul declino dello stato nazionale, l’emancipazione politica della borghesia nell’imperialismo, l’antisemitismo e lo sviluppo dei movimenti pan-germanici e pan-slavi, l’avvento della società di massa; dall’altro, analizza la dinamica dei movimenti totalitari prima e dopo la conquista del potere e costruisce un «tipo ideale» di regime totalitario, caratterizzato dalla particolare combinazione di ideologia, terrore e organizzazione del partito unico. La struttura dell’opera è abbastanza complessa e riflette la complessità delle cause e delle condizioni che hanno contribuito all’avvento del totalitarismo. Si articola in tre parti: la prima è dedicata allo studio dell’antisemitismo, in quanto elemento centrale dell’ideologia del totalitarismo nazista, e del suo rapporto con il processo di genesi e di trasformazione dello stato nazionale nell’epoca moderna, e alla analisi della condizione degli ebrei nella società europea dell’800 e del ’900 con una disamina approfondita dell’Affaire Dreyfus. La seconda parte concentra l’attenzione sull’età dell’imperialismo (ovvero il trentennio che va dalla crisi economica internazionale del penultimo decennio del secolo scorso allo scoppio della prima guerra mondiale), un’epoca «caratterizzata da una stagnante quiete in Europa e da sviluppi mozzafiato in Asia e in Africa». Il fatto centrale di quest’epoca è secondo la Arendt l’emancipazione politica della borghesia che «fino ad allora era stata la prima classe nella storia a conquistare la preminenza economica senza aspirare al dominio politico» e il suo crescente e non risolto conflitto con lo stato nazionale ottocentesco, che si dimostrò struttura inadeguata all’ulteriore espansione dell’economia capitalistica. Le tendenze imperialistiche della borghesia (o meglio di una parte di essa) e lo sviluppo dei movimenti pan-germanici e pan- slavi che accompagnarono l’imperialismo continentale europeo di Prussia e Russia e che influenzarono profondamente l’ideologia nazista e quella bolscevica sono anch’esse considerate influenze importanti nel processo di genesi del totalitarismo, accanto ad altre cause come la disintegrazione dei due grandi imperi, russo e austroungarico, a seguito della prima guerra mondiale e la esplosione delle rivendicazioni nazionalistiche delle minoranze etniche. La terza parte, infine, inizia con una riflessione sulla società di massa, «senza classi», quasi a sottolineare il ruolo determinante di questo fattore nel favorire il radicamento dei movimenti totalitari, sviluppa poi l’analisi di tali movimenti sia nella fase precedente la conquista del potere sia nella fase in cui essi sono al potere e conclude con il capitolo dedicato al binomio ideologia-terrore, che costituisce la caratteristica piú distintiva del totalitarismo. La tesi centrale della Arendt è che il totalitarismo è una forma politica radicalmente nuova ed essenzialmente diversa dalle altre forme storicamente conosciute di regime autoritario e di potere personale come il dispotismo, la tirannide, la dittatura. Laddove ha conquistato il potere, il totalitarismo ha infatti distrutto tutte le tradizioni sociali, politiche e giuridiche del paese, creando istituzioni del tutto nuove. Ha portato alle sue estreme conseguenze le caratteristiche della società di massa, trasformando le classi sociali in masse di individui intercambiabili; ha sostituito il sistema dei partiti con un movimento di massa; non ha solo preteso la subordinazione politica delle persone ma ha invaso la loro sfera privata; ha trasferito il centro del potere dall’esercito alla polizia; ha perseguito una politica estera apertamente diretta al dominio mondiale.

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