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le officine dei sensi PDF

235 Pages·1985·3.75 MB·Italian
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PIERO CAMPORESI LE O FFO NE DEI SENSI Il corpo, il cibo, i vegetali. La cosmografia interiore dell’uomo. Le meraviglie degli elementi archetipi. Un’avventurosa esplorazione tra iconologia e antropologia. GARZANTI Luoghi privilegiati dell'immaginario materiale, i sensi sono i tramiti e i produttori dello scambio simbolico tra l’uomo e il mondo. Attraverso l’analisi delle proiezioni elaborate nelle «officine dei sensi», Piero Camporesi ci conduce per i diramati sentieri dell’iconologia della vita materiale: erbe, fiori, alberi, frutti — vegetali simbolici dai contra­ stanti richiami — primo fra tutti quel «geroglifico della voluttà» che è la mela; il latte, vero e proprio liquido archetipo, la cui associazione con sangue e sperma evoca immagini di fecondazione e incubazione; il formaggio, denso di presenze invisibili e vitali, luogo sacro ai demoni delle metamorfosi. E al centro dell’universo simbolico, il corpo stesso deH’uomo, spazio emblematico aperto all'osservazione, alla dissezio­ ne e all’esplorazione anatomica, meta di viaggi gnoseologici ed estati­ ci, oggetto di diete vitalizzanti e mortificanti. *Gli eccessi mentali e le frenesie del mondo tardomedievale e barocco, di cui Camporesi coglie gli agganci con l'oggi, là dove per esempio ac­ costa il voyeurismo ascetico dell’odierna «cucina per uomini soli» al- l’«anticucina» degli eremiti, trovano il loro antidoto culturale nel silen­ zioso «sapere frenato» dei contadini e dei pastori, nato da una dura esperienza esistenziale, costruito sulle cose, fondato su uno stretto rapporto con gli elementi naturali. Piero Camporesi insegna letteratura italiana all’Università di Bologna. Ha ritrovato testi sconosciuti come il dibremiano «Romitorio di Santi- ! da» (1961) e lo «Speculum cerretanorum» di Teseo Pini (1973). Ha edito e commentato le «Lettere» di Ludovico di Breme (1966), gli «E- stratti per la tragica» di Vittorio Alfieri (1969), «La scienza in cucina» di Pellegrino Artusi (1970), il «Bertoldo e Bertoldino» di G.C. Croce (1978). Fra le sue opere più note, Il libro dei vagabondi (Einaudi 1973), La ma­ schera di Bertoldo (Einaudi 1976), Il paese della fame (il Mulino 1978), Il pane selvaggio (il Mulino 1980), Alimentazione folclore società (Pra­ tiche 1980), La carne impassibile (il Saggiatore 1983), Il sugo della vita (Comunità 1984). L. 20.000 Copertina di Fulvio Bianconi PIERO CAMPORESI Le officine dei sensi GARZANTI Prima edizione: maggio 1985 © Garzanti Editore s.p.a., 1985 Printed in Italy LE OFFICINE DEI SENSI IL GEROGLIFICO DELLA VOLUTTÀ Quid est malum? Che cosa è una mela? Un pomo sferoidale, simbolo di totalità, dalla buccia o scorza (ma si potrebbe di­ re pelle) liscia, casto nella polpa dolcemente odorosa, dalla doppia anima (maschile e femminile, anche nelFalternanza linguistica fra mela e pomo, variante preferita nel Nord-Est italiano); dalla equivoca sensualità sfumante nell’androgini- smo, paradisiaco e infernale, beatificante e conturbante, vir­ tuoso e peccaminoso, distributore di felicità corporale ma anche di malignitas, corruttore e distemperatore di umori se gustato acerbo o fuori stagione, possibile veicolo di sortilegi e incantesimi. La dendroscopia del melo e l’anatomia della mela richiedono lancette sottili, ordigni ottici penetranti. Umido geroglifico del mondo, tumido frutto del cielo e della terra, polposa escrescenza solare e lunare, questa sfera d’al­ chimia vegetale è intimamente legata allo spirito del sotto­ suolo, all’umido nascosto e opaco, alla «sostanza umida» o prima materia, principio di tutte le cose, aqua unctuosa vivifica­ ta dallo spiritus vegetativus, quidditas generativa emblematizza- ta nel serpente o nel drago, nell’idra (i58top) acquattata fra i rami o nel pedale dell’albero, fallo cosmico distillatore di li­ quidi vitali. L’albero dei pomi, dal paradisus voluptatis (scrigno d’acque di vita e di balsami fatati) all’orto delle Esperidi, figlie della notte, nelle mitologie mediterranee e d’Occidente come in quelle persiane e d’Oriente, viene costantemente associato al serpente, al rettile ctonio che ogni anno muta pelle e si rin­ nova, simbolo di rigenerazione, di energia riproduttiva, di durata vittoriosa sullo scorrere del fiume che porta alla mor­ te, di trionfo sul tempo. Del tempo che ritorna a spirale su se stesso, del passato che confluisce nelPetemo presente, del se- nex che ridiventa giovane, del nuovo che si specchia nel volto rugoso e decrepito del vecchio. 7 Frutto dalla doppia, ambigua natura solare e lunare, am­ bivalente e apparentemente antagonistica, oggetto simbolico fortemente impregnato di sessualità e d’erotismo. Secondo un illustre chiosatore di Virgilio, Servio il Grammatico, gli antichi erano soliti chiamare confidenzialmente mala (mele) i testicoli dell’uomo. Il primo impercettibile turbamento che si prova penetran­ do nell’intimità degli orti, dei pometa, luoghi inquietanti, a forte tasso d’inquinamento magico, emana dall’oscura, irri­ flessa sensazione d’essere entrati in un’area separata, diver­ sa, protetta da invisibili mura; in un ordinato teorema vege­ tale riservato a quei silenziosi organismi viventi, a quegli im­ mobili animali da noi solitamente chiamati piante. D’essere scivolati in una dimensione concreta e tangibile, eppure enigmatica e sfuggente. Un orto, un giardino, un pometo non sono certo il «luogo degli spaventi e delle apparizioni» (R. Caillois) frequenti nella grande foresta, nella ingens sylva, la ule (uAtj) primordiale fermentante di vite e di presenze enigmatiche, il cupo bosco delle avventure, degli smarri­ menti, delle metamorfosi, degli incontri a sorpresa. L’orto tuttavia, nella sua discreta, ovattata, umida atmosfera, fra il tacito scorrere di acque placide e quasi inavvertite, può esse­ re centro di seduzioni ombrose, di sottili fascinazioni eucli­ dee, le quali, diversamente dal caos silvestre, dal tumulto di­ sordinato della boscaglia, emanano dall’impianto arboreo, razionale come la mappa d’una città ideale, come una geo­ metrica scacchiera, come un matematico labirinto scandito dal «mirabile ordine»1 (Boccaccio) delle colture predisposte dalPintelligenza che le combina e le intreccia seguendo anti­ chi saperi ortensi. «Theologie vegetali»2 che facevano dell’a­ gricoltore un sofo della rotazione ciclica, un mago «natura­ le». Egli doveva essere «tinto di molte scienze, come di filo­ sofia per conoscer la natura degli elementi, primi principi dell’agricoltura, dell’astrologia (se pur ve n’è di certa) per conoscer i tempi del seminare, della geometria per misurar i suoi campi...». I segreti delle piante, gli indecifrabili messaggi policromi dei frutti, anche dei più ovvi e comuni, proprio perché sfug­ genti nel loro significato e nel loro linguaggio, non ci lascia­ no del tutto tranquilli. Essi possono apparire al nostro ormai 8 semicieco occhio, a quello che già apparve il «sole, per dir così, di quel cielo che spandesi in su la fronte, ma sole dop­ pio» (P. Segneri), oggetti demotivati, realtà ipnotiche perché «naturali»: possono, ridotti a segni insensati e incomprensi­ bili, dilatarsi in simboli enigmatici, aprirsi in voragini di se­ duzioni ottiche inesplicabili. La vita vegetale, la verde esi­ stenza linfatica, rappresenta per noi un remoto modello non umano, la diversità pressoché assoluta, Palterità conturbante e inaccessibile. Chi mai oggi s’azzarderebbe a scorgere nelPuomo Pimma- gine riflessa dell5arbor inversa, dell’albero capovolto? Chi mai oserebbe assimilare le radici ai capelli, il petto al tronco, o a vedere nelle foglie le parole, nei fiori le intenzioni, nei frutti le virtù, nelle gemme i pensieri, nei rami la forza e la poten­ za? Chi mai paragonerebbe gli uomini ad alberi capaci di movimento: «Video homines velut arbores ambulantes»? Riproducibili serialmente, ma elusive; servizievoli e do­ mestiche ma non addomesticabili, le piante, violentate da ibridazioni, contaminate da innesti, gradite ma non vera­ mente amate, conviventi ma con riservato distacco, lontane dalla nostra sensibilità urbana, dai nostri desideri artificiali di carpophagi per necessità più che per voluttà, spuntano da verdi orizzonti come fantasmi arborei relegati ai margini estremi dell’ecumene, sopravvissuti all’epopea tossica delle macchine, alla epifania del quaternario prossimo venturo. Sulle piante è spesso calata l’ingegnosità dell’uomo che nei giardini tardo-rinascimentali e barocchi ha architettato capricciose invenzioni come in un laboratorio d’alchimia ve­ getale, sperimentando intrecci, metamorfosi, snaturamenti, alterazioni. Sopra tutto egli è stupore il volger gli occhi all’infinita varietà de­ gli alberi ch’alle native lor doti giungono il sovrano decoro di straor­ dinario e incomparabile artificio: siano per nulla il lauro, il busso, l’e­ dera, il mirto effigiati in mille sembianze di navigli con vele, remi e antenne. Di castelli co’ ponti e co’ baluardi, d’animali d’ogni sorte e di tante altre copiosissime invenzioni. Abbiasi per coltura ordinaria l’esser le mura di frondoso ammanto, quasi di tante tappezzane da capo a piedi vestite. Non si faccia molta stima de’ pergolati che ras- sembrano e logge e camere: ma che diremo dell’uva vuota di seme, delle rose che ci porporeggiano a mezzo inverno, e de’ dolcissimi pomi che nascono su gl’ispidi e pungenti frutti? Non ci colmerà di maravi­ 9 glia la tanta varietà di pere, fichi e sosini; vedere il persico co’l sapore della noce; i cedri e i pomi granati di succo temperatissimo tra l’agro e ’1 dolce, ch’ai palato non può trovarsi cosa più dilettevole; non ci farà inarcar le ciglia, lo scorgere ch’in uno istesso ramo di vite maturi l’uva col colore delle ciriege al tempo ch’aitresì le sudette goder si la­ sciano? E che in uno istesso cespuglio germogliano insieme le rose bianche e vermiglie, con cento e mille altre stravaganze, effetti singo­ larissimi dell’industria ed esquisitezza dell’arte, senza la quale non so­ lo ne’ giardini, ma nell’aperte campagne ogni albero e ogni pianta scemerebbe (tra breve spazio) di utilità e di vaghezza.4 Gli «orti estensi» visti dalPocchio di Tomaso Caraffa si deformano in uno scenario denso d’esperimenti innaturali, d’intrecciati giuochi artificiali, in un teatro di premeditata violenza contro il mondo alla clorofilla manipolato innatu­ ralmente dalla contorta e lambiccata ingegnosità umana. Ma l’enigma della muta e docile condizione vegetale condu­ ce a un labirinto oscuro e inquietante. L’orto può offrire bri­ vidi e inoculare delizie non riproducibili negli interni urba­ ni. I giardini aerei di Babilonia aperti alle vertigini, quelli seminati da Semiramide dalla Mesopotamia fino all’Indo, gli orti di Salomone e quelli d’Alcinoo, quelli domestici d’E- picuro (da cui il filosofo traeva «summam voluptatem ex malorum simplicium comestione»), il giardino delle Esperidi e quello di Venere, il paradiso deliciano (l’Eden delle sen­ suose delizie, il biblico paradisus voluptatis) incombono, remoti e spenti rottami mitologici, come allucinazioni libresche sul nostro esangue immaginario postmoderno boccheggiante in un mondo superaffollato nel quale i grandi spazi dei giardi­ ni barocchi aperti alle metamorfosi più imprevedibili e alle figurazioni mitologiche più scenografiche apparirebbero in­ comprensibili sprechi, maniacali giuochi dispersivi: ...giardini con le peschiere che sembran mari; con le uccelliere che chiudon boschi; co’ serragli che contengon paesi; co’ mirti, Protei tra gli alberi, dove formati in un minaccioso Centauro, dove ordinati in ben corredato naviglio, dove in un’aquila alzati a volo, dove con varie spire raggirati in un labirinto: con tanti bei giuochi d’acque, che nel ricuperare la perduta libertà, in graziosi salti spiccandosi, si spandono in cieli, si sfilano in zampilli, si dipingono in iridi: gorgogliando, rom­ pendosi con artificio sì grande, che diano i fischi a’ serpenti di stucco, le armonie ad instromenti di bronzo, le voci ad ussigniuoli di marmo.5 10 Se in passato, in una società che viveva in stretto contatto col mondo vegetale, la terra era sentita come matrice fecon­ da non molto dissimile dalla Panspermia primigenia dove «omnium rerum et corporum substantiae et semina... tan- quam ex foecundo foetu omnia suum esse per successivam productionem nancisceretur»,6 gli orti e i giardini rappresen­ tavano i vitali emblemi della fecondità, i serbatoi umidi e fermentanti di essenze e di sostanze che, fecondate dal «vi­ gor vivace» della virtù generativa, maturavano felicemente i loro frutti. Gli dei degli orti si ergono, membruti simulacri di vis generativa, turgide erme falliformi, in un anfiteatro vegeta­ le dove Vertunno «fecondissimo padre», «dio possente e fe­ race, / dal cui vigor vivace / virtù generativa traggon radici e semi», campeggia, policroma presenza. Condensato di tut­ ti i prodotti ortivi, il suo corpo è formato da una «fantastica mistura» «d’ogni ragione di frutto / commessi insieme in ru­ stica figura» : D’un gran popone è fabbricato a spicchi ne il globo de la testa. Due pome casolane dipinte d’un rossor ridente fresco compongono le guance. Ufficio d’occhi e di palpebre fanno due nespole acerbette, tra cui di naso in vece grossa e piramidal pera discende... Di cocomero è il ventre e di cotogna son le ginocchia, e tra le cosce tende fatto d’un cedrolotto noderoso e ritorto il membro osceno.7 Le immagini della virilità, per «virtute occulta ed artificio ignoto / di strania agricoltura» trionfano in uno scenario di gonfia e vibrante sessualità. La potenza seminale celebra la sua esibizionistica parata dispiegando mostruosi ostensori di potere fecondatore, «d’amori e di trastulli, / di lascivie e di vezzi / lusinghevoli oggetti... l’offeriscono innanzi»: ... pendenti aranci osceni, grossi limoni e smisurati cedri... figurando in se stessi di gran membra virili 11

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Luoghi privilegiati dell'immaginario materiale, i sensi sono i tramiti e i produttori dello scambio simbolico tra l’uomo e il mondo. Attraverso l’analisi delle proiezioni elaborate nelle «officine dei sensi», Piero Camporesi ci conduce per i diramati sentieri dell’iconologia della vita mater
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