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Le Muse a Los Angeles PDF

229 Pages·2018·1.18 MB·French
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Ladri di Biblioteche Alberto Arbasino Le Muse a Los Angeles Adelphi eBook Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata Prima edizione digitale 2018 © 2000 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it Published by arrangement with The Italian Literary Agency ISBN 978-88-459-8011-4 LE MUSE A LOS ANGELES I Il nome «Getty», prima delle tristi saghe familiari, evocava soprattutto allegria mondana e musica giovane. Il vecchio era remoto, nelle sue uggiose leggende di tirannide e tirchieria: solo Federico Zeri bofonchiava benevolo. Correvano stucchevoli aneddoti sulla parsimonia minuta: i conti ogni sera per le spese in giornali e taxi; i telefoni a gettoni in casa per gli ospiti; le calze lavate da sé nelle stanze d’albergo; il primo Getty Museum a Malibu aperto solo come espediente per deduzioni fiscali; e il riscatto per il nipote rapito versato ai banditi solo per la quota «tax deductible». I calcoli assicurativi davanti al Pantheon, approvato perché tanto ben costruito da far risparmiare duemila anni di polizze antincendio, con tutti gli interessi composti. Mai qualcosa di buffo o divertente. Né «un briciolo» di sense of humour. Ma in giro si vedevano molto Paul II e la stupenda Talitha, «la più bella e più giavanese e strana fra Roma e Marrakech», secondo la café society e nelle foto di Elisabetta Catalano. (E poi perita, inopinatamente, per un grande panico in casa dopo una piccola overdose d’epoca). Fu il primo matrimonio con juke-box, festoso e danzante e molto ‘hip’ e ‘pop’ nelle ampie stanze cardinalizie e vuote di Cy Twombly e Tatia Franchetti in via Monserrato. (Il dinner danzante con juke-box in cantina fu istituito da Judy Montagu sotto l’Isola Tiberina – le latebre di Esculapio – per Bob Rauschenberg e il duo «Trummy & Mommy», cioè Truman Capote e la moglie del giudice che l’aveva aiutato per In Cold Blood. Lì cuscini indiani e lapidi con epigrafi usualmente accomodavano Princess Margaret e Diana Cooper, Cyril Connolly, Harold Acton, Robert Graves, Patrick Leigh Fermor e il marito di Judy, Milton Gendel. Al loro telefono si sentiva rispondere «Brando speaking». Era Marlon, che girava Riflessi in un occhio d’oro a Latina, con John Huston e ‘Liz’. «Judy fu la prima a rendersi conto che era finita la guerra» spiegò Evelyn Waugh). Allora però le case spalancate ai va-e-vieni d’amici con drinks e con ospiti non ponevano ‘problems’. Anche se qualche volta confondendo i portoni e i piani si entrava ballando e cantando in un party sbagliato. O forse ancora più giusto, perché nelle vie rinascimentali e papali ce n’erano diversi in ogni palazzo con allegre contesse e ameni stranieri. (Hello Jenny, dear Alice, ciao Gore, chère Natalie...). Paul e Talitha, che nasceva Talitha Pol e quindi poteva suonare come un joke, abitavano senza birignao né smancerie all’ultimo piano del vecchio palazzo Muti-Bussi, all’angolo fra le Botteghe Oscure e la via d’Aracoeli e tanti saluti a D’Annunzio; e ricevevano spesso, molto volentieri anche di giorno. Colazioni in altana con le celebri redattrici di moda inglesi e americane, e i nuovi musicisti sperimentali. E viste sulle terrazze Pecci- Blunt, Caetani, Antici-Mattei. C’era una enorme raccolta di nastri e dischi ordinatissimi nelle boiseries scure dei salotti- archivio, i divi del rock erano amici di casa e il bambino si chiamava Gramophone. Davano bei pranzi musicali attorno a Via Veneto: all’Harry’s Bar per Marilyn Horne e Shirley Verrett che avevano cantato nei Troyens di Berlioz alla Rai con Georges Prêtre. (Bei tempi, per le Didoni: quella di Purcell alla Filarmonica fu interpretata dalla giovane e bella Jessye Norman. E fu lì che Maria Luisa Astaldi, alla fine, disse «Mario ti vedo stanco, ti accompagno a casa» a Mario Praz, che avrebbe preferito venire al pranzo per la diva, nella villa di un avvocato filarmonico in via Germanico. E qui improvvisamente le luci si spensero. E tutti, vedendo passare in strada l’automobile Astaldi con su il Professore: «ecco, l’Anglologo ci saluta»). Paul produceva lp classici: mi regalò con orgoglio («è una mia giovane scoperta, Lucia Popp») un Re Pastore inciso a Napoli anche con Luigi Alva e Reri Grist, diretto da Denis Vaughan, il maestro australiano che riscontrava centinaia di errori nelle partiture verdiane di Ricordi e sedeva al clavicordo per intenditori serali nel suo appartamento sul Gianicolo. E Paul volentieri indossava le bellissime camicie colorate e attillate (eravamo tutti sottili) e le djellabe swinging di «Deborah and Clare», in Beauchamp Place, scoperte addirittura prima dei Rolling Stones. Cassetti e scaffali pieni... Erano riservati, sempre più discreti, soprattutto dopo l’orrido rapimento del figlio più grande, con la storia dell’orecchio tagliato, e quindi la barbarie del «quartiere Getty» costruito in una periferia calabra abusiva coi denari versati in silenzio dal nonno terribile. Ma poi esibito dai boss elettorali – quale ‘testimonial’ delle iniziative locali – davanti ai meridionalisti «in campagna» e «sul territorio». In seguito, come nei racconti di Henry James, Paul divenne un «recluso» nell’antico studio di Dante Gabriele Rossetti, a Cheyne Walk. Accanto alla casa festosa dell’editore George Weidenfeld e delle sue mogli successive, con graziose eliografie erotiche di Klimt nei bagni: le stesse che Giancarlo Marmori mi faceva comprare alla Libreria Vinciana in Montenapoleone, quando erano ancora «una scoperta», e i prezzi scattavano da cinque a cinquantamila lire in pochi giorni. E il direttore della Royal Academy: «very expensive reproductions», quando furono esposte al Barbican per il ciclo Mahler-Abbado della London Symphony. Più tardi giungevano da quella segreta Chelsea e da una campagna padronale più benigne notizie: Paul ora eccellente e competente collezionista di manoscritti, disegni, incunaboli, codici importantissimi... Un po’ ingrassato. Risposato. Dottissimo. Prodigo nelle elargizioni per mantenere in Inghilterra le «Tre Grazie» di Canova già acquistate dal Getty Museum. Tra gli altri figli delle diverse nozze del vecchio, secondo le cronache deprimenti dei giornali a colori, uno si sarebbe suicidato e un altro fu diseredato (ma ricevendo in dono alcune scatole da scarpe zeppe di diari paterni impubblicabili), mentre una sorella divenne nuora di Elizabeth Taylor e apparve spiacevolmente fotografata quando si ammalò di Aids. Gordon, il fratello musicista di San Francisco, arrivò più tardi e timidamente a Spoleto. Preceduto con un importante aereo privato alle massime sfilate di Valentino (sul Celio, agli studios Safa-Palatino) dalla bellissima e intraprendente moglie Ann. Che per qualche stagione divenne addirittura editrice, associandosi all’imperterrito Sir e poi Lord George Weidenfeld. E comprando perfino la famosa o famigerata Grove Press di Barney Rosset, l’editore storico e pionieristico di Beckett e Burroughs, della Lady Chatterley «più inespurgata» di tutte. Anche co-fondatore del Premio Formentor, con Einaudi e Gallimard, Rowohlt e Barral. E lì si videro nuovamente dei mecenatismi impegnativi, come nelle storiche tornate ‘formentoriane’ a Maiorca e a Salisburgo e a St-Raphaël con Moravia e Vittorini e Contini in mutandine balneari e baleari, Carlo Levi e Angus Wilson, Mary McCarthy e Nathalie Sarraute. Dunque, convegni a tema nelle capitali culturali più morenti o più rinascenti; e infine un ampio congresso di letteratura internazionale creativa e critica a Washington, nella sala più illustre della Library of Congress. Con John Updike e Octavio Paz ed Elizabeth Hardwick e Mario Vargas Llosa ed Hector Bianciotti e William Gass e noi: Roberto Calasso, Masolino d’Amico, Inge Feltrinelli, Claudio Magris. E l’immancabile impeccabile brindisi professionale di Enzensberger, in una ricaduta di pranzi perfino alla Phillips Collection, fra le patrone patrizie e i loro migliori Matisse e Courbet e Vuillard: addirittura la «Piazza del Popolo» di Bonnard accrochée in salotto per gli ospiti romani. E l’inappuntabile mecenatessa: «Glad you loved our Roman painting». Gordon e Ann affittavano ogni estate una villa a Salisburgo, per il Festival, sulla collina di giardini accanto allo Schloss Arenberg, dove c’è l’archivio di Max Reinhardt. E in una coppa all’ingresso ogni mattina gli ospiti più solleciti potevano scegliere i biglietti per i vari spettacoli. Ma a una elegante prima di Capriccio lui non apparì in teatro, né arrivò dopo a tavola al Goldener Hirsch. Lei parve rammentarsi che forse era chiuso nel suo bagno, dove c’erano problemi per aprire dall’interno. George Weidenfeld prontissimo spedì due camerieri dell’albergo, in taxi con gli attrezzi. Lo recuperarono, e così poté incominciare il pranzo con l’eminente soprano Regina Resnik. Poi l’opera da concerto Plump Jack di Gordon – un neo- Falstaff rielaborato dai drammi storici di Shakespeare, Henry IV e Henry V, con inni e canti religiosi e militari autentici, su libretto di Gordon stesso – fu eseguita durante il Festival di Spoleto, però fuori dal programma ufficiale. E il pubblico elegantissimo, anche giunto con l’immenso aereo del compositore, applaudì vivacemente dopo la prima parte del concerto, anche gridando «Bravò Gordon!», senza controllare che era stato eseguito l’Idillio Im Sommerwind di Anton Webern. (Sul programma era scritto in piccolo). Gordon là dichiarò: «Sono stato incapace di comporre per ben diciotto anni, perché non sopporto di dover decidere tra cinque soluzioni ugualmente buone, ho bisogno della soluzione migliore». E: «Per un uomo grasso come Falstaff un pianoforte non basta. Per lui ci vuole un’orchestra. Io non sapevo niente di orchestrazione, ma sono tutti ostacoli che si possono superare». Un certo suo «canto preoccupato» poteva forse discendere da talune opere nautiche e osservanti di Britten? Quando poi ci fu un signorile e fine pranzo Feltrinelli per Ann a Milano – tutto musicale fra la Scala e la canzone – lei fu sincera e fattuale con Leopoldo Pirelli e con Milva: «La Tosca? Ma io non vado all’opera neanche a San Francisco, noi siamo soprattutto sponsors». Intanto, nelle vacanze, si fuggivano con leggerezze non ancora ‘autorizzate’ (e per niente in) le tetre e trucide estati europee del provincialismo dottrinario e del piombo ideologico: preferendo spassionatamente correre «on the road» e «in the mood» («liberi e belli! ch’elle mi credan libero e lontano, care Fanciulle del West! rinnegati e felici come le vecchie Butterfly, cha-cha!») su e giù tra San Francisco e Hollywood, e le mille luci della Bay Area. Dunque allegramente rifiorendo nel corpo e nello spirito irriverenti, ma esigentissimi nei bisogni e

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