Le cefalee: manuale teorico-pratico Breve storia delle cefalee III Gennaro Bussone • Gerardo Casucci • Fabio Frediani Gian Camillo Manzoni • Vincenzo Bonavita Le cefalee: manuale teorico-pratico IV R. De Simone Gennaro Bussone Gian Camillo Manzoni U.O. Neurologia III - Cefalee Centro Cefalee, Dipartimento di Neuroscienze Dipartimento di Neuroscienze Cliniche Ospedale Maggiore Fondazione I.R.C.C.S. Università degli Studi di Parma Istituto Neurologico “C. Besta” Parma Milano ASC –Associazione per una Scuola ASC –Associazione per una Scuola delle Cefalee delle Cefalee Vincenzo Bonavita Gerardo Casucci Dipartimento di Scienze Neurologiche U.O. di Medicina Generale Università degli Studi di Napoli “Federico II” Casa di Cura “S. Francesco” Napoli Telese Terme (BN) ASC –Associazione per una Scuola ASC –Associazione per una Scuola delle Cefalee delle Cefalee Fabio Frediani U.O. Neurologia, Centro Cefalee Policlinico “S. Pietro” Ponte San Pietro (BG) ASC –Associazione per una Scuola delle Cefalee ISBN 978-88-470-0753-6 e-ISBN 978-88-470-0754-3 Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’utilizzo di illustrazioni e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisi- va, alla registrazione su microfilm o in database, o alla riproduzione in qualsiasi altra forma (stampata o elet- tronica) rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. La riproduzione di quest’opera, anche se par- ziale, è ammessa solo ed esclusivamente nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore, ed è soggetta all’au- torizzazione dell’editore. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. Springer-Verlag fa parte di Springer Science+Business Media springer.com © Springer Italia 2008 L’utilizzo in questa pubblicazione di denominazioni generiche, nomi commerciali, marchi registrati, ecc. anche se non specificatamente identificati, non implica che tali denominazioni o marchi non siano protetti dalle rela- tive leggi e regolamenti. Responsabilità legale per i prodotti: l’editore non può garantire l’esattezza delle indicazioni sui dosaggi e l’im- piego dei prodotti menzionati nella presente opera. Il lettore dovrà di volta in volta verificarne l’esattezza con- sultando la bibliografia di pertinenza. Layout copertina: Springer Medicom, Milano Impaginazione: C & G di Cerri e Galassi, Cremona Stampa: Grafiche Porpora, Segrate Stampato in Italia Breve storia delle cefalee V Prefazione Questo libro elabora in maniera più estensiva i contributi didattici presentati ai corsi dell’Asso- ciazione per una Scuola delle Cefalee (ASC), braccio formativo dell’Associazione Neurologica Italiana per la Ricerca sulle Cefalee (ANIRCEF). L’obiettivo principale dei Corsi ASC, e quindi anche di questo volume, è quello di un in- contro e di un confronto tra la ricerca clinica e l’esperienza clinica. Si può giungere infatti ad una maggiore comprensione della patologia cefalalgica proprio at- traverso la stretta continuità fra ciò che l’esperienza clinica suggerisce e ciò che la ricerca ri- propone. Le cefalee, infatti, vanno acquistando una sempre maggiore rilevanza per i problemi geneti- co-epidemiologici e per le nuove acquisizioni nel campo della fisiopatologia, che stanno apren- do nuove frontiere terapeutiche. Tutti gli argomenti trattati ripropongono un percorso metodologico unitario, quale guida per l’approfondimento diagnostico e terapeutico. Alcuni capitoli hanno carattere prevalentemente didattico, con l’intento di rivolgersi ai più giovani che non avendo una conoscenza specifica della materia possono essere sollecitati ad ac- quisire maggiori conoscenze, altri affrontano problemi clinici di particolare interesse o espon- gono le linee di ricerca che si sono sviluppate in questi ultimi anni. Si è cercato di ottenere la maggiore omogeneità possibile degli elaborati, talora con non po- chi problemi, ma riteniamo di averli risolti dando alla stampa un testo moderno e facilmente consultabile. Ringraziamo tutti i colleghi che hanno collaborato alla realizzazione di questo progetto, nel- la convinzione che nella soluzione di qualsiasi problema solo l’apporto collettivo sia la strada da percorrere. Infine, un ringraziamento particolare alla Signora Tina Pappalardo per il prezio- so contributo redazionale e a Springer per la collaborazione fornita. Ci auguriamo che questo testo possa essere di utilità teorica e pratica a tutti coloro che aspi- rano ad una migliore conoscenza delle cefalee e delle algie cranio-facciali. I Curatori Breve storia delle cefalee VII Introduzione: ma serve insegnare? Questa introduzione riporta integralmente una lettura con cui si è dato inizio al VII Corso ASC (Frascati, 8-10 giugno 2007), con un dibattito sulla metodologia generale della conoscenza, sul- la metodologia della diagnosi clinica per congetture e confutazioni e sulla metodologia dell’in- segnare. Essendo i suoi contenuti solo in minor parte pertinenti alle cefalee, essa non avrebbe dovuto trovar posto in questo volume. Si è ritenuto opportuno, tuttavia, accoglierla perché essa vale a far comprendere il significato di un impegno didattico perseguito senza pause e da cui è nato anche questo “manuale teorico-pratico”. Lo scopo di questa lettura è dar conto a voi delle ragioni che otto anni fa hanno spinto me, Gennaro Bussone e Giancamillo Manzoni a dar vita ad una Scuola delle Cefalee. La motivazio- ne autoreferenziale era la seguente: un metodologo clinico, conoscitore del tema come non può mancare di essere un clinico neurologo, e due clinici neurologi con la conoscenza del tema che può derivare dalla ricerca sul tema stesso (Gennaro Bussone interessato a problemi fisiopatolo- gici e terapeutici, Giancamillo Manzoni interessato a problemi epidemiologici e sistematici), po- tevano comporre una triade virtuosa per insegnare. Ovviamente rimaneva aperto il problema di fondo in cui si imbatte chi organizza una scuola e non dico questa ma qualunque scuola: ma ser- ve insegnare, ammesso che si sia capaci di insegnare? Parto da lontano con un quesito, che è so- lo in apparenza il reciproco del primo: perché impariamo? Risponderò citando Platone e l’Apo- logia di Socrate: “Mentre veniva preparata la cicuta Socrate imparava un’aria sul flauto. A cosa ti servirà? gli fu chiesto. A saper quest’aria prima di morire”. È il concetto del servire che ap- pare qui stravolto, non essendo più l’utilità del servire che viene proposta come unità di misura ma la conoscenza in sé. Fin qui Socrate e Platone che condivide ed esalta il primo. Ma la realtà, come dimostreremo, è forse più semplice e più complessa al tempo stesso. Michel de Montai- gne scrisse riferendosi alla lettura: “Non faccio niente senza gioia”, e Pablo Casals a chi gli chie- deva come mai avesse generato un figlio all’inconsueta età di 81 anni rispondeva: “Perché la- voro e faccio ogni cosa con gioia”. Dunque, la condizione non rinunciabile del fare (leggere, ri- cercare, e ovviamente insegnare) è la gioia del fare. Tale è stata per noi tre (Gennaro, Giancamillo e io) la condizione non rinunciata e pienamente vissuta nell’istituire e poi far vivere la nostra scuola delle cefalee. Come vedete non manco di continuare ad essere autoreferenziale, ma il pro- blema che rimane è la qualità della richiesta di chi già medico, già neurologo ricerca l’insegna- mento in medicina clinica. Riparto da lontano con un esempio: quello della lettura e della rilet- tura. Ripensate alle lezioni di letteratura italiana che avete vissuto da giovanissimi studenti di li- ceo: il piacere del leggere era deliberatamente proscritto che si leggesse Guicciardini o Metastasio, Parini o Alfieri, Foscolo o Leopardi. L’insegnare a leggere precludeva la gioia del leggere; non era il leggere in sé che veniva richiesto, ma ascoltare le chiose e i commenti sul testo che così veniva di fatto sottratto alla lettura. Ritorna imperativo con l’esempio della lettura a scuola il mo- nito del fare, inclusi l’insegnare e l’imparare, con gioia. VIII Introduzione: ma serve insegnare? Ma qual è il rapporto tra l’insegnare e la retorica scientifica? Insegnare (imparando) e imparare (insegnando) sono momenti essenziali della retorica scien- tifica, che si configura come un dibattito a tre alla ricerca della verità quale congettura non confutabile (o se vi piace di più come ipotesi non falsificabile): il problema, chi insegna e chi impara. Ma quella ora indicata non è altro che la trasposizione del metodo sperimentale alla clini- ca, sulla base della filosofia popperiana della conoscenza come sequenza di congetture e con- futazioni. Siamo così al centro del mondo dell’insegnare tanto più complesso quanto maggio- re è la cultura generale e specifica di chi ascolta per imparare. E ritorno così all’esempio del- la lettura ma come rilettura, esempio assolutamente pertinente per chi rivisita in un corso come il nostro un’area disciplinare già visitata, alla ricerca di più informazione e perché no di un maggiore rigore metodologico. È stato scritto che un libro è diverso per ogni generazione di lettori, per ogni singolo lettore e per lo stesso lettore che torna a rileggerlo: sembra riscritto in ogni epoca in cui lo si legge e ogni volta che lo si legge. È stato scritto ancora che il “il pia- cere di rileggere è enormemente superiore a quello di leggere”. Rileggere (nel nostro caso reimparare ampliando) è dunque un leggere carico di tutto quello che, tra una lettura e l’altra, è passato su quel libro sia dentro di noi che nel mondo che ci cir- conda. Ma se è così per il leggere perché non dovrebbe accadere lo stesso per il reimparare, per ripensare il già pensato, per rivisitare il già conosciuto? Dal quesito introduttivo (ma serve insegnare?) sono scivolato gradualmente verso il quesito complementare: ma serve impara- re? Qui non v’è dubbio sulla risposta: anche senza riferimento a Socrate, imparare è impe- rativo quando il risultato dell’apprendimento è trasferibile alla comunità in cui si opera ed in particolare alla comunità che chiede aiuto perché in sofferenza. Se leggere in generale è, fuori dalla scuola, un atto volontario che non tutti compiono, estendere le conoscenze nella propria area disciplinare ed esercitarsi nell’applicazione del metodo che le utilizza è un at- to di volontà condizionata dalla coscienza deontologica. Utilitarismo dunque ma utilitari- smo etico che, se vale per chi impara (insegnando), non può non valere per chi insegna im- parando. Chi mi conosce sa che ricordo sovente un’affermazione di Isaac Singer, premio Nobel per la letteratura: “Il miglior modo di comprendere una disciplina è esserne profes- sore”. L’utilitarismo etico ritorna così anche per Gennaro Bussone, Giancamillo Manzoni e me stesso, che con gli altri docenti di questo corso abbiamo ritenuto senza umiltà di poter insegnare. Sono caduto nel “particolare” guicciardiniano, ma voglio ritornare al problema più gene- rale dell’insegnare fuori da questo corso e fuori dalla medicina clinica. Ritorna l’imperativo di Montaigne: la gioia di conoscere e far conoscere senza utilità derivata. Emblematica la ri- sposta di Italo Calvino a chi gli chiedeva a che cosa serve leggere o rileggere libri: “A nien- te, ma è meglio leggerli che non leggerli”. Lo scrittore francese Daniel Pennac ha raccontato che durante il servizio militare sceglieva sempre la corvée della toilette (che nessuno amava fare) perché, sbrigato velocemente il compito, si richiudeva nell’ultima toilette, e così a por- te sprangate lesse tutto Gogol. Come vedete la gioia del conoscere non sceglie il luogo; qual- cuno ricorderà che Clemenceau era grato alla sua stitichezza che gli aveva consentito di leg- gere le “Memorie” di Saint Simon. Nelle battute introduttive di questa lettura v’è stato un riferimento alla metodologia clini- ca come replicazione del metodo sperimentale e della filosofia della conoscenza che procede per congetture e confutazioni. Tale riferimento rimanda giustamente a Karl Popper ma, nella ricerca di anticipazioni storiche, dovrebbe rimandare ad Augusto Murri e al metodo elimina- tivo proposto nelle sue lezioni di clinica medica all’inizio del secolo scorso. Val dunque la pe- na di fermarsi sulla definizione di congettura e ipotesi ma ancor prima sul termine intuizione Introduzione: ma serve insegnare? IX che ritorna sovente con il riferimento al cosiddetto intuito clinico, come se l’intuizione potes- se proporsi quale modalità alternativa all’ipotesi. L’aneddotica scientifica racconta che il chimico tedesco August Kekulè abbia intuito la for- mula chimica del benzene in sogno e che l’inglese Alan Turing abbia intuito la macchina lo- gica universale mentre era in un placido dormiveglia su un prato. Ma cos’è l’intuizione? In fi- losofia è una forma privilegiata di conoscenza, che consente di ottenere il possesso immedia- to e totale dell’oggetto conosciuto. Non siamo lontani dall’affermazione di Plotino e di Tommaso d’Aquino i quali definivano intuizione l’atto immediato e totale con cui Dio conosce il mon- do. È stato scritto da Pietro Greco in “Einstein e il ciabattino; dizionario asimmetrico dei con- cetti scientifici di interesse filosofico” (Editori Riuniti, 2002) che oggi possiamo definire “in- tuizione quell’atto creativo, magari meno istantaneo e meno globale dell’atto divino, che cia- scuno di noi compie quando afferra una qualche verità, in genere logica e/o scientifica, senza dover passare attraverso la sua dimostrazione formale. Volendo ricorrere a una metafora, po- tremmo dire che l’intuizione è un tunnel che alcuni riescono a scavare sotto le procedure del- la logica formale e/o della dimostrazione fisico-matematica, per giungere alla verità (anche a una verità relativa e provvisoria, com’è sempre quella della scienza)”. Fermarsi sui meccanismi mentali dell’intuizione, ed in particolare dell’intuizione clinica può apparire fuori dal tema di questa lettura introduttiva, ma l’associazione di conoscenze a prima vista remote se ne propone come fondamento. Se così è, è anche ovvio, che quan- to maggiore sarà il numero delle conoscenze remote e non, sommerse e non, maggiore sarà il numero delle intuizioni possibili. Mi fermo qui, ma sarò costretto a ritornare sul tema del- l’intuizione quando analizzerò, nel contesto metodologico della diagnosi clinica, il concet- to di ipotesi cui riconduco l’intuizione. Pur rivisitata e costretta in termini che allontanano l’intuizione umana dalla conoscenza intuitiva e cioè globale del mondo da parte di Dio, si può pur affermare che l’intuizione svolge un ruolo decisivo nella fantasia scientifica antici- patoria. Il nostro problema è, tuttavia, assai più concreto e circoscritto. Se ritornate agli esem- pi di Kekulè e di Turing, non potrete negare che il concetto di intuizione è di grande inte- resse per la psicologia della scoperta scientifica, ma in questa sede è necessario chiedersi se ne è pari la validità ai fini della diagnosi clinica, che non può eludere il rispetto non sotter- raneo delle procedure della logica formale e/o della dimostrazione fisico-matematica. La ri- sposta è di immediata evidenza: Kekulè e Turing sono rarità stocastiche; la maggior parte di noi può e deve ritrovare fondamenti solidi dell’argomentare nel rispetto lucido e rigoro- so delle procedure della logica formale. L’intuizione è infatti per molti a rischio di errore, anche se essa non rifiuta la logica formale e anzi l’applica ma senza la coscienza di appli- carla. Ne deriva l’utilità-obbligatorietà delle ipotesi nella ricerca di qualunque verità, inclu- sa la verità clinica. L’ipotesi è la base procedurale del metodo che caratterizza la ricerca scientifica e perciò anche il procedimento diagnostico. I filosofi dell’antica Grecia consideravano l’ipotesi come la premessa non verificata e non immediatamente verificabile di un discorso. Platone soste- neva che ogni discorso (e quindi anche il dibattito clinico) inizia con un’ipotesi. Se è così, ed è così, il segreto del buon ragionare consisterà nella capacità di scegliere ipotesi “forti”. Ma con riferimento alla diagnosi clinica, quale sarà la definizione cui aderire per selezio- nare l’ipotesi “forte?”. Il filosofo indicherà come forte l’ipotesi che meglio resiste alle argo- mentazioni che si propongono di demolirla. Al contrario il clinico adotterà un criterio di pro- babilità/semplicità per le ipotesi da confutare, che ordinerà in sequenza decrescente di rap- presentazione epidemiologica, l’ipotesi più forte per il clinico essendo l’ipotesi che ha più probabilità di non essere demolita dalle argomentazioni confutanti che, nel procedimento dia- gnostico, sono i quesiti anamnestici mirati dopo la storia di malattia resa liberamente dal pa- ziente e poi la semeiotica clinica e poi la semeiotica strumentale. X Introduzione: ma serve insegnare? Lasciatemi ritornare alla storia. Dopo le anticipazioni metodologiche di Descartes, il meto- do scientifico ritrova la sua rappresentazione compiuta con Galileo, il quale verifica sperimen- talmente le ipotesi interpretative che formula da filosofo della natura: valga per tutti l’esempio dei gravi in caduta, uniformemente accelerata. L’esperimento del piano inclinato verifica l’i- potesi, converte cioè l’ipotesi in verità naturale. È sulla base di tali antecedenti storici che Clau- de Bernard definiva l’ipotesi “interpretazione anticipata dei fenomeni della natura”, definizio- ne non diversa da quella più antica di John Locke quale “causa presunta di un fenomeno os- servato”. La peculiarità del clinico rispetto al ricercatore interessato ai fenomeni della natura è che il primo fenomeno in cui si imbatte il clinico è la storia di malattia, fenomeno naturale de- viante, ed è sulla storia che il clinico elabora le congetture da confutare nei modi prima indi- cati. Ma l’ipotesi non è la verità: è solo una possibile verità, è solo causa presunta o interpre- tazione anticipata, che richiede prudenza, umiltà, e il beneficio del dubbio. Quel che vado di- cendovi è la rappresentazione dell’ipotesi come atto creativo dello scienziato e come riprod uz ione di un atto creativo, già compiuto da altri, da parte del clinico. Se non formulassero ipotesi, il ri- cercatore e il clinico dovrebbero proporsi di ricavare l’interpretazione (non più anticipata ma a posteriori) da un interminabile processo induttivo di raccolta di dati. È inutile aggiungere che non mancano i contrari agli apologeti dell’ipotesi come atto creativo che evita il gravoso accu- mulo di dati quale base per l’induzione di leggi generali. Basta ricordare Isaac Newton con la locuzione “Hypothesis non fingo”, certo come egli era di far parlare i fatti. I filosofi della scienza si sono chiesti come nascano le ipotesi da sottoporre a verifica spe- rimentale e se vi sia qualche discriminante tra un’ipotesi qualsiasi e un’ipotesi scientifica. Per rispondere rileggo con voi Pietro Greco nel dizionario già citato sul come a entrambe que- ste domande abbia risposto Karl Popper, filosofo austriaco, uno che nel ruolo creativo delle ipo- tesi credeva. Le ipotesi scientifiche, sostiene Popper, sono scelte sulla base di un principio di sem- plicità. Ovvero nel tentativo di formulare la spiegazione più semplice di un fenomeno. Le ipote- si e le teorie sono scientifiche se sono falsificabili, se cioè effettuano previsioni che possono essere contraddette da un esperimento. Entrambe queste asserzioni sono state criticate. Le ipotesi è sta- to affermato non sono uno strumento necessario per fare scienza. Il metodo scientifico è plurali- sta e le modalità della scoperta scientifica sono molte. D’altra parte non sempre il criterio di scel- ta delle ipotesi è quello, economico, della semplicità. Famoso è l’esempio del fisico Paul Virac, che al principio di semplicità preferiva il principio, estetico, di eleganza matematica. Ricavan- done per altro notevoli gratificazioni: una sua clamorosa ipotesi sulla esistenza dell’antimateria, avanzata sulla base dell’eleganza matematica di certe equazioni che aveva elaborato, è stata poi verificata dall’osservazione. Quanto al criterio di falsificabilità proposto da Popper per “misura- re”la caratura scientifica di un’ipotesi, esso esclude una serie di programmi di ricerca dal mon- do della scienza. E, tuttavia, proprio nella clinica il criterio della falsificabilità delle ipotesi è ine- ludibile. Il fatto è che la filosofia popperiana della conoscenza non ha validità universale. Basti pensare per esempio alle scienze storiche in cui non mancano le ipotesi, ma la storia per sua na- tura è refrattaria a farsi rappresentare da esperimenti limpidi e ripetibili. La storia può essere nar- rata con rigore a posteriori, non anticipata da previsioni. Ritorna alla mente la religione dello sto- ricismo di Rosario Romeo; un pensiero politico forte, che gli consentiva di leggere il rapporto tra presente e passato. Per noi rimane essenziale il metodo eliminativo di Murri, rifluito nella filo- sofia teorica di Karl Popper; al momento esso si propone come il migliore dei procedimenti pos- sibili nella diagnosi clinica e nell’insegnamento della metodologia della diagnosi. **** Le cefalee costituiscono l’area disciplinare della nostra scuola, ma non a caso tre clinici neurologi, e non clinici di altre aree disciplinari, si sono proposti come organizzatori della scuo- la, perché le cefalee sono un capitolo elettivo della neurologia. Introduzione: ma serve insegnare? XI La storia della relazione del mal di testa con il corpo dottrinario della neurologia è un fram- mento della storia della neurologia, ma anche un solo frammento di storia può essere crucia- le ed è questo il caso. Il sistema nervoso riceve ed elabora stimoli sensoriali allo scopo di ge- nerare e controllare comportamenti adeguati: compito della neurologia è comprendere come il sistema nervoso svolga questa funzione e quali siano le conseguenze del suo eventuale di- sordine. Ne deriva che, per recare solo un esempio, se guardiamo all’emicrania come una ma- lattia complessa che coinvolge la modulazione sensoriale, di fatto guardiamo ad essa come modello di compromissione di una fondamentale funzione nervosa; possiamo dunque affer- mare che l’emicrania si colloca in una posizione cruciale della neurologia. Non sarà mai ri- petuto abbastanza che la cefalea è solo un sintomo ed è compito del neurologo tradurre il sin- tomo in specifiche entità nosografiche, con i loro meccanismi fisiopatologici da cui derivano specifiche terapie. L’emicrania che vi ho citato come modello esemplare di compromissione della modulazione sensoriale mi offre l’occasione per una notazione conclusiva sulla valenza anche non clinica di una scuola delle cefalee: il rapporto tra emicrania e selezione naturale. È largamente noto quanti siano gli elementi che suggeriscono come la suscettibilità all’e- micrania abbia, in larga misura, una base genetica e che individuano pertanto l’emicrania co- me un tratto su cui inevitabilmente deve agire una pressione evoluzionistica. I principali ele- menti che sostengono questa ipotesi sono: a) l’elevata prevalenza della malattia, visto che es- sa colpisce il 12% della popolazione; b) la diversa prevalenza dell’emicrania in rapporto alla razza; c) l’identificazione di alcune mutazioni missense sul cromosoma 19 e, più recentemente, sul cromosoma 1, responsabili dell’emicrania emiplegica familiare; d) l’individuazione di un apparente linkage al cromosoma 19 in alcune famiglie con forme comuni di emicrania. La questione cruciale è: perché geni che portano ad una vulnerabilità elettiva (la predispo- sizione all’emicrania) persistono nel tempo? L’elevata frequenza dell’emicrania, così come il fatto che essa persista dall’antichità, comporta che un sistema nervoso particolarmente su- scettibile all’emicrania ad un certo punto dell’evoluzione deve aver conferito un importante vantaggio per la sopravvivenza. Gli emicranici posseggono un sistema nervoso centrale alta- mente eccitabile e perciò particolarmente sensibile a stimoli ambientali, in particolar modo quel- li provenienti dal sistema trigeminale. Una tale condizione probabilmente determina un com- portamento caratterizzato da una maggiore attenzione agli stimoli sensoriali e un’aumentata capacità di evitare minacce provenienti dall’ambiente. N. Wiener ha scritto che “l’importanza dell’informazione e della comunicazione come mec- canismo di organizzazione trascende l’individuo per interessare tutta la comunità”. Questa è stata l’ambizione della nostra scuola e questa vogliamo che sia la vostra ambizione. Vincenzo Bonavita Professore Ordinario di Neurologia Università di Napoli “Federico II” Direttore di ASC (Associazione per una Scuola delle Cefalee) Breve storia delle cefalee XIII Indice PARTE I Forme maggiori di cefalee primarie Capitolo 1 Breve storia delle cefalee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 R. DE SIMONE Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Le prime descrizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 Le cause . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Le terapie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Capitolo 2 Classificazione ed epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 G.C. MANZONI, P. TORELLI Classificazione delle forme maggiori di cefalea primaria . . . . . . 9 Epidemiologia delle forme maggiori di cefalea primaria . . . . . . 12 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 Capitolo 3 Emicrania: la clinica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 D. COLOGNO Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Emicrania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Emicrania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Letture consigliate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 27 Capitolo 4 Emicrania: cenni di fisiopatologia e la terapia . . . . . . . . . . . . 29 P. CORTELLI Fisiopatologia dell’emicrania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Altri aspetti del meccanismo patogenetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Terapia dell’emicarania senz’aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Fisiopatologia dell’emicrania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 Terapia dell’emicarania con aura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 40 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 47 Capitolo 5 Emicrania: la donna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49 G.B. ALLAIS, C. BENEDETTO Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 49