Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt Arrigo Petacco, L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein. Copyright 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p. A., Milano. I edizione: settembre 2001. «Salvate Ultra!» Per tutta la durata del secondo conflitto mondiale, questo fu l'imperativo categorico dei servizi segreti britannici e, per nascondere il prezioso decodificatore che consentiva agli inglesi di «leggere» tutti i messaggi cifrati che i tedeschi si scambiavano con l'«impenetrabile» codificatore Enigma, furono compiuti sacrifici terribili. Da quando, molti decenni dopo la fine della guerra, l'Intelligence Service fu costretto ad ammettere l'esistenza di questa decisiva «arma segreta», tanti miti sono crollati, le virtù militari di leggendari comandanti sono state ridimensionate e gli storici hanno dovuto riesaminare la seconda guerra mondiale sotto una luce completamente nuova. Nell'Armata nel deserto, senza risparmiare critiche a nessuno e senza nascondere verità imbarazzanti, sacrifici sublimi, vigliaccherie vergognose ed eroismi negati, Arrigo Petacco rivisita l'intera campagna dell'Africa settentrionale. Una campagna che, sia nel primo periodo (giugno 1940 - febbraio 1941) quando venne condotta dalle nostre sole forze, sia in quello successivo, fino al maggio 1943, quando l'apporto tedesco fu determinante, assorbì più di ogni altra l'attenzione degli italiani e assunse nell'immaginario collettivo nazionale una sentimentale priorità. Rivivono le belle pagine di eroismo scritte dai Mussolinis boys a Bir el Gobi, dai carristi dell'Ariete e dai parà della Folgore che furono interamente inghiottiti nelle sabbie di El Alamein insieme a tanti altri eroi rimasti senza nome. Ma rivivono anche pagine meno gloriose: le occasioni perdute, le deficienze dei comandi italiani, le irresponsabili e frustrate ambizioni di Mussolini, nonché le ombre che ancora avvolgono alcuni comportamenti di Rommel, comandante delle forze dell'Asse, e certi immeritati onori attribuiti al maresciallo Montgomery che lo sconfisse a El Alamein. Scopriamo che grazie a Ultra il nemico era puntualmente informato non solo di tutti i movimenti delle truppe dell'Asse - dalle scelte strategiche alle rotte segrete, alla composizione dei reparti che sarebbero stati impiegati nelle operazioni, sino alla disponibilità di preziosa benzina per ogni singolo carro armato - ma anche degli stessi pensieri di Rommel, dei suoi progetti, dei suoi sfoghi, delle sue frustrazioni e delle sue condizioni di salute che egli esternava fiduciosamente attraverso Enigma. Sono rivelazioni, queste, che testimoniano come gran parte delle nostre sconfitte, da Matapan a El Alamein, furono anche conseguenza della testarda convinzione germanica che il loro servizio d'informazione fosse impenetrabile e che a informare il nemico fossero i «traditori» italiani. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de «La Nazione» e di «Storia Illustrata», ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Joe Petrosino, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò (nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Le battaglie del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, Regina. La vita e i segreti di Maria José, L'armata scomparsa, L'esodo e L'amante dell'imperatore. a Irene Pagina 1 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt «Dopo le rivelazioni di Ultrasecret gli storici dovranno riesaminare la storia della seconda guerra mondiale sotto una luce completamente nuova.» Francis Harry Hinsley (autore di British Intelligence in the Second World War) [p. 3] I - La gallina dalle uova d'oro Una notizia imbarazzante La sera del 21 agosto 1942 la clamorosa notizia si era rapidamente diffusa nei circoli più esclusivi della capitale britannica: «Rommel è malato. Rommel torna in patria». Il maresciallo Erwin Rommel, comandante dell'armata italo-tedesca in Africa settentrionale, era in quel momento la bestia nera, l'incubo che, più delle incursioni della Luftwaffe, turbava i sonni di ogni inglese, dal premier Winston Churchill all'ultimo scampato dai tanti bombardamenti che avevano ridotto Londra in un cumulo di rovine. Quel diavolo di un tedesco, che la stampa aveva ribattezzato The Desert Fox, la volpe del deserto, collocandolo nell'olimpo dei signori della guerra, in quelle ultime settimane aveva sbaragliato in Libia l'VIII armata britannica, si era poi spinto in territorio egiziano fino a El Alamein e ora si apprestava a compiere l'ultimo balzo di cinquanta miglia per impadronirsi di Alessandria e del Canale di Suez. La malattia di Rommel era dunque un dono del cielo. Senza di lui, i generali italiani non sarebbero riusciti a cavare un ragno dal buco e i soliti strateghi da salotto stavano già fantasticando sugli effetti positivi che la ricaduta di quell'inatteso avvenimento avrebbe provocato sul teatro di guerra africano, dove erano in gioco le sorti dell'impero coloniale e della stessa Inghilterra. Ma Rommel era veramente malato? E, in caso di risposta [p. 4] affermativa, chi aveva diffuso quella notizia tanto preziosa da meritare il massimo riserbo? Il primo interrogativo non frenò l'immaginazione degli strateghi dilettanti: la notizia era così ghiotta che doveva essere vera per forza. Il secondo invece mise in crisi il controspionaggio britannico che subito avvertì la minaccia che si stava profilando. Perché, in effetti, Erwin Rommel era davvero malato, ma nessuno avrebbe dovuto saperlo. Quella delicatissima informazione era stata carpita da Ultra, l'arma segreta che avrebbe consentito agli inglesi di vincere la seconda guerra mondiale. Evidentemente, il top secret era stato violato e ora la propalazione della preziosa notizia avrebbe di certo insospettito i servizi segreti tedeschi e messo a repentaglio la sopravvivenza della fonte di informazione cui erano appesi i destini del malconcio impero britannico. Il SIS (Secret Intelligence Service) non riuscì mai a individuare la falla attraverso la quale era fuoriuscita la notizia. Fu invece possibile stabilire che la voce era cominciata a circolare nel tardo pomeriggio del 21 agosto. E, precisamente, nel corso di un party offerto dall'Ambasciata elvetica cui avevano partecipato numerosissimi ospiti richiamati soprattutto dal buffet, ricco di quei generi voluttuari di cui gli inglesi avevano perduto memoria. Poi aveva preso il volo nelle direzioni più diverse e di sicuro era giunta anche alle orecchie attente degli agenti nazisti infiltrati negli ambienti diplomatici. Ma il problema prioritario dei servizi britannici non era quello di individuare il «colpevole» (probabilmente la moglie chiacchierona di qualche funzionario incapace di frenare il proprio entusiasmo) Ormai il danno era fatto. Era invece assolutamente necessario salvare la fonte di provenienza escogitando false piste su cui dirottare i segugi nazisti che senza dubbio erano già entrati in azione. Ultra, che Winston Churchill, nelle sue memorie, indica in modo generico come «la mia fonte più segreta» (ma che in privato definiva «la gallina dalle uova d'oro che non fa [p. 5] mai coccodè»), rappresentava il suo asso nella manica per la guerra che stava combattendo contro Hitler. L'aveva costituita all'inizio del conflitto, dopo che i servizi britannici erano riusciti a Pagina 2 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt impadronirsi di un esemplare della macchina Enigma, il codificatore che i comandi tedeschi utilizzarono per tutta la durata della guerra. E' ora piuttosto complicato fornire spiegazioni dettagliate su questo congegno sul quale i tedeschi riponevano una fiducia assoluta. Dall'aspetto sembrava una normale macchina da scrivere e, in un certo senso, lo era per davvero. Solo che, grazie a un complicato sistema di cilindri rotanti collegati elettricamente, l'operatore poteva spostare le lettere dell'alfabeto usando una «chiave», modificabile di volta in volta, di cui solo il mittente e il destinatario erano a conoscenza. Considerando il numero infinito delle combinazioni che si possono ricavare dalle 24 lettere dell'alfabeto, gli inventori avevano calcolato che per ricomporre una sola frase codificata da Enigma, senza conoscerne la «chiave», una mente umana, anche quella del più acuto matematico, avrebbe impiegato almeno due o tre mesi, tanti erano i calcoli che l'operazione comportava. Per fare un facile esempio, risalire all'originale di un testo cifrato da Enigma era assai più complicato che azzeccare un «13» al Totocalcio. Questo spiega perché i tedeschi giudicavano il loro codificatore assolutamente impenetrabile. Il brain trust, il gruppo di cervelli reclutato da Winston Churchill per penetrare i segreti di Enigma, era composto soprattutto di matematici, fisici, ingegneri, ma anche di campioni di scacchi, bridgisti, linguisti ed enigmisti. Salvo alcuni di loro, come il genio matematico Alan Turing, che era solito calcolare le permutazioni di un milione a uno del «codice a caso» mentre si recava a piedi al lavoro, o come il ventenne enfant prodige Harry Hinsley, che doveva giudicare ad alta velocità il significato della massa delle cose decrittate, tutti gli altri operatori di Ultra ignoravano da quale fonte provenissero i messaggi che dovevano decodificare. Questo compito affidato ai più fini cervelli della Gran [p. 6] Bretagna era certamente dei più ostici, ma dopo avere fallito centinaia di tentativi, gli esperti avevano alfine raggiunto lo scopo mettendo a punto un complicato congegno elettromeccanico che può essere considerato il progenitore del moderno computer. E, come un computer, la macchina prodigiosa - che per le sue dimensioni era chiamata Colossus e occupava un intero edificio opportunamente mimetizzato in Bletchiey Park, poco lontano da Londra - consentiva agli operatori di svolgere ogni sorta di calcolo con la massima rapidità e di «leggere» i messaggi trasmessi da Enigma nel giro di tre o quattro ore. Come nome in codice del gruppo di intercettatori era stato scelto Ultrasecret, poi ridotto per comodità in Ultra, ma i suoi inventori lo ribattezzarono scherzosamente Bonifacio, dal nome del primo missionario britannico che aveva cristianizzato la Germania pagana. Da allora, grazie a Ultra, Winston Churchill (che era l'unico a essere informato, e che, in seguito avrebbe passato le «informazioni molto attendibili» ai comandi senza mai rivelarne la fonte), godette dell'invidiabile privilegio di conoscere praticamente in tempo reale tutto ciò che progettava il nemico: incursioni aeree, offensive, sbarchi, invasioni e piani di battaglia, fino ai più minimi dettagli, comprese le comunicazioni personali dei vari comandanti come appunto la richiesta di Rommel di essere richiamato in patria per motivi di salute. Ultra era dunque un'arma decisiva che doveva essere salvata a qualsiasi costo. Ultra o Coventry? Fino a quel momento, solo in un'altra occasione era stato corso il rischio di rivelare al nemico l'esistenza di Ultra. Era accaduto circa due anni prima, quando ancora divampava la «battaglia d'Inghilterra» e la Luftwaffe sottoponeva Londra a pesanti bombardamenti diurni e notturni. Grazie al radar, la contraerea britannica era in grado di avvistare per tempo le formazioni di bombardieri in arrivo, [p. 7] ma grazie a Ultra poteva anche conoscere in anticipo gli obbiettivi prestabiliti e prendere le opportune precauzioni. Il 14 novembre 1940 si registrò tuttavia un fatto inatteso. Ultra rivelò che quella sera l'obbiettivo della Luftwaffe non era, come al solito, la capitale britannica, bensì Coventry, centro industriale distante centocinquanta chilometri da Pagina 3 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt Londra e fino ad allora trascurato dall'aviazione avversaria. Sulle prime si era pensato a un errore di decrittazione, ma la macchina fugò ogni dubbio; ripetuta più volte l'operazione, l'obbiettivo indicato era sempre lo stesso: Coventry. A questo punto si rendeva necessario prendere una decisione di cui solo Churchill poteva assumersi la responsabilità. Infatti, se fosse stata messa in allarme la contraerea e predisposta l'evacuazione dei civili da Coventry, ne avrebbero parlato i giornali, ne avrebbe parlato la radio e si sarebbe sollevato un tale rumore che i tedeschi non avrebbero tardato a capire che i loro codici venivano intercettati. Il dilemma era dunque il seguente: salvare Coventry o salvare Ultrasecret? Mancavano ancora poche ore all'annunciata incursione quando Churchill fu chiamato al telefono da «mister C» (Sir Stuart Menzies, capo del SIS), che lo mise al corrente dei fatti. Stava a lui prendere una decisione. Prima di rispondere, il premier britannico interruppe una riunione del Consiglio dei ministri e si ritirò nel suo studio, quindi, dopo qualche tormentato minuto di riflessione, pronunciò il suo verdetto: «Salvate Ultra» Quella notte, senza incontrare ostacoli da parte della contraerea britannica, le formazioni della Luftwaffe, con tre ondate successive, radevano al suolo la città di Coventry cogliendo di sorpresa nel sonno la cittadinanza. Fu un disastro senza precedenti, tanto è vero che, da allora in poi, il dizionario della lingua tedesca si arricchì di un nuovo verbo, koventrisieren, coventrizzare, che significa appunto «distruggere sistematicamente una città mediante bombardamento aereo» Questa volta, per fortuna, la salvezza di Ultra non [p. 8] avrebbe comportato la morte di tante vittime inconsapevoli e tuttavia era ugualmente importante preservarne la segretezza. In quelle ore convulse, mentre era ormai chiaro che non sarebbe stato possibile arginare e contenere la propalazione della notizia della malattia di Rommel, nel Sancta sanctorum dei servizi segreti britannici, alla presenza dello stesso Churchill e di «mister C», i più abili agenti del controspionaggio e della disinformazione stavano spremendo le meningi per escogitare un credibile escamotage capace di depistare lo spionaggio nemico. L'incertezza era al massimo quando qualcuno avanzò una proposta peregrina: «Perché non diamo la colpa agli italiani?» L'idea, per la verità, non era bislacca: in più occasioni Ultra aveva rilevato la diffidenza che Rommel manifestava nei confronti dei suoi alleati e la cautela che dimostrava quando era costretto a metterli al corrente dei suoi progetti. «Perché no?» fu infatti il commento conclusivo di Churchill. Il giorno successivo, una servizievole agenzia di stampa sudamericana, opportunamente imbeccata, diramava attraverso le sue telescriventi la notizia della malattia del maresciallo Erwin Rommel attribuendola a «voci raccolte negli ambienti romani» e i giornali la riportarono senza darle eccessiva importanza come si usa fare con i «si dice» e con le informazioni non confermate. A rassicurare definitivamente gli inglesi che il trucco aveva funzionato provvide più tardi lo stesso Rommel, il quale, dopo avere convenuto, attraverso Enigma, sull'opportunità di negare la sua malattia e di rinviare la data del rimpatrio, concludeva il messaggio inveendo contro gli italiani e contro Roma definendola in modo sprezzante «una specie di Shanghai, un bazar levantino dove le informazioni si scambiano, si vendono, si barattano, si inventano» Era dunque chiaro che Ultra non aveva più nulla da temere. [p. 9] Le illusioni di Mussolini Il generale Erwin Rommel era giunto a Tripoli il 12 febbraio 1941 alla testa del Deutsches Afrika Korps, consistente in due divisioni che erano state addestrate al combattimento nel deserto sui gelidi campi sabbiosi dell'Alta Slesia. L'intervento tedesco era stato chiesto da Mussolini quando i pessimi risultati registrati dall'esercito italiano sia sul fronte greco che su quello africano lo avevano indotto a rinunciare al suo presuntuoso progetto di condurre una «guerra parallela» al fianco della Germania, ma nella più completa autonomia. Era stato infatti cullandosi in questo sogno Pagina 4 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt ambizioso che il dittatore italiano, il 10 giugno 1940, era entrato in guerra contro l'Inghilterra e la Francia al fianco dell'alleata Germania. Convinto, come molti altri, che la guerra stesse per finire da un momento all'altro con una clamorosa vittoria tedesca, aveva tentato il suo bluff ritenendo che il nemico non avrebbe avuto il tempo di vedere le sue carte, ovvero di constatare che le forze armate italiane erano assolutamente impreparate ad affrontare il conflitto. D'altra parte, i fatti parevano dargli ragione. In quel momento i tedeschi, che in soli nove mesi di Blitzkrieg, la guerra-lampo, avevano conquistato con estrema facilità la Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l'Olanda e il Belgio, nonché respinto in mare, a Dunkerque, il corpo di spedizione britannico in Francia, erano alle porte di Parigi. La vittoria finale sembrava ormai a portata di mano e il Duce non voleva perdere l'occasione propizia. Invece, sorprendendo lo stesso Hitler il quale, dopo che i francesi si erano arresi, aveva avanzato concrete proposte di pace all'Inghilterra, Londra, o meglio, l'ostinato premier britannico Winston Churchill, aveva risposto «picche» e il rischioso bluff mussoliniano non aveva tardato a essere scoperto. Questa è l'incontestabile realtà cui si dovrà risalire quando si faticherà a comprendere i comportamenti, l'impreparazione, gli errori e tutte le umilianti [p. 10] deficienze di cui daranno prova le forze armate italiane durante la prosecuzione del conflitto. Nell'estate del 1940, in Europa, i fucili avevano comunque smesso di sparare. Sul continente sventolava la bandiera con la svastica e i fanti della Wehrmacht si godevano il sole lungo le spiagge di Calais osservando compiaciuti le formazioni di bombardieri della Luftwaffe che stavano provvedendo a «preparare il terreno» in vista del balzo finale contro le isole britanniche. A combattere erano rimasti soltanto gli italiani. La guerra guerreggiata si era infatti trasferita nel continente africano e il suo peso gravava esclusivamente sulle nostre modeste forze armate. Questo accadeva ai confini dell'effimero Impero etiopico (il quale, geograficamente isolato dalla madrepatria, non tarderà a crollare) e nella nostra colonia di Libia, stretta fra l'ancora infida colonia francese di Tunisia e l'Egitto, che era allora un dominio dell'Impero britannico. Ai tedeschi non si addice la guerra nel deserto In vista della prossima entrata in guerra, l'esigenza primaria dello Stato Maggiore italiano avrebbe dovuto essere quella di occupare Malta, pericolosa base navale britannica che insidiava i traffici marittimi, nonché di avventare le nostre forze presenti in Libia contro il Canale di Suez per assicurare il collegamento diretto con l'Impero etiopico. Invece non era stato messo a punto alcun progetto in tal senso. La «certezza» che la guerra sarebbe finita entro poche settimane aveva indotto Mussolini e i suoi strateghi faciloni a trascurare questa onerosa eventualità. L'esigenza era invece stata avvertita per tempo dall'alleato tedesco. Già prima dell'entrata in guerra dell'Italia, Hitler, informato dal suo addetto militare a Roma, generale Enno von Rintelen che «l'esercito italiano non dispone delle unità e dei materiali indispensabili per procedere rapidamente alla conquista dell'Egitto», aveva proposto all'alleato italiano l'invio di forze corazzate tedesche in Libia [p. 11] in appoggio alle numerose, però male armate, truppe del nostro esercito coloniale. Mussolini tuttavia, che ancora sognava una rapida e incruenta «guerra parallela», aveva respinto sdegnosamente l'offerta, incoraggiato in questo senso anche dal capo di Stato Maggiore Generale, maresciallo Pietro Badoglio, secondo il quale «i nordici non erano adatti a una guerra nel clima africano» Per la verità, anche senza l'apporto tedesco, la situazione era comunque favorevole alle forze italiane. In Libia, sotto la guida del governatore della colonia, maresciallo Italo Balbo, un comandante prestigioso e molto popolare, erano dislocate due armate. La V, comandata dal generale Italo Gariboldi, che era schierata lungo la frontiera tunisina ed era composta di otto divisioni (Bologna, Savona, Sabratha, Pavia, Sirte, Brescia, 23 ottobre, 28 ottobre) con Pagina 5 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt 90 carri leggeri, 2200 veicoli e 500 pezzi d'artiglieria. L'altra armata, la X, comandata dal generale Mario Berti, era invece schierata lungo il confine egiziano e disponeva di cinque divisioni (Marmarica, Cirene, Libica, Catanzaro e 3 gennaio) con 194 carri leggeri, 1600 pezzi d'artiglieria e 1000 autocarri. In totale 221 mila uomini e una protezione aerea composta da 315 velivoli da caccia e da bombardamento. Contro questa forza, si opponevano dall'Egitto non più di 40 mila soldati britannici forti però di carri armati più moderni e di una forza aerea numericamente equivalente, ma dotata dei modernissimi caccia Spitfire di gran lunga superiori ai nostri lentissimi biplani CR42 e anche ai recenti Macchi-200 cui vagamente somigliavano. A favorire gli italiani contribuiva tuttavia anche la situazione generale. Con l'esercito tedesco sulle rive della Manica, l'Inghilterra in quel momento doveva pensare in particolare alla difesa del territorio nazionale. Per giunta, con la flotta italiana che dominava il Mediterraneo, le era praticamente impossibile rifornire le sue truppe in Egitto se non attraverso il lungo periplo del continente africano reso ancora più arduo per l'insidia degli U-Boot tedeschi in agguato. Tutto, insomma, giocava a favore di un nostro audace [p. 12] colpo di mano e, infatti, subito dopo l'entrata in guerra dell'Italia, gli osservatori stranieri si aspettavano effettivamente una grossa sorpresa militare. Oltre l'occupazione di Malta (aspettativa andata subito delusa) si attendevano un ovvio attacco offensivo in direzione del Canale di Suez, chiave di volta del sistema imperiale britannico. La morte misteriosa di Italo Balbo Il maresciallo Italo Balbo era indubbiamente il più dinamico dei nostri comandanti e forse l'unico in grado di trasferire nel deserto la Blitzkrieg esperimentata con successo in Europa dalla Wehrmacht. Aggressivo di temperamento, un po guascone, ma dotato di un coraggio fisico eccezionale, dal primo giorno di guerra egli andava perorando il permesso di sviluppare un'azione offensiva in direzione dell'Egitto. Quell'ordine richiesto con insistenza da Balbo giunse a Tripoli la mattina del 28 giugno, esattamente diciotto giorni dopo l'inizio del conflitto. Nel suo dispaccio, il maresciallo Badoglio, dopo avere sottolineato che la recente resa della Francia aveva disinnescato ogni minaccia che poteva provenire dalla Tunisia, così proseguiva: «Di conseguenza tu non hai che da fare fronte a Est. Concentra tutti i tuoi mezzi a Est, verso l'Egitto. Fai di tutto per essere pronto il 15 luglio...». Ma quando l'ordine giunse a destinazione, Balbo non c'era più. Era morto mezz'ora prima abbattuto con il suo aereo mentre rientrava a Tobruk dopo una perlustrazione sul territorio nemico. La morte di Balbo fu un colpo durissimo e forse fatale per la prosecuzione delle operazioni militari in Africa settentrionale. Quadrunviro del fascismo, fondatore della Regia aeronautica e famoso trasvolatore (era stato il primo a sorvolare l'Atlantico con aerei in formazione sollevando l'ammirazione del mondo intero), Maresciallo dell'Aria a trentasei anni e ora, poco più che quarantenne, governatore della Libia, se Italo Balbo (ma nella storia i «se» hanno soltanto un valore consolatorio), non fosse [p. 13] morto all'inizio del conflitto, le forze italiane avrebbero probabilmente raggiunto Suez in poche settimane con le conseguenze che si possono immaginare. Quella morte improvvisa e misteriosa non mancò di sollevare sospetti e perplessità. Negli ambienti politici Balbo era considerato il più pericoloso rivale di Mussolini. E Mussolini infatti, preoccupato per l'evolversi della sua popolarità, nel 1934 lo aveva relegato nell'esilio dorato libico proprio per toglierlo dalla ribalta politica italiana. Come si può bene immaginare, questi precedenti, cui va aggiunto l'alone di mistero con cui era stato circondato il tragico incidente aviatorio, avevano ovviamente dato la stura a un tempesta di voci incontrollate che neppure la rigida censura fascista era riuscita a frenare. Prese addirittura piede una leggenda, tuttora diffusa, che fosse stato lo stesso Mussolini a disporre la liquidazione del suo temuto concorrente. Invece non era Pagina 6 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt vero, anche se la morte di Balbo resterà a lungo avvolta in un inquietante mistero. In realtà, il trimotore S79 che Balbo pilotava personalmente era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana e, precisamente, dal fuoco dell'incrociatore San Giorgio arenato al largo del porto di Tobruk. L'«incidente» era stato provocato dall'accavallarsi di sfortunate coincidenze. Rientrando alla base senza preavviso, l'aereo di Balbo, che volava a bassa quota per predisporsi all'atterraggio nell'aeroporto di Tobruk, era inavvertitamente finito sotto il tiro della nostra contraerea impegnata a contrastare una formazione di bombardieri britannici che, in quello stesso momento, ma da una quota più alta, stavano compiendo un'incursione sulle attrezzature portuali della città. Insomma, si era trattato di una tragedia provocata dal «fuoco amico» errore niente affatto infrequente in tempo di guerra, ma che in quel caso, o per pudore o per vergogna, si preferì nascondere. Infatti, il bollettino radiofonico del 29 giugno 1940 riferiva testualmente: «Il giorno 28, volando sul cielo di Tobruk durante un'azione nemica, l'apparecchio pilotato da Italo Balbo è precipitato in fiamme. Italo [p. 14] Balbo e i componenti dell'equipaggio sono periti...» ma non si specificava come e da chi l'aereo fosse stato abbattuto. Era stata questa reticenza a favorire la diffusione delle più strampalate supposizioni. Né valsero a diradare i sospetti le grandiose manifestazioni di cordoglio che furono organizzate in tutta Italia. Due anni dopo quando, grazie all'intervento del maresciallo Rommel, gli italiani riconquisteranno l'intera Libia dopo avere subito una serie di rovinosi rovesci, Mussolini rimpiangerà la scomparsa di Italo Balbo con queste parole: «Sono perfettamente convinto che se Balbo fosse rimasto al comando delle truppe operanti in Libia, noi non avremmo avuto l'insuccesso che abbiamo dovuto deplorare. Si sarebbe certamente disimpegnato. Comunque non sarebbe rimasto a quattrocento chilometri dalla linea del fuoco come qualcuno di nostra conoscenza...». Quel «qualcuno» era Rodolfo Graziani. Il «Leone di Neghelli» Il maresciallo Rodolfo Graziani, chiamato a sostituire Italo Balbo al comando delle operazioni in Africa settentrionale, aveva sessant'anni ed era in quel momento, al pari del suo collega e rivale Pietro Badoglio, il soldato più prestigioso delle forze armate italiane. Proveniente dalla «gavetta» come si usa dire in gergo militare, era considerato un esperto di cose africane. Nel primo dopoguerra aveva guidato le operazioni antiguerriglia in Libia riuscendo a «pacificare» la colonia con sistemi repressivi tanto drastici che ancora oggi il colonnello Gheddafi non perde occasione di rinfacciarci. Successivamente, era stato nominato governatore della Somalia e nel corso della guerra etiopica del 1935-36 aveva comandato le forze del fronte meridionale non riuscendo tuttavia a eguagliare la performance del comandante del fronte settentrionale, Pietro Badoglio, che era stato il vero protagonista della campagna e aveva sfilato per primo per le strade di Addis [p. 15] Abeba alla testa delle truppe vittoriose. Risaliva infatti a quell'epoca la forte e reciproca rivalità fra i due comandanti. La quale si era col tempo approfondita dando vita negli ambienti militari a una sorta di dualismo per certi aspetti non dissimile da quello che divideva negli stessi anni i tifosi di Alfredo Binda dai tifosi di Learco Guerra. Alla conclusione del conflitto etiopico, Mussolini aveva nominato entrambi Marescialli d'Italia, ma era toccato a Badoglio di assurgere al rango di «primo soldato» d'Italia: re Vittorio Emanuele III assegnò infatti a lui il titolo di Duca di Addis Abeba e di viceré d'Etiopia, mentre il suo rivale, già soprannominato enfaticamente «Leone di Neghelli», dovette invece accontentarsi del solo blasone di marchese di Neghelli. In seguito, quando Badoglio era stato richiamato in patria per assumere l'ufficio di capo di Stato Maggiore Generale, Graziani lo aveva sostituito come viceré d'Etiopia e si era ancora distinto per la brutalità e la ferocia dimostrata nella repressione delle bande armate che ancora resistevano nelle regioni periferiche dell'Impero. Questi comportamenti gli avevano procurato una fama di esperto di guerra coloniale forse non del tutto meritata in quanto, Pagina 7 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt più che di guerra, il Maresciallo si era occupato di guerriglia. Tornato in Italia, dopo avere passato l'incarico di viceré al duca Amedeo d'Aosta, Graziani si era di nuovo trovato in subordine al suo rivale: Badoglio era capo dello Stato Maggiore Generale, Graziani il capo dello Stato Maggiore dell'esercito. Considerate le sue esperienze africane, Rodolfo Graziani fu dunque prescelto quale successore naturale di Italo Balbo, ed egli accettò il comando ponendo però come condizione di continuare anche a mantenere l'incarico di capo di Stato Maggiore dell'esercito. Era una richiesta assurda, considerato che la sede dello Stato Maggiore non poteva essere che al centro, ossia a Roma, tuttavia fu ugualmente esaudita. Cosicché l'ambizioso Maresciallo si ritrovò a ricoprire contemporaneamente la carica di capo di Stato Maggiore dell'esercito, di governatore della Libia [p. 16] e di comandante in capo del nostro esercito coloniale. Tre stipendi, ma anche tre impegni molto onerosi per un uomo che avrebbe dovuto dedicarsi completamente alla condotta della guerra. E questo fatto testimonia la sconcertante faciloneria esistente ai vertici delle nostre forze armate. La scelta di Graziani era stata infelice anche per altre ragioni. A parte il suo carattere cauto, indeciso e rancoroso, il nuovo comandante, più che favorito, era casomai ostacolato dalle sue precedenti esperienze africane. Ora infatti non si trattava più di combattere una guerra coloniale contro bande di ribelli indigeni, bensì una guerra per così dire «europea» trasferita per esigenze strategiche in territorio africano. Per la prima volta nella storia, due potenze continentali, i cui eserciti avevano come principale caratteristica il larghissimo impiego di mezzi meccanici e corazzati, si scontravano nel deserto. Il motore regnava sovrano da una parte e dall'altra. La guerra coloniale del passato, la guerra del cammello e del muletto, aveva cambiato completamente fisionomia. I mezzi di trasporto e di combattimento tradizionali erano stati sostituiti dagli autocarri, dalle autoblinde e dai carri armati che solcavano in ogni senso e fuori di ogni pista le distese sabbiose imponendo ai comandanti nuovi criteri strategici e più complessi metodi di lotta. Poi c'era il problema del terreno. Per raggiungere la valle dei Faraoni bisognava attraversare un'immensa regione brulla, desolata, color mattone, non ravvivata che da qualche raro cespuglio di lentischi e priva assolutamente di acqua. Era la desolata Marmarica, che si affaccia sul Mediterraneo con strapiombi vertiginosi e infuocati come i gironi infernali e che va poi adagiandosi verso l'interno in una pianura arida e spoglia, dominata da un clima insopportabile, che gradualmente si deprime fino a 140 metri sotto il livello del mare (la micidiale depressione di El Qattara) per perdersi infine nell'immensità del deserto. Questa regione inospitale era per circa duecento chilometri compresa nel territorio libico e per circa cinquecento in quello egiziano. [p. 17] Dalla parte italiana, i centri più importanti lungo la costa erano Tobruk, che era stata trasformata in una ben munita piazzaforte, e Bardia, pure fortificata. Dalla parte egiziana c'erano Sollum, Sidi el Barrani, Marsa Matruh e, ancora più a est, il piccolo centro ferroviario di El Alamein. Marsa Matruh, essendo collegata da una buona strada asfaltata e da una linea ferroviaria con Alessandria d'Egitto, era diventata per gli inglesi la più importante base operativa per questa guerra. Il confine fra la nostra colonia e il dominio britannico era segnato da una linea retta di oltre 1100 chilometri che seguiva il 25o meridiano senza incontrare centri abitati, salvo l'oasi di Giarabub e i pochi abituri beduini di Scegga. Da Giarabub al mare, si allungava un reticolato molto profondo (gli inglesi lo ribattezzeranno «il filo») che era stato costruito parecchi anni prima dagli italiani per impedire l'afflusso di rifornimenti ai ribelli della Cirenaica e per ostacolare il contrabbando fra la Libia e l'Egitto. Dalla parte italiana, infine, l'elemento più prezioso era la strada litoranea, un magnifico nastro asfaltato che si snodava per oltre 1500 chilometri lungo la costa collegando Tripoli a Bardia. Era chiamata «via Balbia» in onore di Italo Balbo che l'aveva fatta costruire durante il suo governatorato. Pagina 8 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt Graziani rinvia l'offensiva Appena giunto in Libia, Rodolfo Graziani aveva installato il proprio comando in una tomba romana profonda una decina di metri, situata in prossimità dell'Ara dei Sileni, e distante circa 120 chilometri dalla prima linea. Una distanza così prudenziale che susciterà l'amara ironia di Mussolini. Subito dopo aveva avuto inizio il tiro alla fune fra i due rivali, con Badoglio che spronava all'offensiva e l'altro che prendeva tempo accampando scuse. Con Graziani che voleva limitarsi a prendere Sollum e l'altro che ironizzava sostenendo che il farlo non significava nulla. Risultato: l'offensiva fu rinviata e rimandata a settembre. [p. 18] Frattanto, gli inglesi non erano rimasti a guardare. Il comandante in capo delle forze del Medio Oriente, maresciallo Archibald Wavell e il comandante delle forze corazzate, generale Richard O'Connor, incoraggiati dall'attendismo degli italiani, avevano dato vita fin dai primi giorni a una insidiosa azione di logoramento. Audaci gruppi di commando, a bordo di veloci autoblinde e di aggressivi Brencarriers, mezzi corazzati scoperti, armati di mitraglia, assaltavano di sorpresa i reparti italiani isolati e penetravano in profondità nell'interno interrompendo le linee di comunicazione e annientando i nostri capisaldi. Fin dai primi giorni di guerra la situazione si era fatta preoccupante. I presidi di Sidi Omar e della ridotta Maddalena, semidistrutti da un'incursione di carri, erano stati evacuati e, subito dopo, erano stati sterminati i duecento difensori della ridotta Capuzzo, mentre i reparti libici di Sidi Azeiz avevano dovuto ritirarsi nella piazzaforte di Bardia. Vani erano stati anche i contrattacchi italiani perché gli inglesi non attendevano l'urto e adottavano la tattica del «mordi e fuggi» Già in quelle prime scaramucce si rivelava il contrasto che caratterizzerà il modo italiano e quello inglese nel condurre la guerra nel deserto. I primi spesso sacrificavano uomini e mezzi per difendere un fortino o pochi metri di sabbia, i secondi applicavano nel deserto gli stessi criteri della guerra navale dove gli spostamenti avanti e indietro non sono avanzate o ritirate, ma aspetti diversi di una manovra globale. Quell'estate del 1940 tutto comunque pareva ancora possibile alle forze dell'Asse. L'Inghilterra era rimasta da sola a combattere. Gli Stati Uniti la rifornivano attraverso convogli navali, ma gli U-Boot tedeschi ne facevano strage mandando in fondo al mare i rifornimenti di cui gli inglesi avevano un disperato bisogno. Da parte sua, la Luftwaffe martellava Londra e gli impianti militari lungo le coste della Manica, mentre l'OKW, il comando supremo germanico, dava gli ultimi ritocchi all'operazione «Leone Marino» che avrebbe dovuto scattare non appena la battaglia [p. 19] che si combatteva nei cieli d'Inghilterra fosse volta a buon fine. Impaziente e preoccupato che la guerra finisse prima che l'esercito italiano avesse ottenuto una sola vittoria, Mussolini mordeva il freno. Le eccessive cautele di Graziani lo indispettivano. Infine, il 19 agosto, gli telegrafò direttamente per comunicargli che i tedeschi si accingevano a sbarcare in Inghilterra. Si decidesse dunque ad attaccare a fondo, perché il momento era propizio. Ma Graziani, che sotto l'aspetto burbanzoso del condottiero nascondeva un'assoluta mancanza di audacia, esitò ancora. Per meglio giustificare la sua sconcertante condotta, giunse addirittura a far sottoscrivere ai suoi generali subalterni (Gariboldi, Berti, Porro, Tellera, Dalmazzo, Gallina, Pitassi, Bergonzoli e Giordano) questa sorprendente dichiarazione: «All'unanimità affermiamo che nelle condizioni attuali non è possibile un'offensiva degna di questo nome, ma solamente svolgere piccole operazioni tendenti a mantenere il prestigio sull'avversario» Andarono così perdute altre preziose settimane. Soltanto un ordine perentorio del Duce, dal quale emergeva una larvata minaccia di destituzione, indusse finalmente Graziani a prendere di malavoglia l'iniziativa. «Barba elettrica» va all'attacco Il 13 settembre, dopo un violento bombardamento dell'artiglieria e dell'aviazione, le forze italiane mossero all'attacco dal verde Gebel Pagina 9 Arrigo Petacco. L'armata nel deserto, Il segreto di El Alamein.txt cirenaico, ricco di acque e di pinete, per avventurarsi nel deserto marmarico. Causa la scarsità degli automezzi a disposizione, venne impiegato soltanto il 23o corpo d'armata del generale Annibale Bergonzoli, un comandante popolarissimo fra i soldati e soprannominato «Barba elettrica» per il suo eccezionale dinamismo. Il contingente era comunque considerevole, godeva di una discreta protezione aerea e poteva contare sull'appoggio di due raggruppamenti di truppe libiche, [p. 20] guidati dai generali Maletti e Gallina, che provenivano dall'interno. Durante la prima giornata non si registrarono apprezzabili episodi di resistenza. Le colonne procedevano in modo spedito lungo la costa contrariamente al piano originario che prevedeva anche un largo aggiramento dal deserto con l'impiego delle truppe libiche. Questa decisione, presa da Graziani all'ultimo momento, si sarebbe rivelata saggia. Anzitutto perché la penuria di automezzi avrebbe reso difficile rifornire due linee operative, in secondo luogo perché il cambiamento sconcertò il nemico, il quale, ritenendo ovvio un aggiramento dal deserto, aveva fatto affluire i suoi mezzi corazzati a Der el Brug, situato a una cinquantina di chilometri dal mare. Per due giorni, l'avanzata proseguì senza incontrare ostacoli, salvo i fulminei attacchi dei veloci Bren-carriers, che compivano rapide incursioni per poi scomparire fra le dune. Il terzo giorno, dopo avere conquistato Sollum e Halfaya, le truppe italiane dovettero scendere lungo piste fittamente disseminate di mine, fra balze e scoscendimenti, sempre sotto il tiro delle artiglierie e degli attacchi dei caccia. Ma non si registrarono veri e propri contrattacchi. Mine, macerie, buche e cedimenti erano i principali ostacoli da superare. Finalmente, il 16 settembre, la «punta d'acciaio» italiana, come la definiva la propaganda, raggiungeva Sidi el Barrani. La prima fase dell'operazione era conclusa. Non c'era stata battaglia. Gli inglesi lamentavano in tutto la perdita di 50 uomini, gli italiani 92 morti e 270 feriti. Il risultato ottenuto, anche se esaltato al massimo dalla nostra propaganda (un tronfio bollettino di guerra annunciava: «Nell'Africa settentrionale le truppe metropolitane e le truppe libiche - che anche in questa azione hanno pienamente confermate le loro virtù guerriere e l'assoluta fedeltà all'Italia - proseguendo nella loro vittoriosa avanzata hanno occupato Sidi el Barrani»), non era neanche del tutto positivo. Graziani aveva condotto l'offensiva con discreta perizia, [p. 21] ma in cambio aveva allungato di centocinquanta chilometri la linea di rifornimento senza essere neppure riuscito a collaudare la combattività delle nostre truppe per l'assenza di una vera e propria «prova del fuoco» Mussolini però era soddisfatto. Nella sua totale refrattarietà al pensiero strategico, aveva persino accolto con gusto maligno la notizia che i tedeschi avevano nel frattempo rinunciato all'operazione «Leone Marino» A suo parere, ciò gli offriva l'occasione di far meglio risaltare il prossimo successo che contava di raccogliere in Egitto: «Un successo tale» confiderà in quei giorni il dittatore a Galeazzo Ciano «che darà all'Italia quella gloria che va cercando invano da secoli» Graziani si accontenta, Mussolini no Al contrario di Mussolini, Graziani non aveva fretta di raggiungere le piramidi. La conquista di Sidi el Barrani pareva avesse soddisfatto tutta la sua sete di gloria. «Nemico, dopo fatta tutta resistenza possibile» telegrafava a Roma «contrastando palmo palmo il terreno, è stato infine travolto dalla manovra che lo attanagliava» e proseguiva con un tono talmente trionfalistico che, per pudore, lo stesso Mussolini aveva ordinato di non diramare alla stampa l'ultimo paragrafo, nel quale si affermava quanto segue: «Ora ci si domanda quando gli inglesi capiranno che hanno a che fare col più attrezzato esercito coloniale del mondo. Lo apprenderanno quanto prima!». In effetti, Graziani non aveva alcuna intenzione di attuare questa sua minaccia. Pago del risultato ottenuto, invece di organizzare il prosieguo dell'offensiva, impegnò subito i suoi soldati per organizzare una sistemazione logistica e difensiva più adatta a un Pagina 10