ebook img

La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi PDF

356 Pages·1986·14.272 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi

WELLS COLLEGE LIBRARY — oa yeO S! "îÎ L uo tUidiana LLol LAVITA QUOTIDIANA DIA BV DAL 1950A O GGI ld{ =12/2VA[0]\|=D] LEONARDO SCIASCIA BIBLIOTEGA UNIVERSALE RIZZOLI Sono apparsi nella BUR Pierre Antonetti LA VITA QUOTIDIANA A FIRENZE AI TEMPI DI DANTE Jacques Chastenet LA VITA QUOTIDIANAI N INGHILTERRA rimomi ini — LA VITA QUOTIDIANA A COSTANTINOPOLI AI TEMPI DI SOLIMANO IL MAGNIFICO Jean Tulard LA VITA QUOTIDIANA IN FRANGIA AI TEMPI DI NAPOLEONE Jacques Wilhelm LA VITA QUOTIDIANA A PARIGI AI TEMPI DEL RE SOLE Fabrizio Calvi y/La vita quotidiana della mafia dal 1950 ai nostri giorni _ prefazione di LEONARDO SCIASCIA traduzione e note di FRANCA CAFFA Biblioteca Universale Rizzoli Weiis College Library .. Aurora, New York Proprietà letteraria riservata © 1986 Hachette © 1986 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano ISBN 88-17-16595-6 Titolo originale dell’opera: LA VIE QUOTIDIENNE DE LA MAFIA DE 1950 À NQS JOURS prima edizione: ottobre 1986 MAFIA di Leonardo Sciascia Il primo vocabolario del dialetto siciliano che registra la parola mafia è quello del Traina, pubblicato nel 1868: e la dà come nuova, importata in Sicilia dai piemontesi, cioè dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo Garibaldi, ma proveniente forse dalla Toscana, dove maffia (due ef- fe) vuol dire miseria e smdàferi vuol dire sgherri. Il Traina trova che queste due parole, questi due significati, con- vergono nel tipo umano che in Sicilia è detto mafioso. Il mafioso ha baldanza e prepotenza da sgherro ma è anche un miserabile, poiché «miseria vera è credersi grand’uo- mo per la sola forza bruta, ciò che mostra invece gran brutalità, cioè l’essere gran bestia». Mafia è dunque «ap- parente ardire, sicurtà d’animo». E nient’altro. Così pen- sava anche il più grande studioso di tradizioni popolari si- ciliane, il palermitano Giuseppe Pitré (1841-1916): «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata applicata al ladro, e al malandrino, ciò è perché il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionarseul valore della parola, né s’è curato di sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il ma- fioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso è ne- cessario, anzi indispensabile. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individua- 5 le, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto din teressi e d’idee; donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui. Il mafioso vuol es- sere rispettato e rispetta quasi sempre. Se è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma sa farsi personalmen- ‘te ragione da sé; e quando non ne ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui». Il Pitré anzi, rispetto al Traina, toglie al mafioso brutalità e prepotenza e le attri- buisce «agli altri», a quelli contro cui il mafioso si ribella; sicché la mafia altro non sarebbe che un sentimento di li- bertà, un atteggiamento di fierezza, contro le angherie dei potenti e l’inettitudine della legge e dei pubblici poteri. In conclusione: il Traina come il Pitré, come tanti altri studiosi e giudici e uomini politici siciliani, tendono a ne- gare la mafia in quanto «associazione» e ad ammetterla in quanto «ipertrofia dell’io» (definizione dèl giurista sici- liano Giuseppe Maggiore), dell’io dei singoli siciliani. L’invenzione della mafia come associazione per delinque- re ha anzi, secondo un magistrato siciliano, un responsa- bile: quel Giuseppe Rizzotto che nel 1862 scrisse la com- media / mafiusi della Vicaria (la Vicaria era una prigione palermitana). «L'artista esagerando con la sua arte tragi- ca, a base di speculazione, i pretesi costumi dei galeotti nelle prigioni di Palermo, riuscì fatalmente ad accreditare e diffondere la stolta credenza che la mafia fosse un’asso- ciazione di delinquenti» scrive il magistrato. E conclude: «Dio perdoni al Rizzotto, che da molti anni è scomparso dalla scena della vita, il danno enorme arrecato alla no- stra Sicilia. E le conseguenze tristissime di questo danno io provai quando, nel corso della mia carriera, ebbi la for- tuna della destinazione alla Procura Generale di Torino». E si può essere d’accordo che la sua destinazione alla Pro- cura Generale di Torino, invece che a quella di Palermo, sia stata una fortuna anche per la Sicilia, dove all’incirca in quegli anni c’è stato un procuratore le cui requisitorie nei processi contro la mafia, acute e implacabili, si posso- 6 no leggere come uno dei più seri contributi allo studio del fenomeno: l’agrigentino Alessandro Mirabile. Il procuratore generale Mirabile pensava esattamente il contrario del Pitré: cioè che la mafia fosse setta, associa- zione; e con precisa costituzione (ovviamente non scritta), con regole rigorose, con segni di riconoscimento tra gli af- filiati. Oltre che sulla propria esperienza, fondava questa affermazione su un memoriale (che bisognerebbe ricerca- re negli archivi giudiziari) scritto da Bernardino Verro, che nella prima giovinezza pare fosse entrato a far parte della mafia: e diventato poi socialista — una delle più bel- le figure del socialismo siciliano, in quel movimento detto dei «fasci» che fu duramente represso dal governo del si- ciliano Francesco Crispi — fu della mafia strenuo avver- sario fino alla morte. Nato a Corleone (paese anche oggi ben noto per fatti di mafia), a quarantotto anni, in pieno giorno, fu ucciso in una strada del paese di cui era diven- tato sindaco, il 3 novembre 1915. Questi nomi: Verro, Mirabile e, su tutti, quello del siciliano Napoleone Cola- Janni (1847-1921), studioso di problemi sociali e deputato del partito repubblicano, dicono che non tutti i siciliani negavano l’esistenza della mafia come associazione crimi- nale né ritenevano fosse offesa per la Sicilia il parlarne. Pubblicamente anzi la denunciavano e la combattevano, considerando sciocco e dannoso il principio che il male da cui una popolazione è afflitta bisogna nasconderlo o mi- nimizzarlo. I mali sociali sono né più né meno come le malattie individuali: nasconderli, negarli, minimizzarli si- gnifica non volerli curare, non volere liberarsene. Quei siciliani che (come allora Giuseppe Pitré e il catanese Luigi Capuana [1839-1915]) ancor oggi ritengono che la mafia sia soltanto atteggiamento di spavalderia indivi- duale, amor proprio, senso dell’onore, sete di giustizia e modo di farsi giustizia in un Paese afflitto da una secolare carenza dell’amministrazione statale, naturalmente affer- 1 mano che tutti i fatti di delinquenza associata in Sicilia non sono diversi da quelli che avvengono in altre regioni d’Italia e in altri Paesi europei, né più gravi, né più nume- rosi. Per loro, la parola mafia non va applicata ai fatti de- linquenziali. Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola alla cosa — la parola mafia, o l’e- spressione, venuta in uso in questi ultimi anni, di «Cosa Nostra» — si tenda a creare una distinzione razzistica, un pregiudizio, nei riguardi di tutta la popolazione siciliana, da cui discendono la denigrazione, la diffidenza, l’irrisio- ne anche verso il singolo siciliano che si trova a vivere fuo- ri della propria terra. È ingiusto, dicono costoro, che una banda di rapinatori sia considerata una semplice banda di rapinatori a Milano o a Marsiglia o a Londra e una «co- sca» mafiosa (cosca è la corona di foglie del carciofo) a Palermo; che a Milano o a Maîsiglia o a Londra siano in- dicati come colpevoli di un fatto delittuoso soltanto colo- ro che l’hanno effettivamente preparato ed eseguito, mentre un identico fatto, se accade a Palermo, si ritiene adombri una concatenazione di responsabilità e complici- tà più vasta, sfuggente, indefinibile — come se tutta la po- polazione della città e dell’isola avesse oscuramente par- tecipato al fatto e ne proteggesse i colpevoli. Bisogna dun- que, dicono questi difensori del buon nome della Sicilia, togliere la parola alla cosa, guardare alla cosa per come si presenta nei limiti dell’esecuzione, al fatto criminale in sé. Ma la parola mafia (che in origine avrà avuto il signifi- cato che le attribuisce il Pitré; e il più antico documento in cui la troviamo, del 1658, la dà come soprannome di una «magàra», cioè di una donna dedita a pratiche di magia), è stata applicata alla cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione qualitativa che i fatti criminali assumono in Sicilia rispetto a quelli di altre regioni, di al- tri Paesi. Non tutti, si capisce; e non in tutta la Sicilia. Questa distinzione già vien fuori nel 1838, quando ancora non esisteva la parola nel senso oggi in uso, da una rela- 8

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.