Kālidāsa (IV-V secolo d.C.) vive probabilmente nella splendida Ujjain alla corte degli imperatori Gupta durante il periodo d’oro dell’arte e della cultura indiana antica, il «secolo di Pericle della storia dell’India». Assai celebre in patria mentre era ancora in vita, le sue opere saranno ripetutamente commentate e apprezzate da numerosi teorici e critici, in particolare per il potere di suggestione, per la qualità della dolcezza e come esempio fra i più alti dello stile “delicato”. A ciò si aggiunge la finezza psicologica spesso manifesta nello humour sottile che i critici occidentali moderni gli riconoscono. Al di fuori dell’India Kālidāsa è lo scrittore indiano più conosciuto e ammirato, salutato fin dalle prime traduzioni come poeta di levatura universale da lettori quali Goethe e Alexander von Humboldt. Le opere attribuitegli dalla tradizione indiana sono numerosissime. Per la critica scientifica sono certamente di sua mano tre drammi, il poemetto Nuvolo messaggero (Meghadūta), famosissimo in tutto il subcontinente come pure in Occidente, il poema epico La stirpe di Raghu (Raghuvaṃśa) e La storia di Śiva e Pārvatī – in originale Kumārasambhava, «L’origine di Kumāra», dal nome del primogenito della coppia –, inclusa già dai lettori dell’India antica fra i sei capolavori assoluti della letteratura classica. Nello scenario del sublime Himālaya, scintillante di nevi e al tempo stesso antropomorfo sovrano dei monti, si svolge la vicenda di sua figlia, la stupenda Pārvatī, e dell’inquietante dio Śiva. Vuole un decreto del Creatore Brahmā che solo un figlio nato da questi sposi divini possa sconfiggere il demone Tāraka che si è impadronito dell’universo e ne fa scempio. Ma Śiva, affranto per la tragica morte della prima moglie, siede in meditazione profonda su un picco inaccessibile e non si accorge nemmeno della meravigliosa fanciulla già innamorata di lui. Non lo vincerà la freccia del dio dell’amore ma l’intelligente Pārvatī, che lo attrae dimostrando di essere capace anche di un’ascesi implacabile. Lo sposalizio trionfale nella capitale festante del regno e una notte d’amore senza fine coronano la storia di una delle coppie più amate della fede hindu e dell’immaginario mondiale, capace di incantare i lettori di ogni epoca. Composta secondo i principi raffinati della letteratura indiana classica, costruita in maniera magistrale nella scansione degli episodi e dei sentimenti, l’opera si può leggere anche come un’introduzione poetica ai grandi temi della relazione fra ascesi ed erotismo e della visione tantrica della sessualità. GIULIANO BOCCALI ha insegnato per oltre quarant’anni indologia e sanscrito all’Università degli Studi di Milano e a Ca’ Foscari Venezia. Autore di saggi critici e di traduzioni dei maggiori poeti indiani antichi dal II al XII secolo d.C., studia in particolare la formazione della letteratura d’arte, la poesia, l’estetica dell’India classica e medievale. Per Marsilio ha curato Poesia indiana classica (con Siegfried Lienhard) e Poesia d’amore indiana. È presidente onorario dell’Associazione italiana di studi sanscriti (aiss) e collaboratore del supplemento domenicale del «Sole 24 Ore». Kālidāsa La storia di Śiva e Pārvatī (Kumārasambhava) a cura di Giuliano Boccali Marsilio Traduzione dal sanscrito di Giuliano Boccali In copertina: Śiva osserva Pārvatī dormire (particolare), Boston, Museum of Fine Arts. © 2018 Museum of Fine Arts, Boston. Tutti i diritti riservati / Scala, Firenze © 2018 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia Prima edizione digitale 2018 ISBN 978-88-317-1399-3 www.marsilioeditori.it [email protected] Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Iscriviti alla Newsletter Indice Copertina Abstract - Autori Frontespizio Copyright Esergo Eros e ascesi nel Kumārasambhava di Giuliano Boccali Avvertenza sulla traduzione dei nomi divini Pronuncia del sanscrito L’autore e l’opera LA STORIA DI ŚIVA E PĀRVATĪ Canto I Canto II Canto III Canto IV Canto V Canto VI Canto VII Canto VIII Commento Canto I Canto II Canto III Canto IV Canto V Canto VI Canto VII Canto VIII Appendice Bibliografia Alla memoria del mio maestro, Vittore Pisani, e a tutti i miei allievi EROS E ASCESI NEL KUMĀRASAMBHAVA La vicenda e la poesia del Kumārasambhava, «L’origine di Kumāra», di Kālidāsa (IV-V secolo d.C.), che qui si presenta per la prima volta in traduzione italiana integrale dal sanscrito, risaltano meglio se si prendono le mosse dagli antefatti: Satī, una delle figlie del patriarca Dakṣa, sposa il grande Śiva. Il marito, nonostante il rango di dio supremo, non è di quelli graditi ai familiari delle fanciulle indiane: non se ne sa l’origine – mentre ogni hindu deve appartenere a una famiglia e a una casta – indossa abiti e monili sommamente impuri, come la pelle sanguinante di un demone-elefante da lui ucciso o i cobra che utilizza per bracciali, frequenta luoghi corrotti come i campi di cremazione, si cosparge di cenere funebre, non ha una residenza stabile… In definitiva, i comportamenti del dio supremo sono l’antitesi radicale di quelli stabiliti dal dharma, la legge sacra dell’induismo, cioè della stessa religione che lo venera. Il contraddittorio requisito meriterebbe qualche riflessione sull’esperienza hindu del divino, esperienza che tende alla trascendenza assoluta delle antitesi e all’ineffabilità e che trova nel poema diversi spunti di riferimento 1. Sta di fatto che Dakṣa, disponendo una grandiosa cerimonia sacrificale, vi invita tutti gli dèi eccettuato proprio Śiva; questi non sembra rilevare l’oltraggio, che ferisce invece profondamente Satī. Non potendo reagire altrimenti, anche per la condizione di assoluta sudditanza di una figlia indiana rispetto al genitore, l’orgogliosa giovane ricorre al gesto di protesta estrema che distingue – non solo in India e purtroppo non solo nel mito – chi è in stato di soggezione irrimediabile: dà fuoco a se stessa, bruciandosi a morte in virtù del suo ardore ascetico. Il nome proprio della sfortunata giovane, che significa letteralmente «Vera; Fedele», sarà attribuito all’usanza, storica nella classe aristocratica guerriera, della sposa che segue sulla pira funeraria il marito morto; Satī è dunque il nome della prima protagonista mitica dell’evento, non dell’istituzione chiamata invece saṃmaraṇa, «morte insieme», o anumaraṇa, «morte al sèguito». Nel precedente mitico, di fronte alla tragica scomparsa della sposa, si scatena selvaggia la furia vendicatrice di Śiva che attacca il suocero con le sue schiere diaboliche, assumendo la forma terrificante di Vīrabhadra. Dakṣa è decapitato e morendo funge da vittima sacrificale del rito che aveva egli stesso predisposto; con questo la sua colpa è espiata, Śiva restaura perciò il sacrificio e resuscita il suocero, secondo alcune fonti con la testa di un caprone. Ma la vendetta non allevia il dolore del dio che, secondo tarde versioni del mito, torturato dalla nostalgia vaga come folle per l’universo con il cadavere della sposa sulle spalle. Da lontano, Viṣṇu impietosito cerca di interrompere la penosa ma pericolosa situazione: con il suo disco da lancio, divide il corpo inanimato di Satī in pezzi, e dove ciascuno di questi cade sulla terra, lì sorge un luogo sacro alla dea, come per esempio il famosissimo Kalighat di Kolkata. Ma in India gli esseri rinascono, secondo la nota concezione del ciclo delle esistenze (saṃsāra), non solo gli umani o animali, anche i divini: così Satī è destinata a reincarnarsi e a conquistare nuovamente Śiva come suo sposo… La circostanza è offerta, come spesso accade, da un momento di crisi cosmica dovuta al temporaneo trionfo del pericolosissimo asura (demone, o meglio antidio) Tāraka. Grazie alle straordinarie ascesi compiute, questi diviene potentissimo, mette gli dèi in fuga e sovverte il corso naturale e sociale dell’universo. L’ardore accumulato – l’ascesi è chiamata in sanscrito tapas («calore, ardore») e, secondo la concezione corrispondente, sviluppa in chi la pratica un’energia bruciante che può nel mito giungere a incenerire il mondo – è tale che il dio creatore Brahmā si reca da Tāraka ed è costretto a concedergli di non poter essere ucciso da