N. 92 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna Titolo originale: L’Espoir maintenant, di Jean-Paul Sartre e Benny Lévy. © Éditions Verdier, 1991 per Benny Lévy e Gallimard, 1991 per Jean-Paul Sartre. Traduzione di Maria Russo. MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Minima/Volti, n. 92 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 M R ARIA USSO TESTAMENTO, INIZIO O RITORNO? Un’introduzione allo scandalo de L’Espoir maintenant È il 20 marzo 1980 quando Jean-Paul Sartre, ormai quasi completamente cieco da circa sette anni, viene ricoverato all’ospedale Broussais, dove morirà la sera del 15 aprile. Ha 75 anni. La sua salute era già compromessa da tempo, ma Sartre, uno dei filosofi più influenti e controversi del Novecento, aveva altri progetti. Anzitutto, quello di scrivere un nuovo libro, anche questa volta in contraddizione con quanto aveva pubblicato fino a quel momento. C’è un titolo, Pouvoir et liberté, uno scopo, quello di scrivere la filosofia morale che non era mai riuscito a sviluppare, una mano che scrive al suo posto, il suo ultimo segretario personale Benny Lévy, e un paio di occhi che rileggono per lui, per poter ancora correggere e perfezionare, la figlia adottiva Arlette Elkaïm. Su “Libération”1 confessa: “questo libro è per me la politica e la morale che vorrei aver terminato alla fine della mia vita”. E, ancora: “si parlerà di me diversamente, se pubblicheremo questo libro”2; a Michel Sicard: sto scrivendo un’opera che trasforma completamente quanto ho pensato in filosofia e che, se riuscirò a finire, arriverà a non lasciare in piedi niente dell’Essere e il nulla e della Critica della ragione dialettica. […] Se arriverò in fondo, sarà quella famosa morale che preannunciavo nell’Essere e il nulla e che forse, ironia della storia, sto finalmente scrivendo.3 Eppure, come ci aveva messo in guardia ne L’essere e il nulla, in polemica con Heidegger, la vita è un’impresa mancata: la morte non sopraggiunge alla fine, ma mentre si è in procinto di realizzare i propri progetti. Una tragedia che si aggiunge a quella della finitezza umana: si può morire anche da giovani, quando tutto è ancora da fare. È così che si sente Sartre a 75 anni, anche se il corpo lo stava già abbandonando: come qualcuno che vuole ricominciare, che non ha finito di dire tutto ciò che avrebbe voluto, che ancora una volta vuole “pensare contro se stesso” e far compiere un ulteriore passo in avanti al proprio pensiero. Di questo libro rimangono solo degli appunti (pubblicati con il solo nome di Benny Lévy) e alcune interviste, corrette e riviste da Sartre, che sono state stampate su “Le Nouvel Observateur” il 10, il 17 e il 24 marzo, proprio mentre Sartre stava morendo. L’Espoir maintenant, lungi dall’essere considerato l’ultimo testamento di Sartre, l’ultima voce che il filosofo stava consapevolmente lasciando ai suoi lettori, viene considerato uno scandalo. Non è lo stesso Sartre, non sono le sue idee. L’indignazione proviene principalmente dagli amici, Simone de Beauvoir prima di tutti. Lei, in particolare, vuole l’ultima parola: pubblica nel 1981 La cerimonia degli addii, seguita dalle conversazioni che aveva registrato con Sartre negli anni Settanta. È questo, per lei, il vero Sartre, l’ultimo Sartre, quello che, come sempre, ha dialogato con lei. Come ricorda Ronald Aronson, “nelle sue interviste vediamo ripetutamente come Beauvoir sembri conoscere Sartre meglio di Sartre; non in modo arrogante o ribelle, ma risoluto e autorevole”4. Così, rispetto a Lévy, ci si spinge a parlare di circonvenzione d’incapace e di anziano, si accusa il segretario di aver fatto dire a Sartre quello che lui voleva che dicesse. Benny Lévy, che una volta si faceva chiamare Pierre Victor, ci viene spesso descritto come un personaggio problematico e ambiguo, che aveva militato nelle file dei rivoluzionari maoisti per poi convertirsi alla sua religione d’origine, l’ebraismo. Se Pierre Victor può diventare Benny Lévy, Jean-Paul Sartre deve però rimanere Jean-Paul Sartre. Di questo giovane, come ricorda la biografa di Sartre, Annie Cohen-Solal, circolano definizioni piuttosto negative: “un talmudista perduto nel maoismo” (Pierre Goldmann), “il tipo meno umanista di tutta la sinistra, un maestro di cinismo e di misticismo mescolati” (Ronald Castro) e “un filosofo assolutamente affascinato dalla Legge” (François Châtelet)5. La stessa Simone de Beauvoir, che inizialmente lo aveva accettato come un aiuto indispensabile per il filosofo ormai indigente, aveva già discusso con lui prima del ricovero di Sartre e della pubblicazione di queste discusse interviste. Un incidente diplomatico che avrebbe cambiato per sempre i rapporti della “famiglia” Sartre, composta da diverse donne (Simone, Arlette, Wanda, Liliane), con la redazione di “Les Temps Modernes” e con quel segretario che stava diventando sempre più un interlocutore in un rapporto meno gerarchico di quel che ci si aspettava. Torniamo indietro, a due anni prima del ricovero di Sartre. All’inizio del 1978, Pierre Victor voleva pubblicare su “Le Nouvel Observateur” un testo sul conflitto arabo- israeliano, tema già brevemente affrontato con Sartre e Philippe Gavi in Ribellarsi è giusto! del 1974. Non era certo una delle migliori opere di Sartre, ma il testo arrivò addirittura a subire una pesante e definitiva censura da parte di Beauvoir, che dichiarò di avere dalla sua tutta la redazione di “Les Temps Modernes”: quello che verrà definito da Arlette un vero e proprio “tribunale sartriano”6, contro un Sartre più antisartriano dell’antisartriano Raymond Aron. Sartre confidò a Robert Gallimard: “ma pensate un poco… farmi condannare a nome dei sartriani… c’è da morir dal ridere!”. Nel 1978 egli si piegò al desiderio di Simone de Beauvoir, ma Lévy si infuriò con la famiglia. E lei lo paragonò a Ralph Schoenman, il segretario di Bertrand Russell che voleva sfruttare la sua voce e la sua autorità. A causa di questa discordia, nel 1980 sarà Sartre in persona a telefonare a Jean Daniel, direttore de “Le Nouvel Observateur”, per convincerlo a pubblicare L’Espoir maintenant. La testimonianza è riportata nella sua biografia: La sua voce era perfettamente limpida, parlava con estrema autorità: “Credo di sapere che siete nei guai”, mi disse, “so che i miei amici vi hanno assediato. Sono io, Sartre, che vi chiedo di pubblicare quel testo, e di pubblicarlo integralmente. Se non desiderate farlo, lo pubblicherò altrove, ma vi sarei riconoscente se lo faceste voi. So che i miei amici vi hanno contattato, ma so anche che sbagliano: l’itinerario del mio pensiero sfugge loro, a tutti, compreso al Castoro…”. Raramente – spiega ancora Daniel – Sartre era stato così netto, così preciso, così padrone del suo pensiero e della sua parola. Del resto, quando gli ho parlato di un errore nel testo, e mi sono preoccupato di fargli trovare la riga, gli ho domandato: “Avete il testo con voi?”, “Ce l’ho in testa”, mi ha risposto. E infatti lo sapeva a memoria.7 L’Espoir maintenant non è un testo pubblicato postumo senza l’autorizzazione di Sartre. Si tratta di una serie di interviste rilette e validate da Sartre, che Sartre in persona ha chiesto, quasi come una cortesia personale, di pubblicare8. Non le intende come testamento: nel testo, ci dice che conta di vivere almeno altri cinque anni, anzi, lui pensa perfino dieci. E in dieci anni si può finire Pouvoir et liberté. Anche grazie a Lévy, che ha il carisma e l’energia per essere ancora rivoluzionario, lui che è un giovane rispetto agli anziani di “Les Temps Modernes”9, e che si ricorda i testi sartriani meglio dello stesso Sartre. Se fosse rimasto un rivoluzionario maoista, forse Victor sarebbe stato accettato anche dal tribunale sartriano; ma Benny Lévy, che si interessa della filosofia ebraica, della storia di Israele e di Emmanuel Lévinas, non poteva che essere una cattiva compagnia per un Sartre ormai vulnerabile e in declino. Soprattutto tenendo presente l’importanza nella vita del filosofo di un’altra ebrea, Arlette, amante e figlia, infermiera ed erede. Ne Il secolo di Sartre, Bernard-Henri Lévy (da non confondere con il Benny Lévy delle interviste) sottolinea l’importanza di queste due figure negli ultimi anni di vita di Sartre: Comunque, resta sempre il fatto che di quell’amante decide di fare una figlia; resta sempre il fatto che è l’unica persona al mondo con cui quell’uomo, che per tutta la vita non aveva voluto legami, abbia mai desiderato di stabilire un vincolo legale; e non si può sfuggire all’interrogativo: c’è un rapporto tra le due cose? Siamo proprio sicuri di poter fare a meno del significante “ebreo” per spiegare quei due legami entrambi così improbabili? È un caso che decida di adottare Arlette, cioè di darle il proprio nome, qualche anno prima di instaurare con Victor un legame così singolare e, una volta stabilito il rapporto, di spingerlo, e aiutarlo, a riprendere il suo vero nome, Benny Lévy?10 Lévy è diventato talmente importante per Sartre che quest’ultimo nelle Interviste cerca di sottolinearlo al suo pubblico. Egli si riferisce a un “pensiero plurale”, che non solo rende possibile il suo lavoro filosofico dopo la cecità e il peggioramento delle condizioni di salute, ma gli consente anche di approdare a una nuova modalità di riflessione e di confronto critico. Al di là del legame affettivo, ritorneremo sul significato che ha l’ebraismo in quest’ultima fase del pensiero di Sartre, anche se certamente possiamo già accennare che le interviste non ci propongono affatto un Sartre ebreo, proprio come aver scritto Bariona o il figlio del tuono non ha reso Sartre un cristiano. Anche se Simone de Beauvoir conclude le sue Conversazioni, non a caso, sul tema dell’ateismo, ne L’Espoir maintenant non siamo di fronte a una conversione o a un interesse nei confronti di una fede religiosa. Non è su questo che Sartre cambia idea; e poi, quante volte Sartre aveva cambiato idea nel corso della sua avventura esistenziale e filosofica11? In realtà, a ben vedere, non si tratta nemmeno di un nuovo inizio. Il tentativo di individuare un principio per la sinistra che non ricadesse tout court nella vulgata marxista e una nuova modalità relazionale con l’altro, che non fosse quella infernale de L’essere e il nulla e poi della Critica della ragione dialettica, non era già stato intrapreso? Certamente, ma non nelle opere pubblicate. Nel 1983 Arlette Elkaïm deciderà di rendere nota una serie di appunti inediti dove Sartre aveva già ragionato su queste tematiche in tempi non sospetti: i Quaderni per una morale, due volumi per un totale di circa 560 pagine, erano stati scritti nel 1947-1948, come filosofia della storia e morale derivante dall’ontologia fenomenologica de L’essere e il nulla. Un testo incompiuto, dove Sartre “sta ancora pensando”. E sta meditando un’etica esistenzialista e una concezione della storia in contrasto critico tanto con la dialettica hegeliana, la sua fede nel compimento della totalità e la sua incarnazione nell’ethos vigente, quanto con il materialismo marxista e la sua speranza di un’imminente implosione del capitalismo. È proprio alla luce dei testi pubblicati postumi che L’Espoir maintenant acquista tutto un altro significato. La sua etica della fraternità, solamente accennata e non sviluppata, ci fa tornare alle pagine del 1947-1948 sull’autentico rapporto con l’altro, al punto che possiamo dire che “la terza etica alla quale [Sartre] ha lavorato alla fine della sua vita non dovrebbe essere considerata come un totale ripudio dell’etica che aveva sviluppato nei Quaderni per una morale, bensì, piuttosto, come un suo ‘arricchimento’”12. Si tratta di un ritorno a ciò che in fondo ha sempre ossessionato Sartre: l’idea di scrivere una morale. Forse è questo che il tribunale sartriano non ha accettato: un Sartre filosofo morale, o, peggio ancora, un Sartre moralista. Arlette Elkaïm si rivolgerà duramente in una lettera13 soprattutto a Beauvoir: [...] ci sarebbe piaciuto, ci piacerebbe, dirle la verità lapalissiana che prima di morire Sartre era vivo; non ci vedeva quasi più, il suo organismo andava degradandosi, ma intendeva nei due significati del termine, e lei lo ha trattato come un morto che ha la sconvenienza di manifestarsi. Sartre e Beauvoir non condividono la medesima visione sull’invecchiamento. Nel saggio La terza età del 1971 lei sottolinea tutte le limitazioni che subentrano con l’anzianità; Sartre, a 75 anni, come dichiara in queste interviste, è invece pronto a ricominciare. Come sottolinea Aronson, “l’inesorabile esplorazione [di Beauvoir] sulla debilitazione è sostanzialmente non-sartriana; anche una persona indebolita agisce, e le sue azioni hanno ancora un significato”14. Così la vita e le parole. Certo, il tono delle interviste è meno sistematico, rigoroso e preciso dei testi filosofici di Sartre. Tuttavia, non troviamo un debole disposto a concedere acriticamente la ragione a Lévy15; più volte lo contraddice e si distanzia dalla sua esposizione. Che poi Lévy abbia un’interpretazione