Presentazione Geralt di Rivia è uno strigo, un assassino di mostri. Ed è il migliore: solo lui può affrontare un basilisco, sopravvivere a un incontro con una sirena, sgominare un’orda di goblin o portare un messaggio alla regina delle driadi, fiere guerriere dei boschi che uccidono chiunque si avventuri nel loro territorio... Geralt però non è un mercenario senza scrupoli, disposto a compiere qualsiasi atrocità dietro adeguato compenso: al pari dei cavalieri, ha un codice da rispettare. Ecco perché re Niedamir è sorpreso di vederlo tra i cacciatori da lui radunati per eliminare un drago grigio, un essere intoccabile per gli strighi. E, in effetti, Geralt è lì per un motivo ben diverso: ha infatti scoperto che il re ha convocato pure la maga Yennefer, l’unica donna che lui abbia mai amato. Lo strigo sarà dunque obbligato a fare una dolorosa scelta: difendere il drago e perdere Yennefer per sempre, o infrangere il codice degli strighi pur di riconquistare il suo cuore... Andrzej Sapkowski è nato a Łódz, in Polonia, nel 1948. Nonostante gli studi di economia, ha sempre amato raccontare storie e, all’inizio degli anni ’90, con la pubblicazione della serie che ha come protagonista Geralt di Rivia, ha ottenuto un travolgente successo prima in patria e poi all’estero, coronato, nel 2007, dall’uscita di The Witcher, il videogioco ispirato ai suoi romanzi. Attualmente è uno degli scrittori fantasy più letti d’Europa e di recente gli è stato conferito il prestigioso David Gemmell Legend Prize, attribuitogli dopo una votazione che ha coinvolto i lettori di 75 Paesi. Dopo Il guardiano degli innocenti (Nord, 2010), La spada del destino è il secondo episodio delle avventure di Geralt. NARRATIVA 437 Titolo originale Miecz przeznaczenia ISBN 978-88-429-2061-8 Per essere informato sulle novità del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita: www.illibraio.it www.infinitestorie.it In copertina: illustrazione di Gabriele Sina Grafica: Rumore Bianco © 1993 by Andrzej Sapkowski Published by arrangement with Literary Agency Agence de l’Est © 2011 Casa Editrice Nord s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2012 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. AVVISO AL LETTORE Su richiesta di Andrzej Sapkowski, questo libro è stato tradotto dal polacco, senza l’«intermediazione» di altre lingue. È stata una richiesta rivolta dall’autore a tutti i suoi editori stranieri e da tutti accolta; ovviamente pure la Casa Editrice Nord è stata ben felice di recepirla, consapevole di quanto siano importanti le scelte stilistiche e formali di un autore. Per questo motivo, i lettori appassionati di The Witcher, il videogioco ispirato ai romanzi di Andrzej Sapkowski, potranno trovare alcune differenze nei nomi dei luoghi e dei personaggi, qui resi appunto con la maggiore fedeltà possibile ai nomi originali. I limiti del possibile I L’uomo coperto di pustole scosse la testa. «Non verrà più fuori, vi dico. Ormai è un’ora e un quarto che è là dentro. Sarà bell’e morto.» I cittadini accalcati tra le rovine tacevano, gli occhi fissi sulla nera buca ingombra di detriti che si apriva tra le macerie e conduceva al sotterraneo. Un grassone in farsetto giallo spostò il peso da un piede all’altro, si schiarì la voce e usò la berretta sgualcita per asciugarsi il sudore dalle sopracciglia rade. «Aspettiamo un altro po’.» Il pustoloso sbuffò. «Aspettare cosa? Laggiù nelle segrete c’è un basilisco, l’avete dimenticato, capovillaggio? Basta entrarvi per essere spacciati. Sono forse morti in pochi? Aspettare cosa, dunque?» «Ma avevamo un accordo, no?» «L’accordo l’avevate con un vivo, capovillaggio», disse il compagno del pustoloso, un gigante con indosso un grembiule di cuoio da macellaio. «Ma ora è crepato, è chiaro come il sole. Si sapeva fin da subito che sarebbe morto, come gli altri che lo hanno preceduto. È entrato senza portare con sé neppure uno specchio, solo la spada. Ed è impossibile uccidere un basilisco senza specchio, lo sanno tutti.» «Tutto denaro risparmiato, capovillaggio», aggiunse il pustoloso. «Non dovrete pagare nessuno per la pelle del basilisco. Ora andate tranquillamente a casa. Al cavallo e alle cose del mago pensiamo noi, sarebbe un peccato se andassero perduti.» «Già. Una giumenta robusta e bisacce belle piene. Vediamo un po’ che cosa c’è dentro», fece il macellaio. «Ma come? Che fate?» «Zitto, capovillaggio, e non v’immischiate, se non volete guai», lo ammonì l’uomo coperto di pustole. «Una giumenta robusta», ripeté il compagno. «Lascia in pace quel cavallo, dolcezza.» Il macellaio si girò lentamente verso lo straniero che era appena sgusciato fuori di una breccia nel muro, alle spalle della gente riunita intorno all’ingresso delle segrete. Aveva folti capelli ricci, una tunica marrone sopra una giubba imbottita e alti stivali da cavaliere. E nessun’arma. «Allontanati dal cavallo», ripeté con un sorriso sarcastico. «Ma come? Si tratta del cavallo, delle bisacce e delle cose di un altro, e tu osi posarci sopra i tuoi occhi cisposi, allungare la tua manaccia rognosa? È così che si fa?» Il pustoloso guardò il macellaio e infilò lentamente una mano nella giubba. Il compare annuì e fece un cenno alla volta del gruppo, dal quale uscirono altri due uomini tarchiati coi capelli tagliati corti. Erano armati entrambi di bastoni, di quelli usati al macello per stordire gli animali. «E voi chi sareste per insegnarci cosa si fa e cosa non si fa?» chiese il pustoloso. «Non ti riguarda, dolcezza.» «Siete disarmato.» «È vero», confermò lo straniero accentuando il sorriso sarcastico. «Fate male.» L’uomo coperto di pustole sfilò dalla giubba la mano serrata intorno a un lungo pugnale. «Fate malissimo a girare disarmato.» Anche il macellaio estrasse una lama simile a un coltello da caccia. Gli altri due si fecero avanti sollevando i bastoni. «Non ne ho bisogno. Le mie armi mi seguono», ribatté lo straniero senza muoversi da dov’era. Due giovani fanciulle uscirono a passo leggero e sicuro da dietro le rovine. La piccola folla si fece subito da parte, arretrò, si diradò. Le due fanciulle sorrisero scoprendo i denti scintillanti e socchiusero le palpebre, ai cui angoli era tatuata una larga striscia blu che giungeva fino alle orecchie. Le pelli di lince che cingevano loro i fianchi lasciavano scoperte le cosce vigorose, mentre dai guanti di maglia di ferro s’intravedevano le braccia nude e tornite. Dalle spalle di ognuna, protette anch’esse da giachi, sporgeva il manico di una sciabola. Il pustoloso piegò le ginocchia piano, molto piano, e lasciò cadere il coltello. Dalla buca tra le macerie si sentì raspare, smuovere sassi, quindi dall’oscurità emersero due mani che si aggrapparono al bordo frastagliato del muro. Poi apparvero una testa dai capelli bianchi cosparsi di polvere di mattone, un volto pallido e il manico di una spada che spuntava al di sopra della spalla. La folla mormorò. L’uomo dai capelli bianchi issò fuori della buca un corpo strano e massiccio, ricoperto di polvere e impregnato di sangue. Tenendo il mostro per la lunga coda da lucertola, lo gettò senza dire una parola ai piedi del corpulento capovillaggio. Questi balzò indietro e inciampò su un pezzo di muro, fissando il becco ricurvo da uccello, le ali membranose e gli artigli falcati sulle zampe coperte di scaglie. Il gozzo gonfio, un tempo vermiglio, ora di un rosso sporco. Gli occhi vitrei, infossati. «Ecco il basilisco», disse l’uomo dai capelli bianchi togliendosi la polvere dai calzoni. «Come pattuito. I miei duecento lintar, di grazia. Dei bei lintar poco tagliati. Controllerò, vi avverto.» Con le mani tremanti, il capovillaggio tirò fuori una borsa. L’uomo dai capelli bianchi fissò per un istante il pustoloso e il coltello ai suoi piedi. Poi spostò lo sguardo sullo straniero con la tunica marrone, sulle fanciulle cinte da pelli di lince. «È sempre la stessa storia. Io rischio la pelle per voi in cambio di quattro soldi, e intanto voi cercate d’impadronirvi delle mie cose. Non cambierete mai, che la peste vi colga.» Il macellaio indietreggiò. «Non le abbiamo toccate, signore.» I due tizi armati di bastone si erano confusi da un pezzo tra la folla. L’uomo dai capelli bianchi sorrise. «Me ne rallegro molto.» Alla vista di quel ghigno che si schiudeva sul volto pallido come una ferita aperta, la piccola folla cominciò a disperdersi in fretta. «Perciò, fratello, non sarai toccato neanche tu. Vattene in pace. Ma fallo alla svelta.» Il pustoloso voleva battere anche lui in ritirata. Le pustole risaltavano orribilmente sul viso sbiancato. «Ehi, aspetta, hai dimenticato qualcosa», gli disse l’uomo con la tunica marrone. «Che cosa... signore?» «Di avermi puntato contro il coltello.» A un tratto la più alta delle fanciulle si dondolò sulle gambe aperte e fece ruotare i fianchi. La sciabola, estratta senza che nessuno se ne accorgesse, produsse un sibilo acuto. La testa del butterato schizzò in alto tracciando un arco e cadde nella buca che conduceva alle segrete. Il corpo, rigido e pesante come un tronco abbattuto, piombò tra i mattoni frantumati. La folla gridò. L’altra fanciulla, la mano sull’impugnatura dell’arma, si girò rapidamente per fronteggiare eventuali attacchi. Inutilmente. La folla, inciampando sulle rovine, fuggiva a gambe levate verso la città. Davanti a tutti correva a grandi balzi il capovillaggio, precedendo di appena qualche tesa il gigantesco macellaio. «Bel colpo», commentò in tono freddo l’uomo dai capelli bianchi, riparandosi gli occhi dal sole con la mano guantata. «Bel colpo di sciabola zerrikaniana. M’inchino davanti all’abilità e alla bellezza delle libere guerriere. Sono Geralt di Rivia.» Lo straniero indicò lo stemma scolorito sul davanti della tunica marrone, raffigurante tre uccelli neri allineati in campo giallo. «Sono Borch, detto Tre Taccole, e queste sono le mie ragazze, Tea e Vea. Le chiamo così perché a pronunciare i loro veri nomi si rischia di mordersi la lingua. Come hai indovinato, vengono entrambe da Zerrikania.» «Mi sembra che sia merito loro se ho ancora il cavallo e le mie cose. Vi ringrazio, guerriere. E grazie anche a voi, signor Borch.» «Tre Taccole. E lascia perdere il ’signore’. C’è qualcosa che ti trattenga in questa cittadina, Geralt di Rivia?» «Al contrario.» «Perfetto. Ho una proposta: non lontano di qui, a un crocevia lungo la strada che conduce al porto fluviale, c’è una locanda. Si chiama Al Drago Pensieroso. La sua cucina non ha eguali in tutta la regione. Mi ci sto giusto recando per passare la notte. Sarei felice se volessi farmi compagnia.» L’uomo dai capelli bianchi diede le spalle al cavallo e guardò lo sconosciuto negli occhi. «Borch, vorrei mettere subito le cose in chiaro tra noi. Sono uno strigo.» «L’avevo supposto. Ma hai usato un tono come se dicessi: ’Sono un lebbroso’.» «C’è chi preferisce la compagnia dei lebbrosi a quella di uno strigo.» «C’è anche chi preferisce le pecore alle ragazze», ribatté Tre Taccole con una risata. «Ebbene, c’è solo da compatirli, gli uni e gli altri. Rinnovo la proposta.» Geralt si tolse il guanto e strinse la mano che gli veniva tesa. «Accetto, rallegrandomi di aver fatto la tua conoscenza.» «In cammino, dunque! Mi è venuta una gran fame.» II Il locandiere passò uno strofinaccio sulle ruvide assi del tavolo, s’inchinò e sorrise. Gli mancavano i due denti davanti. Tre Taccole guardò un istante il soffitto annerito dalla fuliggine e i ragni che vi si muovevano seguendo percorsi imprevedibili. «Bene. Innanzitutto... Innanzitutto birra. Per non dover fare due volte la strada, portane un intero barilotto. E poi... Che cosa ci proponi con la birra, dolcezza?» «Del formaggio?» arrischiò il locandiere. «No, il formaggio lo prendiamo per dessert», rispose Borch con una smorfia. «Con la birra vogliamo qualcosa di aspro e piccante.» «Ai vostri comandi. Anguillette all’aglio in olio d’oliva e aceto, o peperoni verdi marinati?» domandò il locandiere con un sorriso ancora più largo. I denti davanti non erano i soli a mancargli. «Le une e gli altri. Poi la zuppa, la stessa che ho mangiato qui una volta: vi galleggiavano svariati molluschi, pesciolini e non so quali altre gustose porcherie.» «La zuppa dello zatteriere?» «Esatto. Poi arrosto di agnello con cipolle. E una sessantina di gamberi. Getta in pentola tutto l’aneto che c’entra. Poi formaggio di pecora e insalata. E infine si vedrà.» «Ai vostri comandi. Lo stesso per tutti e quattro?» La zerrikaniana più alta fece di no con la testa e si diede delle pacche eloquenti sui fianchi, stretti in un’attillata camicia di lino. «Dimenticavo, le ragazze si preoccupano della linea», mormorò Tre Taccole a Geralt. «Locandiere, l’agnello solo per noi due. Portaci subito la birra con le anguille. Per il resto aspetta ancora un po’, in modo che non si freddi. Non siamo venuti qui per rimpinzarci, ma per passare civilmente il tempo chiacchierando.» «Capisco.» Il locandiere s’inchinò di nuovo. «Il giudizio è una cosa importante nel tuo mestiere. Qua la mano, dolcezza.»