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La regia. L'arte della messa in scena PDF

649 Pages·1989·17.341 MB·Italian
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Sergej M. Ejzensiejn LA REGIA L’arte della messa in scena a a di Pietro Montani luì Saggi Marsilio © 1989 BY MARSILIO EDITORI® S.P.A. IN VENEZIA Titoli originali Izbrannye proizvedenija v Usti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970 Reiissura. Iskusstvo mizansceny vol. tv Traduzioni dal russo di Lorena Bottone, Alberto Goni, Simonetta De Bartolo, Marisa Preianò ISBN 88-317-5204 9 Prima edizione: novembre 1989 ÌNDICE ix Introduzione di Pietro Montani xxv Nota editoriale LA REGIA. L’ARTE DELLA MESSA IN SCENA 3 A priori 7 Introduzione 21 H ritorno del soldato dal fronte 21 I 46 II 66 Il movimento degli stili 84 Sul movimento di «rifiuto» 95 in 114 IV 146 V 177 VI 264 VII 327 Vili 360 IX 477 X 523 XI 617 Note del curatore 623 Indice dei nomi INTRODUZIONE 1. Il 1° ottobre 1932 Ejzenstejn fu nominato titolare della cattedra di Regia nell’istituto statale di Cinematografìa di Mosca (gik), dove aveva già tenuto dei corsi nel 1928. L’inizio di questa nuova fase di impegno didattico coincide con il concepimento di un ampio trattato sulla regia, un’opera in tre volumi, destinata innanzitutto agli studenti, da scrivere in stretto rapporto con l’attività di insegnamento. Nell’otto­ bre dell’anno successivo è già configurato il piano dettagliato del primo volume: il corso che si inaugura nell’autunno 1933, dunque, assume un’importanza particolare perché è pensato in vista della sua trasforma­ zione in libro. Sarà il nucleo del primo volume del trattato sulla regia, L'arte della messa in scena. Il primo e l’unico, in realtà, perché gli altri due volumi non solo non furono mai scritti, ma non furono nemmeno portati a un grado di sufficiente elaborazione “testuale”. Al contrario, gli stenogrammi delle lezioni tenute nell’anno accademico 1933-34 furono rivisti, annotati e integrati da Ejzenstejn nel corso di un lungo processo di messa a punto che si protrasse, con aggiunte, modifiche, ulteriori esemplificazioni, nuovi excursus teorici, fino al 1948. Della monumentale impresa concepita nel 1932, dunque, oggi ci resta, essenzialmente, questo libro1 in qualche misura incompiuto e ancora in parte da “montare”, come tutte le grandi opere di Ejzenstejn, ma anche, come vedremo, assai coerente, in virtù del pensiero unitario che lo percorre e dell’intento didattico da cui muove. Al grande edifìcio teorico-pratico progettato esso fornisce, si potrebbe dire, nient’altro che le solide fondamenta. Ma si tratta di fondamenta davvero “profon­ de”, perché il problema che vi si affronta è il presupposto più originario dell’operazione registica: il costituirsi di una “scena” in rapporto a “qualcosa” (un «compito», come lo chiama Ejzenstejn) da rappresenta­ 1 Per ulteriori notizie sul testo si rimanda alla nota editoriale. X Pietro Montani re (ma, come si vedrà, la scena eccede, e di gran lunga, il «compito»). All’inizio del corso, Ejzenstejn fornisce ai suoi allievi «una riga di sceneggiatura» che si tratterà di «mettere in scena», ma l’allestimento non si avvale di un referente spettacolare definito (un palcoscenico, un set cinematografico) bensì di uno spazio immaginario che diventa il luogo di un complesso e multiforme esperimento costruttivo. Noi proveremo qui a seguire lo strutturarsi di questo spazio, esplicitandone le principali regole di produzione; ma lo osserveremo anche, per un privilegio e un obbligo della distanza che ce ne separa, alla luce della scena più ampia che lo include: quella in cui uno straordinario personaggio di regista-pedagogo va organizzando sotto gli occhi dei suoi allievi uno spettacolo in cui è in gioco, insieme alla rappresentazione che pian piano prende forma, anche la peculiare rappresentabilità del pensiero teorico che sostiene e produce quella forma e, inoltre, l’affiorare di altri oggetti, sensi, passioni (di altre scene, cioè) che il pensiero convoglia di continuo nell’operazione costruttiva in cui si esprime. Spettacolo appassionante e ricco di suspense, come il lettore vedrà fin dalle prime battute di questo libro che offre, al di là di ogni sua possibile utilizzabilità metodologica, la singolare testimonian­ za di un’«arte della messa in scena» capace di esercitarsi sugli oggetti della riflessione teorica e di tematizzare nel luogo stesso del suo prodursi il fenomeno della creatività. Era questo, d’altronde, un vecchio progetto di Ejzenstejn: un’idea, tutto sommato, meno utopica di quanto egli stesso non si fosse convinto che dovesse essere. 2. Cominciamo dunque dal «compito» che Ejzenstejn presenta ai suoi allievi all’inizio del corso di regia del 1933-34. Viene proposto un segmento narrativo molto semplice - «Un soldato torna dal fronte. Scopre che durante la sua assenza la moglie ha avuto un figlio da un altro. La lascia» -, e si comincia a discutere su come metterlo in scena generando sistematicamente tutte e solo le determinazioni necessarie all’operazione, la quale andrà effettuata, secondo un accordo prelimi­ nare, esclusivamente sul piano della composizione significante dello spazio (planirovka) e sul piano delle azioni o «gioco scenico» (igrà) che i personaggi dovranno eseguirvi. Naturalmente la messa in scena prevede altre regole, dette e non dette, che chiariremo tra poco, ma intanto fermiamoci un attimo su questa sua primissima configurazione, che è già meritevole dì qualche commento. Osserveremo in primo luogo lo statuto perfettamente artificiale Introduzione XI della scena che gli studenti di Ejzenstejn dovranno costruire: come si è già detto, questo spazio non ha niente in comune con un set c*inemato grafico - il che, del resto, è espressamente previsto dal carattere propedeutico del corso -, inoltre esso stabilisce con lo spazio di una scena teatrale un rapporto puramente analogico e di comodo. Gli studenti sono invitati a procedere «come se» si trattasse di allestire uno spettacolo teatrale o, meglio, una certa fase istruttoria di uno spettacolo teatrale limitata alla composizione e al gioco scenico. Ma, in realtà, lo spazio di questa messa in scena è un costrutto immaginario, un programma che si espande e si articola secondo regole di trasformazio­ ne (come il lettore vedrà subito, la planirovka elaborata da.Ejzenstejn sarebbe assai felicemente rappresentabile, nel suo progressivo venire alla forma, sul monitor di un computer), e il senso delle sue limitazioni ha un valore eminentemente didattico: imparare a pensare e a trattare la composizione dello spazio e il gioco scenico dell’attore come veicoli specifici di senso, come entità capaci di per sé di produrre e formare senso o, all’occorrenza (ed è il caso della lezione sul ritorno del soldato), di caricarsi integralmente di senso, nel rispetto rigorosissimo di un’assoluta economia dei mezzi espressivi e di un’“ isotopia” pervasi- va e totalizzante: nessuna determinazione spaziale e nessun gesto o spostamento più di quelli strettamente necessari. Lo spazio che Ejzenstejn e i suoi allievi si mettono a modulare, dunque, è un caso limite di semiotizzazione di una zona dello spazio scenico; ma - ecco la nostra seconda osservazione di carattere prelimi­ nare - che cosa si dovrà “formare” in questo spazio, qual è il “senso” di cui la scena dovrà integralmente caricarsi? Si può supporre, forse, che la «riga di sceneggiatura» fornita agli studenti abbia già un senso e che si tratti solo di manifestarlo? Evidentemente no, perché di soluzioni spaziali quella «riga» ne può generare infinite. Allora sarà necessario procedere a un’operazione preventiva che consiste nell’assumere quella riga in un orizzonte unitario di senso. Se vogliamo tradurla in una certa composizione spaziale attraversata e articolata da una certa rete di rapporti dinamici significativi, dobbiamo prima averla «sentita» secon­ do un’interna unità capace di indirizzare o, meglio ancora, di generare la ricerca e la scelta di soluzioni espressive effettivamente adeguate. Ma che significa che bisogna «sentire» l’unità di un certo frammen­ to testuale? Che statuto ha questo curioso «sentimento» che pretende di precedere e indirizzare la rappresentazione e perfino la medesima rappresentabilità di qualcosa? E che statuto ha 1’“ unità” in cui deve raccogliersi? Che genere di rapporto c’è tra questa “unità” (che è xn Pietro Montani Punita di un «sentire», un fenomeno estetico, dunque) e il fatto che essa è ritenuta responsabile della produzione di un costrutto spaziale e dinamico (cioè di qualcosa che è del tutto eterogeneo rispetto all’inizia­ le unità di senso di cui pure si afferma, e con evidenti ragioni, il carattere condizionante)? E infine, che genere di “unità” si potrà mai «sentire» in un frammento testuale come quello proposto, così inten­ zionalmente irrelato, così perentoriamente stereotipo? È chiaro che il maestro qui chiede ai suoi allievi uno sforzo “sperimentale” ulteriore: egli chiede loro di lavorare non solo (come bisognerà pur fare, anzi: come si deve fare) sul senso della scena del ritorno del soldato - che può essere questo o quello, anzi: questo e quello e ancora un altro (le varianti elaborate infatti saranno tre) -, bensì anche sul fatto stesso per cui l’assumere qualcosa in un orizzonte unitario di senso coincide già con la mobilitazione implicita di un complesso ed eterogeneo arsenale di regole e procedure generative “mirate” che si tratta solo di “mettere in produzione” e dominare consapevolmente. La scena dunque si apre sullo spazio vuoto che dovrà pian piano configurarsi e significare, animarsi e comunicare le emozioni e i sensi di volta in volta stabiliti, ma nella più ampia scena che la contiene (l’aula del gik, questo libro) il gioco che ora ha inizio è il gioco della multiforme produttività semiotica del sensato e delle sue regole di esecuzione, il gioco della “creatività regolate? così come Ejzenstejn la intendeva e come riteneva di poterla insegnare. Insomma, per dirla con una formula, Il ritorno del soldato non è (solo) una lezione di cinema o di teatro, è (in primo luogo) una lezione sulle regole dei processi costruttivi del pensiero e sull’eterogeneità della loro natura e dei loro oggetti (che va dall’iniziale «sentimento» estetico dell’unità di un senso, via via fino all’organizzazione significante della forma che ci fa capire o vedere che cosa davvero avevamo sentito). Su queste regole di transito dal senso alla forma e di connessione del senso e della forma - regole che ci sembrano essenzialmente quattro - ci soffermeremo ora in modo dettagliato. 3. La prima regola, che abbiamo appena incontrato, potremmo chiamarla la “regola della precedenza del senso”. Su di essa Ejzenstejn insiste con assoluta costanza, mettendo in campo un’intera batteria di concetti (non sempre felici, non sempre risolutivi) e numerosissime esemplificazioni. Questo “senso” preliminare, in realtà, va inteso nella sua accezione più letterale e meno tecnica: è l’unità di un sentire xm Introduzione (oscuscenie] nella quale “qualcosa” - diciamo, una “materia tematica” «un soldato ritorna dal fronte... ecc.» - deve potersi raccogliere nel momento in cui ci prepariamo a manifestarla (a convertirla in discorso, a metterla in scena, insomma a “formarla”). Ovviamente il processo non è unidirezionale (e la stessa nozione di “precedenza”, che pure bisogna usare, è in qualche modo falsante), perché tra il senso e la sua esecuzione esiste un evidente rapporto di retroazione o messa a punto reciproca. Diremo allora che Punita del senso è pensata da Ejzenstejn come una sorta di necessaria anticipazione di rappresentabilità: essa apre una scena virtuale, indica le linee di una possibile elaborazione,, mette in stato di preallarme certi dispositivi semantici e ne sopisce altri, insomma predispóne un certo assetto di regolarità costruttive che! segnalano semplicemente che i lavori possono cominciare. » La singolare funzione di questa prima regola è dunque chiara: essa è un principio estetico che serve per la convocazione di regole ulteriori (vedremo tra poco quali); ma, a sua volta, nella sua originaria funzione unificante, essa non si può far dipendere da altre regole. Se così fosse - e questo punto è essenziale e ricco di conseguenze imprevedibili - se, cioè, l’unità del senso dipendesse a sua volta da un principio ulteriore da ricercare e da definire, noi entreremmo in uno di quei tipici regressi all’infinito che in genere si insabbiano nell’ipostasi di un fondamento ultimo: il vissuto, l’intuizione, la coscienza di classe, l’inconscio, lo spirito oggettivo, la dialettica della natura o quel che sia. La posizione dì Ejzenstejn è qui nettissima, a dispetto delle pur numerose dichiara­ zioni di ortodossia materialista - e per quanto in qualche misura l’idea di un fondamento «di classe» del «sentire» non sia estranea all’orizzon­ te del pensiero ejzenstejniano, così vasto e bizzarro, così attrezzato e ironico da saper accogliere e rielaborare davvero di tutto, basti pensare al suo uso della «dialettica». La posizione di Ejzenstejn è nettissima in quanto è sostenuta, per così dire, da un’opzione epistemologica: l’unità del senso va pensata come un fatto originario e non ulteriormente risalibile: se noi rappresentiamo (se parliamo, se mettiamo in scena ecc.), ciò accade in quanto un atto preliminare e originario di unificazione del senso ha già messo in campo le regole necessarie all’operazione. Quest’unità, come tale, non tollera di essere ulterior­ mente qualificata per la semplice ragione che essa non è altro che l’apertura di uno spazio simbolico che ora si tratterà di organizzare; è vero invece (ma lo è proprio in virtù di questa radicale originarietà) che l’interrogazione potrà, anzi dovrà ora vertere sullo spazio che si è aperto e sulle regole che vi sono state convocate, perché noi ora eia XIV Pietro Montani siamo in un certo orizzonte definito di rappresentabilità e l’unità del senso, che è scattata, può e deve lasciarsi cogliere nel suo necessario specificarsi. Ciò significa, in altri termini, che questa interrogazione ci ha già di fatto collocati nell’orizzonte della seconda regola la quale, dunque (ma lo vedremo meglio tra poco), non è altro che la prima regola osservata sotto un profilo funzionale. Ci si può chiedere, e anzi è bene farlo per evitare equivoci grossolani, che genere di utile teorico Ejzenstejn contasse di ricavare da questa sua insistenza quasi ossessiva sul carattere originario - non risalibile, non qualificabile - del «sentimento» unitario con cui va colta la materia tematica da mettere in scena. Diciamo allora che si tratta proprio di un utile teorico a forte tasso di impegno didattico: Ejzenstejn non intende difendere un’estetica (almeno in questa sede), intende mostrare che la produttività di un approccio responsabile ai problemi della forma non può fare a meno di tematizzare nella sua radicalità la questione del senso e della sua peculiare, intrattabile priorità. Quando questo non accade, il lavoro creativo si appiattisce su una teoria più o meno implicita o la subisce (come succede al regista mestierante o all’intuitivo o al servile portavoce delle istanze di senso ufficiali), oppure introduce un “fondamento” - l’origine del senso - che si risolve di regola nel disordine o nella negazione della forma (e questo è il caso del cosiddetto «realismo», che in questo libro incassa colpi duri e ben piazzati nella sua variante teatrale più illustre, la scuola di Stanislavskij con la sua teoria che colloca l’origine dell’unità del senso nel celebre «perezivanie», cioè in un “vissuto"), o, infine, scarica l’intero compito sulla forma che viene in tal modo feticizzata o resa fortuita o ingovernabile (come nel caso del cosiddetto «costruttivismo», o meglio, della “maniera” costruttivista che fa qui da pendant alla “maniera” stanislavskijana). 4. La regola della “precedenza del senso”, si è detto, è un principio che introduce alla rappresentabilità; ma, sotto un profilo funzionale, si è aggiunto, essa è già in opera come un principio di specificazione e cioè come una seconda regola, che chiameremo “regola del senso orientato”. In altri termini, se la prima regola ha una natura che non abbiamo esitato a definire “estetica”, la natura della seconda è già pienamente “semiotica”. Una volta chiarito che la «riga di sceneggiatu­ ra» comincia a diventare rappresentabile solo in forza della sua assunzione in un orizzonte unitario di senso, Ejzenstejn chiede ai suoi allievi di cominciare a «sentire» la materia tematica del «compito» in

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