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La prima riforma della dialettica hegeliana PDF

141 Pages·2004·1.509 MB·Italian
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LA PRIMA RIFORMA DELLA DIALETTICA HEGELIANA Cornelio Fabro L A PRIMA RIFORMA DELLA DIALETTICA HEGELIANA a cura di Christian Ferraro Editrice del Verbo Incarnato Prima edizione 2004 © 2004 – Editrice del Verbo Incarnato P.zza San Pietro, 2 – 00037 Segni (RM) PRESENTAZIONE Non è cosa di ogni giorno presentare un’opera inedita. Se alle volte potrebbe scoraggiare un po’ il dubbio riguardo all’autenticità del testo, nel nostro caso però è lo stesso Autore a far constatare in maniera chiara ed inequivocabile non solo l’autenticità dell’origine, ma anche la sua volontà decisa e risoluta di editare l’opera. Come testimonia il carteggio che accompagnò la faccenda, si tratta del frutto di un lavoro di quindici anni prospettato in maniera unitaria – sebbene non sistematica –, e Fabro vedeva in esso un messaggio per le «nuove leve del pensiero». Il Nostro era, inoltre, pienamente consapevole dell’alto livello speculativo in cui si muoveva: alta metafisica. L’intensità, la densità, la profondità ed acume del discorso raggiungono qui in alcuni momenti dei vertici difficilmente superabili, degni di un Pensatore Essenziale. Assistiamo, dunque, ad un dialogo e ad un confronto fra colossi, ad un duello metafisico di tensione massima fra il più assoluto degli idealisti e il più essenziale dei tomisti. L’assunto è per Fabro una questione di serietà suprema: a livello teoretico, tutta la serietà della realtà; a livello esistenziale, tutta la serietà della testimonianza della verità – al di sopra di mode e prudenze umane. Il nostro più sentito ringraziamento a tutti coloro che hanno contribuito perché questo libro veda la luce e alle persone che ci hanno incoraggiato. In maniera particolare, ai padri stimmatini della provincia del S. Cuore e alla prof.ssa Anna Giannatiempo, che ci diedero la possibilità di ottenere il dattiloscritto con le correzioni fatte da Fabro stesso. A modo di appendice di questa breve presentazione, eliminando ogni riferimento personale, alleghiamo a continuazione alcune lettere – una, in copia dalla carta manoscritta – inviate da Fabro alla casa editrice e alla persona intermediaria. Christian Ferraro PROLOGO - LA LIBERTÀ COME DIALETTICA DELL’ESISTENZA Non c’è termine più affascinante per lo spirito umano di quello della libertà: della capacità di scegliere, di realizzare, ossia di venire a capo del proprio destino nell’Assoluto della scelta stessa. La libertà indica l’uomo concreto e attivo nel divenire stesso com’egli si è scelto di voler divenire. La libertà perciò non è un concetto ma un atto: è infatti l’affermazione dell’Io come compito e dovere, come rischio di audacia per trascendere il dato, come possibilità ed inizio, e realizzare ossia porre in atto l’aspirazione suprema alla felicità. È un rischio – e quale rischio! Quello anzitutto di spezzare l’indifferenza e attuare la possibilità, l’indifferenza delle ricorrenti alternative della scelta e la possibilità che sta a fondamento dell’alternativa stessa. È la possibilità esistenziale originale che rimane sempre aperta all’atto, lo sostenta nel suo muoversi, ma anche lo può deludere e perfino tradire – nell’urto con la realtà – ad ogni passo. La libertà, infatti, traccia il cammino dell’Io nella sua avventura terrena ed è perciò estremamente ambigua in qualsiasi scelta: non soltanto nell’alternativa attiva della sua possibilità in cui l’Io si può insieme costruire e demolire, fin quando non si decide di sbarazzarsi dalle suggestioni del finito e di aderire con i colpi d’ala dello spirito per trascendere il finito e l’apparente e fissarsi nella decisione di essere profondo davanti a Dio creatore, cioè al Principio primo e per il cristiano davanti a Cristo che farà il giudizio della storia. INTRODUZIONE - L’ESSERE COME INIZIO - (IL PROBLEMA HEGELIANO DEL COMINCIAMENTO) § 1. Il cominciare sembra proprio della vita, ch’è attività immediata e non della filosofia ch’è opera di riflessione. Ma soltanto la filosofia può porre allo spirito il problema del proprio cominciare e quindi della propria nascita e giustificazione. E come nella vita il cominciare contiene già in atto i principi dell’essere come fondamento del proprio sviluppo, così anche in filosofia il cominciare non è tanto o soltanto un punto di partenza ma forma insieme la costituzione e fondazione in atto dell’atto teoretico fondamentale. Il parallelo fra il processo della vita e quello della riflessione finisce qui, anche se tutto nell’espandersi e svolgersi della vita può appartenersi e riflettersi dall’una all’altra sfera, dalla sfera biologica a quella della riflessione e dal mondo all’io, all’affermazione dell’Assoluto in una circolazione infinita che si fissa nel suo centro. Il cominciare in filosofia – quand’essa è, come dev’essere, la «riduzione al fondamento»1, ch’è lo stabilirsi della riflessione stessa nel suo principio – è di conseguenza lo stabilire anzitutto la determinazione del proprio metodo. Non è quindi semplicemente un cominciare iniziale che lascia alle spalle il proprio inizio, ma si tratta di un cominciamento costitutivo che fa del proprio inizio l’istanza teoretica la quale è la garanzia insieme radicale della verità, sempre presente e sempre aperta. La filosofia, per chi l’ammette e affida ad essa la fondazione del senso ultimo della verità, è la riflessione essenziale che ha per oggetto la «prima verità» ossia l’illuminazione originaria ch’è la verità dell’essere. Per questo la filosofia, nell’ambito della ricerca umana, viene per ultima: l’uomo, sospinto dalle istanze immediate della vita, si diffonde nel lavoro, nella scienza, nelle arti e si pone i problemi della vita etica, sociale, religiosa, politica nell’orizzonte della propria esistenza. La verità di queste sfere può essere detta, sia pur in diversi modi, verità di primo grado od anche – con terminologia husserliana – «verità regionale» e – con terminologia heideggeriana – «verità ontica». La verità essenziale, ch’è propria della filosofia, va detta la verità dell’essere in quanto essa è e deve mostrare il fondamento e il paradigma di ogni verità: non si tratta quindi semplicemente di dare una «definizione logica» della verità, a partire dai contenuti di scienza e di esperienza già noti, quanto di mostrare e soddisfare l’esigenza primordiale del conoscere stesso, rispetto al reale nel suo fondamento ch’è, per l’appunto, quello di un porsi e di un essere posto. In altre parole – e la cosa è tanto ovvia che sembra superfluo l’insistervi – si tratta anzitutto e soprattutto di chiedersi e di chiarire (decidere) qual è e come si pone, in ultima istanza, il rapporto di essere-pensiero: se è l’essere che fonda il pensiero (realismo) oppure se è il pensiero che produce e fonda l’essere (immanentismo). Tale è il senso del problema del cominciamento in filosofia. § 2. È chiaro che l’alternativa di cui si parla non è di natura puramente logica o terminologica (lessicale), ma rigorosamente speculativa e costitutiva in senso forte. Si vuol dire che quando e per il fatto che la filosofia dell’immanenza opta per l’essere di coscienza e pone il pensiero a fondamento dell’essere, non elimina affatto l’istanza dell’essere e la sua semantica: anzi lo ritrova dappertutto – né più né meno della filosofia della trascendenza –, soltanto che si tratta sempre di un «essere di coscienza» ovvero ch’esso scaturisce in atto dalla funzione di coscienza; che sorge, sempre e dovunque non solo mediante la coscienza, ma come «struttura di coscienza» e come «contenuto di coscienza»2. Parimenti, quando e per il fatto che la filosofia della trascendenza accetta e pone l’essere a fondamento dell’atto di coscienza e riferisce perciò la coscienza all’essere subordinando l’attività della coscienza al presentarsi dell’essere alla coscienza stessa, essa non nega affatto l’attività della coscienza ma piuttosto la sospinge in profondità all’infinito com’è infinito l’orizzonte dell’essere che di continuo l’attira e la mette in tensione. Se nell’immanentismo la coscienza può «divagare» a suo piacere, perché è fatta arbitra dell’essere, nel realismo invece la coscienza, sempre impegnata a fare i conti con l’essere e ad impegnare in esso la sua libertà, se vuole conservarsi in atto, non può concedersi distorsioni o abbandonarsi a capricci, ma si «protende» per spinta intrinseca verso l’essere dell’ente al quale rimanda ogni pensare ed ogni discorso: lo,goj li significa entrambi in un plesso indissolubile. Il divario quindi, dal punto di vista metodologico, fra immanentismo e realismo, non è tanto nella scelta casuale dell’immanenza con esclusione della trascendenza o viceversa, ma nella fondazione del rapporto rispetto all’essere: è questo rapporto che deve anzitutto interessare, se non si vuol lasciare che il pensiero giri a vuoto e che la filosofia non significhi più nulla. E il rapporto nell’immanentismo moderno significa che il pensiero dell’essere si rapporta alla coscienza nel senso che esso procede dalla coscienza e secondo il modo (e i modi) della coscienza, così che «essere» si risolve in un legame («copula») di pensiero e perciò di coscienza, comunque la coscienza si attui e si volga. Nel realismo il rapporto significa che la coscienza per attuarsi si rapporta all’essere nel senso ch’essa è svegliata dal presentarsi in atto dell’essere, e che è guidata dai principi dell’essere, e ch’è attirata e stimolata dalla varietà e complessità inesauribile dell’essere. Questa formula semplifica molto, l’ammetto, tanto il realismo quanto l’idealismo o diciamo più propriamente l’immanentismo: essa ora vuole soltanto accentuare la divergenza di fondo fra il pensiero classico e il pensiero moderno. Noi ci chiediamo infatti se è ancora possibile la filosofia per se stessa, come atteggiamento fondamentale della coscienza ossia come determinazione della «verità dell’essere» nel senso di chiarificazione del suo fondamento. Questa richiesta può ancora avere un fondamento, dopo che il cogito come attività si è dissolto nel puro volo (attività) e la filosofia è svanita nel prassismo puro (marxismo, attualismo, esistenzialismo, filosofia del linguaggio e della scienza, semantica, ecc. ecc.), cioè dopo ch’essa è diventata filosofia di tutto purché non sia la «ricerca del fondamento»? § 3. La DIREMTION di realismo e idealismo ossia l’alternativa radicale, che stiamo introducendo, fra la filosofia classica e la filosofia moderna, ha il suo punto saldo di riferimento nell’antitesi del rapporto di pensiero ed essere. Quest’antitesi ha avuto il suo punto di partenza, com’è noto, col sorgere stesso della filo- sofia nel principio di Parmenide: «senza essere non c’è pensiero» (B 8, 34)3 ch’è il motto della filosofia speculativa. Ma Parmenide ha anche affermato che «l’essere e il pensiero sono la stessa cosa» (B 3)4 e questo principio che non può evidentemente anticipare di due millenni l’immanentismo moderno affermava, contro il materialismo democriteo, l’appartenenza intrinseca e scambievole dell’essere al pensiero e del pensiero all’essere. Ciò suggerisce già che il locus debitus della verità dell’essere non può essere né il realismo empirico materialistico né il soggettivismo o immanentismo trascendentale ma il superamento della loro antitesi. Di qui l’importanza che ha in filosofia il «Cominciare» il quale è non tanto il fare il «primo» passo del cammino, ma un mettersi nel «luogo della verità»: è perciò come un trovare e uno stabilire la luce che illumina il cammino e lo rende possibile, non solo al primo passo, ma lo sostenta e lo sospinge di tappa in tappa. Il cammino della verità deve quindi presentarsi come interiore al pensiero stesso, deve apparire come essenziale al primo atto e passo del pensare così che ogni pensare seguente non è che uno svolgimento all’interno di quel primo passo e un’ulteriore soddisfazione di quella prima richiesta. Infatti la filosofia è anzitutto la giustificazione della verità del pensiero ovvero la fondazione della verità come tale: così essa è, e dev’essere, il portarsi e riportarsi al momento originario dello stabilirsi della verità in sé, ossia, con parole più elementari, è il ritrovare e chiarire quell’evidenza primitiva la quale alimenta ogni altra verità della vita e ogni altra evidenza della scienza. È questa l’evidenza originaria poiché essa dà luce e certezza a ogni verità ed è da tutte presupposta, ma essa nulla presuppone. Tale infatti è l’esigenza che anche Hegel, collegandosi più a Parmenide su questo punto che non a Cartesio o a Kant, ha giustamente rivendicato quando ha attribuito al metodo della filosofia la «mancanza di presupposti» (Voraussetzungslosigkeit)5. Infatti sotto l’aspetto positivo il cominciare senza presupposti si- gnifica soprattutto che il modo di cominciare della filosofia deve essere proprio alla filosofia e non mendicato da altre sfere della coscienza e conoscenza sia empirica come scientifica, tecnica, morale, religiosa… Sotto l’aspetto negativo, invece, e di conseguenza, il cominciare senza presupposti diffida ogni altro atto e modo di cominciamento che contrasta l’apertura della riflessione radicale: esclude perciò ogni «cominciare di presunzione» cioè sia l’intuizione assoluta sia la deduzione dimostrativa, sia il sentimento puro (la fede) sia l’azione pura ed ogni «salto» nell’irrazionale. Sarebbe questo un cedere via via alla disperazione o alla hybris, invece di interrogare per primo il logos della ragione: il cominciamento diventerebbe un atto di sopraffazione, una violenza contro il pensiero. Ma il pensiero, cioè lo spirito, non può patire violenza: perciò quel cominciare di presunzione non è affatto un cominciare ma soltanto un allontanarsi ed un vagolare impotente. Legittima perciò può sembrare l’esigenza di Hegel al redde rationem della filosofia col problema del cominciamento: ma proprio nel suo fallimento essa ci mostra ove sia da cercare la vera vis theoretica del problema stesso. Il «Cominciamento» (Anfang) è l’esigenza del pensare essenziale. La filosofia comincia assolutamente in quanto nel suo cominciamento fa l’esperienza della sua essenza di riflessione radicale sul fondamento. Quindi «cominciamento puro» (senza presupposti) è nel pensiero moderno la riflessione essenziale o «riflessione assoluta», come è stata anche chiamata6: essa intende distinguersi dalla «riflessione ingenua» (naive), immediata e acritica. Questa crede di portarsi direttamente all’Essere del mondo come al proprio oggetto e fondamento e di riposare in esso. Il pensiero moderno, in- vece, soprattutto da Cartesio ad Hegel, si è ripiegato sulla soggettività dell’Io così che la «verità della coscienza è l’autocoscienza». La riflessione radicale è perciò autoriflessione. Questa diventa assoluta in senso radicale quando colloca la fondazione della verità per riferimento all’Assoluto come p. es. nel razio- nalismo (lasciando fuori il finito, l’empirico) o con un riferimento assoluto (dell’empirico, del finito…) all’Assoluto come p. es. in Hegel. Due generi di riflessione assoluta antitetici, poiché divergono proprio nella struttura del «riflettersi della riflessione» ossia del rapporto fra la riflessione empirica e la riflessione assoluta, un rapporto ch’è ermeticamente chiuso nel razionalismo e aperto al processo infinito nell’idealismo. L’apertura, com’è noto, è venuta da Kant il quale, benché abbia liberato la soggettività dalla dipendenza dal dato empirico, ha mantenuto all’esperienza sensibile il carattere di presupposto (materia) accanto all’Io trascendentale7 ch’è a sua volta il presupposto dell’intelligibilità (forma) dell’esperienza stessa. Questo Io puro trascendentale, che in Kant è principio supremo funzionale ossia è un Io come principio e termine di riferimento della necessità e verità del sapere, è elevato da Fichte e Schelling a Io assoluto ossia metafisico, vale a dire, a cominciamento unico (ch’è insieme il termine) della filosofia. Hegel, che raccoglie e approfondisce quest’esigenza della riflessione essenziale come circolarità, identifica il movimento del pensiero col movimento dell’essere. Ma conservando accanto all’Io il fenomeno (l’immediatezza empirica), come momento dialettico, l’idealismo metafisico manteneva due cominciamenti che si condizionavano a vicenda (come la materia e la forma in Kant): l’immediatezza empirica senza l’Io assoluto si dissolve nel nulla, perché priva di «unità espressiva», l’immediatezza riflessa dell’Io assoluto senza l’immediatezza empirica si dissolve parimenti nel nulla perché priva per suo conto di «realtà espressa» o da esprimere. Sembra perciò che la «riflessione radicale», di cui abbisogna la filosofia, non possa, nel predominio di un momento (mondo, Io) sull’altro, appoggiarsi né al puro oggetto né al puro soggetto, né soltanto al mondo né soltanto all’Io…, ma piuttosto ch’essa sia da cercare nella determinazione di un rapporto che li comprenda e connetta entrambi. L’esigenza della fondazione assoluta del pensiero ossia della «riflessione essenziale» ci sembra un punto fermo nella coscienza filosofica moderna: ammesso – come si deve ammettere – che l’uomo nella ricerca del fondamento è impegnato come soggetto e oggetto ad un tempo. Vale a dire, nella riflessione essenziale non si può trattare dell’Essere senza l’uomo o dell’uomo (coscienza) senza l’Essere. È stato questo l’errore di fondo della filosofia posthegeliana (specialmente della sinistra, decisamente antimetafisica) per la quale l’uomo (coscienza) si definisce come «rapporto al mondo». Poiché questa filosofia si assume di criticare la metafisica idealistica ma conserva insieme il principio d’immanenza, essa trasferisce l’Essere – che quell’idealismo attribuiva come possesso all’Assoluto – a siffatto «rapporto al mondo» di cui l’Io e il mondo figurano come i due poli in tensione infinita. Ma così non si risolve ancora nulla: non si sa infatti non solo «donde» (Woher, per dirla con Kant)8 venga l’Io, ma cosa esso sia in sé e cosa possa9. Altrettanto e più ancora dicasi del mondo: il pensiero moderno può certo dire che qualsiasi essere senza l’Io, senza il riferimento all’Io non è nulla (per la coscienza), ma anche la coscienza senza il riferimento all’Essere (del mondo) non è ancora nulla per se stessa. L’attuarsi del rapporto, per dirla con Kierkegaard, è il suo rapportarsi ch’è pertanto il «rapportarsi del rapporto»10 e così all’infinito (eivj a;peiron). Di qui l’eliminazione nella filosofia posthegeliana e specialmente nella contemporanea del problema del «cominciamento» ossia della «riflessione essenziale», e la fine con esso della filosofia come determinazione del rapporto essere-conoscere: la fine della filosofia, tanto dell’essere come del conoscere. Può questo significare che la «riflessione essenziale» è in se stessa impossibile e contraddittoria? Quest’interrogazione non può essere lasciata senza risposta. La risposta di Hegel fu affermativa fino all’ultimo e su questo punto pochi pensieri sono stati esemplari come il suo. A suo avviso la «riflessione essenziale» che si attua nel cominciamento puro, è il portarsi al fondamento dell’attività immanente del pensiero liberando le (sue) forme dalla materia e attingendo così la «libertà» ch’è l’essenza dello spirito e l’oggetto proprio della filosofia. Non a caso Hegel, in quello ch’è forse l’ultimo suo scritto, collega espressamente questa sua aspirazione alla libertà costitutiva, da attuare nell’atto filosofico fondamentale, all’ideale filosofico prospettato da Platone e Aristotele: «In primo luogo è da riguardare come un progresso infinito (ein unendlicher Fortschritt) che le forme del pensiero siano state liberate dalla materia in cui esse sono immerse nell’intuire e rappresentare autocosciente, come nel bramare e volere del rappresentare (e non c’è nessun bramare o volere senza rappresentare), che queste universalità siano fatte risaltare per sé»11. «Universalità, astrazione, libertà»… sono per Hegel sinonimi ed hanno nel puro concetto la propria autentica espressione: esso è il fondamento in ultima istanza. Hegel ha dell’atto filosofico un’idea di assoluta autonomia così che quanto lo precede ossia l’intera sfera della coscienza immediata empirica, anzi l’uso spontaneo delle categorie nella stessa «logica naturale»… (die natürliche Logik) egli qualifica per vita istintiva e attività inconscia che non attinge la razionalità12. Il testo è categorico e illuminante per afferrare il prodromo della dissoluzione post-hegeliana ed è confermato di lì a poco in modo da fugare ogni dubbio sul «trauma logico» che Hegel intende affermare per fare il proprio cominciamento nel «medio» del pensiero puro. Il concetto puro, il concetto ch’è in se stesso, non è rappresentato sensibilmente. Perciò il concetto come tale è uno ed è soltanto oggetto, prodotto e contenuto del pensiero, è la cosa che è in sé e per sé, il Logos, la Ragione di ciò che è, la Verità di ciò che porta il nome della cosa; tanto meno il Logos è ciò che dev’essere lasciato fuori della logica. Senza (e fuori del concetto) le determinazioni di pensiero, le quali sono soltanto forme esteriori, considerate veramente in se stesse non lasciano trapelare che la loro finitezza e la non-verità del loro dovere-essere-per-sé e, come loro verità, il concetto. Quindi sembra di capire, che da quella non-verità delle determinazioni della logica naturale sorge la verità ch’è il concetto. Hegel infatti aggiunge subito che la scienza logica, mentre tratta quelle de- terminazioni di pensiero, che in generale attraversano il nostro spirito in modo istintivo e inconscio e che anche, mentre esse entrano nel linguaggio, rimangono senza oggetto e inosservate, sarà la ricostruzione di quelle che sono state rilevate nella riflessione e da essa fissate come forme soggettive esterne alla materia e al contenuto. Hegel denunzia a questo punto, quasi prevedendo la burrasca scatenatasi dopo la sua morte, l’inquietudine e dissipazione della coscienza moderna, specialmente dei giovani che si mostrano privi di plasticità e criticano a vanvera: un’incoscienza o «mancanza di coscienza» (Bewusstlosigkeit) che attinge vertici incredibili e che costituisce il fraintendimento fondamentale (Grund-Missverständnis). Non si può ormai con gente siffatta istituire un dialogo al modo platonico13. Fra le nozioni più bistrattate, confessa il vecchio Hegel, sono proprio le fondamentali, quelle di Essere- Nulla e quella di Divenire che li contiene entrambi. In esse consiste tuttavia l’unico cominciamento vero della scienza. La fondamentalità (Grundlichkeit) sembra esigere – egli scrive, quasi raccogliendo tutta l’energia della sua riforma del cogito cartesiano – di cercare anzitutto il cominciamento come il fondamento, su cui tutto sia costruito, anzi di non andare più avanti fino a che esso non si sia mostrato valido: al contrario, invece, quando questo non si fa, tocca rigettare tutto il resto. Ed ecco la diffida a non procedere troppo alla svelta: questa fondamentalità ha insieme il vantaggio di garantire la massima facilitazione per l’attività del pensiero, essa ha l’intero sviluppo incluso in quest’uno davanti a sé e si crede di aver soddisfatto a tutto quando se l’è sbrigata con questo ch’è la cosa più facile da fare, poiché è la cosa più semplice, la semplicità stessa. Prima tocca occuparsi del Principio, e poi del resto, cioè delle altre categorie se non si vuol lasciar libero il passo ad altri presupposti e pregiudizi quali sarebbero che l’Infinito sia diverso dal finito, il contenuto qualcosa d’altro dalla forma, l’interno qualcosa d’altro dall’esterno e che la mediazione non sia altrettanto l’immediatezza… come se un che di finito fosse qualcosa di vero senza l’Infinito, come se una siffatta infinità astratta, come se un contenuto senza forma ed una forma senza contenuto, fosse un che d’interno per sé che non ha nessuna manifestazione, [come se] un’esteriorità senza interiorità ecc. sia qualcosa di vero, anzi qualcosa di reale14. Hegel concepisce quindi la priorità del cominciamento (Anfang) mediante l’astrazione totale della logica speculativa dalla logica naturale: questo significa il suo situarsi nel «concetto del concetto» ch’è anzitutto l’Essere vuoto. Hegel è convinto che il primo speculativo o logico non può coincidere col primo pragmatico o psicologico, perciò afferma l’astrazione totale. D’altra parte egli non può annientare la vita anteacta e le esigenze della realtà quotidiana: non è in potere di nessuno di negare la vita con la vita ossia di sopprimere la coscienza con la auto-coscienza e il pensiero con il pensiero. Poiché è ben vita umana anche quella prima immediatezza, ed è anche e soprattutto coscienza e pensiero in senso proprio anche se non ancora riflesso esplicitamente nel suo fondamento. Hegel ha torto – cioè ha svelato la crepa che si allargherà fino a sfasciare l’intero sistema – quando ha relegato la vita immediata e la logica naturale che la guida nel caos del- l’incoscienza ciò ch’è, del resto, un’operazione impossibile e che nessuno è mai riuscito né mai riuscirà a fare. All’inizio di questa Prefazione Hegel si è espresso con una formula più cauta affermando che il suo compito è di esporre «il regno del pensiero» (das Reich des Gedankens) in modo puramente filosofico cioè nella sua propria attività immanente ossia nel suo sviluppo necessario e che questo costituisce un’impresa nuova così che tocca cominciare da capo, egli aggiunge che tuttavia quel materiale acquisito, cioè quanto riguarda le forme già note del pensiero, è da considerare come una presentazione quanto mai importante, anzi una condizione necessaria e un presupposto da riconoscere con gratitudine15. È vero che Hegel spiega subito che si tratta di «fili aridi» ossia di «ossa inanimate di uno scheletro» buttate con disordine alla rinfusa, comunque, ciò è sempre «qualcosa» e non un Nulla. Non si vede come da questa situazione di una «condizione necessaria e di un presupposto», che l’ultimo Hegel riconosce per la riflessione essenziale del pensiero, si possa poi dichiarare che alla filosofia compete la più completa e totale «mancanza di presupposti» (Voraussetzungslosikgeit), come esige il concetto puro di Hegel (come il cogito di Cartesio) di fare da sé e in se stesso il cominciamento. L’esigenza fondamentale è, per Hegel, che tocca al pensiero come riflessione essenziale, ch’è la filosofia, fondare la verità del pensare e per nulla quella di dichiarare che l’unica forma (vera) di pensare è la filosofia, che l’unica logica è quella speculativa… fino a proclamare che la sfera della vita della logica naturale si svolge al di qua della coscienza (bewusstlos). Come mai può valere in senso definitivo il piano dell’autocoscienza riflessa (Selbstbewusstsein) se non vale quello della coscienza (Bewusstsein)? È vero che la filosofia prende il volo, come l’uccello di Minerva, al calar della notte16, ma sempre per riflettere sulle cose del giorno e ridurle al fondamento: altrimenti sarà inghiottita dalle tenebre avanzanti. Sta bene l’esigenza radicale del cominciamento assoluto, quella che veramente si tratta di «cominciare da capo» (von vorne anfangen). Per far questo non si può però tagliare il cordone ombelicale dell’esperienza e della vita immediata. Alla filosofia tocca invece ripiegarsi nella riflessione totale che abbraccia l’intero cammino dello spirito facendo emergere il plesso originario della verità nel suo presentarsi ch’era già implicito in ogni presentarsi e che diventa esplicito nell’opera di riflessione del filosofo. Questo, e nient’altro, Hegel può esigere e proporsi nella sua riduzione fondamentale. § 4. L’esigenza del pensiero classico – od almeno l’indirizzo ch’è divenuto prevalente – era che il cominciamento si facesse con l’universale più universale ossia col «principio» (avrch,): Hegel rimprovera ai primi filosofi greci la «materialità» ch’essi attribuivano al «principio», ma approva in pieno la necessità di partire con la posizione del principio ovvero col porsi nel principio. Hegel prospetta il cominciamento con un preciso suggerimento storico: «La filosofia comincia là dove l’essenza delle cose viene alla coscienza nella pura forma del pensiero e questo è il caso del pensiero greco». Presentarsi nella pura forma del pensiero è appunto il porsi senza presupposti. L’esigenza è categorica: «Essa (filosofia) comincia là dove il pensiero si presenta puro, dove esso è universale, e dove questo [elemento] puro, questo [elemento] universale è lo [elemento] essenziale, quello verace, assoluto, l’essenza del Tutto»17. Resta saldo quindi che non si tratta di un prius puramente psicologico, ma teoretico costitutivo come esige la riflessione del fondamento. Procedendo nella sua indagine Hegel precisa il senso del primo passo ossia il carattere del suo contenuto ch’è di essere, come presto vedremo, del tutto senza contenuto: «Il primo passo è necessariamente il [momento] più astratto; è il più semplice, il più povero, al quale è contrapposto il concreto»18. La determinazione seguente è di concepire il cominciamento in ciò ch’è in sé universale, nell’[elemento] infinito ossia nell’Essere (Sein). Hegel ha così trovato nell’essere vuoto (leeres Sein) come indicare il contenuto di ciò che non deve avere alcun contenuto: il primo universale, egli spiega, è l’universale immediato cioè l’essere, il cui contenuto ovvero oggetto è quindi il pensiero oggettivo, il pensiero che è. È pensiero puro: è questa la chiave per seguire Hegel nella sua colossale, anche se vana, fatica speculativa. Questo pensiero puro, egli spiega, è un Dio zelante che esprime solo se stesso come lo [elemento] essenziale e non può sopportare nient’altro accanto a sé. Egli poi precisa, per via di contrasti, i caratteri del pensiero puro con cui si fa il cominciamento ossia il contenuto dell’Essere. Ossia questo contenuto come cominciante è indeterminato ed il progresso è anzitutto lo sviluppo delle determinazioni che sono in sé – ma queste ora non c’interessano. Quel che importa è invece che il pensiero oggettivo, che l’Universale è il fondamento, la sostanza che sta nel fondo e vi permane, non si muta ma soltanto va in sé, che si approfondisce in sé e si manifesta; infatti pensare è un andare in sé. Manifestarsi è l’essere dello Spirito. Si noti la formula finale: anzitutto (pensare) quindi è questo suolo nella determinazione dell’inizio, cioè la sua determinazione è l’immediatezza, l’indeterminatezza19. Hegel, com’è noto, intende far corrispondere il primo momento teoretico con il primo momento storico della filosofia qual è dato dalla filosofia greca che ha scoperto il pensiero puro. Poi verrà la concretezza, la scoperta dello Spirito. Rileviamo intanto i caratteri che per Hegel deve avere il cominciamento del pensiero, ossia di essere: 1) l’immediato, 2) l’universale, e 3) l’indeterminato, vale a dire, il sapere puro che è il più semplice e il più povero; e questo è il puro Essere. Ma il suo carattere fondamentale è di essere il più astratto e il più povero così che il compito della riflessione è il passaggio dall’astratto al concreto e la filosofia altro non è che l’attuarsi storico di tale passaggio. Ma l’attuarsi compiuto di questo passaggio è la filosofia hegeliana nella sua logica speculativa che così prende il posto dell’antica metafisica: Hegel esprime il passaggio come il cammino dello spirito dalla prima immediatezza (astratta) alla seconda immediatezza (concreta). Questa esigenza metodologica di Hegel è giusta nei suoi momenti fondamentali: 1) che tocca alla filosofia dare e indicare il fondamento della verità ossia fare il cominciamento, 2) che il cominciamento della filosofia dev’essere nella forma assoluta del pensiero ossia senza presupposti e 3) che tale cominciamento puro teoretico è l’Essere ossia il riferirsi all’Essere e il riportare tutto all’Essere. § 5. Cominciamento e immediatezza. Vediamo ora uno per uno i caratteri del cominciamento20. Esso è anzitutto l’immediato. Hegel ci avverte che «la semplice immediatezza è essa stessa un’espressione di riflessione», che è puro sapere e perciò puro Essere. Ma questo «perciò» non risulta molto soddisfacente. Immediato, è Hegel che fa l’osservazione (se ci fosse bisogno!), si contrappone a mediato o, com’egli dice, si riferisce alla differenza dal mediato. In realtà termini come immediato e mediato, diretto e indiretto, universale e particolare, astratto e concreto… ed ogni coppia di contrari in filosofia si pone in tensione dialettica e da sola non può avere alcuna via di uscita. Non è dall’«analisi formale» di siffatti termini, in cui sembra indugiare Hegel, che si può dare al pensiero il suo effettivo fondamento e nessuno sembra più convinto di lui. Difatti è proprio Hegel, come già si è accennato e si dirà presto in modo esplicito, a introdurre due tipi o momenti d’immediatezza, l’immediatezza prima che è detta semplice o astratta e l’immediatezza seconda detta anche riflessa o concreta: la prima precede la mediazione ed è espressa dall’Es- sere puro o vuoto ossia assolutamente indeterminato, la seconda segue alla mediazione ed è espressa dall’«Essere pieno» (erfülltes Sein) che è in sostanza l’Assoluto stesso. È ciò che Hegel onestamente confessa quando afferma che a questo modo il filosofare è un «circolo» e un circolo di circoli nel senso che il Cominciamento è conosciuto come Cominciamento solo alla fine del suo sviluppo: questo, perché ciò che in esso all’inizio vi è contenuto come ciò che non è ancora sviluppato e ch’è privo di contenuto, non è nel

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