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La lingua batte dove il dente duole PDF

67 Pages·2014·0.493 MB·Italian
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eBook Laterza Andrea Camilleri- Tullio De Mauro La lingua batte dove il dente duole © 2014, Gius. Laterza & Figli Edizione digitale: ottobre 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858118108 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata 1. L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa Un populu / mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca / è ancora libiru. Livatici u travagghiu / u passaportu / a tavola unni mancia / u lettu unni dormi / è ancora riccu. Un populu diventa poviru e servu / quannu ci arrubbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri. Ignazio Buttitta De Mauro Comincerei con lui, con Luigi Meneghello. Ti ricordi quel passo bellissimo in Libera nos a Malo? «Nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua». Camilleri Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. A casa mia si parlava un misto di dialetto e italiano. Un giorno analizzai una frase che mia madre mi aveva detto quando avevo diciassette anni: mi aveva dato le chiavi di casa e io tornavo tardi la notte. Mi disse: «Figliu mè, vidi ca si tu nun torni presto la sira e io nun sento la porta ca si chiui, nun arrinescio a pigliari sonnu. Restu viglianti cu l’occhi aperti. E se questa storia dura ancora io ti taglio i viveri e voglio vedere cosa fai fuori fino alle due di notte!». Porca miseria, dissi, la prima parte di sto discorso è la mozione degli affetti, la seconda parte interviene il notaio, la giustizia, il commissario di pubblica sicurezza, il legalitario. A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore. È una relazione molto articolata. Non vivo in Sicilia da sessant’anni, non c’è nessun siciliano in famiglia, mia moglie è romana ma è stata educata a Milano, le mie figlie sono nate tutte a Roma, nessuna di loro conosce il dialetto. Posso stare un anno, anche di più senza parlare in dialetto. Allora, la mia testa seleziona le parole del dialetto attraverso una formula di perdita e guadagno, tornano nella mia memoria parole che – attenzione – sono le più lontane dall’italiano, ma incise profondamente in me fin dalla nascita, mentre quelle venute dopo le dimentico. Nella mia famiglia, in Sicilia, non si parlava un dialetto molto stretto. Certo, quando parlavi con i contadini di nonno dovevi per forza parlare in siciliano. Però nella nostra famiglia, una famiglia medio-borghese, in genere usavamo, come ti dicevo, un misto di italiano e siciliano, l’italiano lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire «te lo dico una volta e per tutte». Il resto era in dialetto. De Mauro La mia storia linguistica personale è diversa. Mio padre era di Foggia, mia madre di Napoli e di famiglia napoletana. Si erano sposati giovani – ma già prima di sposarsi mio padre aveva studiato all’università prima a Napoli, poi a Roma – e si erano trasferiti a Roma nel 1916 (e qui mia madre si era iscritta all’università, a Scienze, studiava matematica), poi a Milano, poi erano tornati a Napoli, dove io ho vissuto da bambino. Ed erano laureati. Racconto questi fatti privati perché nell’Italia degli anni Trenta, ma ancora vent’anni dopo, il matrimonio tra persone di diversa regione e quindi dialetto, l’immigrazione in città anch’essa da altra regione e dialetto, la laurea erano appunto le tre condizioni che, in un’Italia per almeno due terzi totalmente dialettofona, spingevano ciascuna verso l’adozione dell’italiano. Nel caso della mia famiglia erano tutte e tre presenti. E furono operanti. A casa si parlava italiano o, per dir meglio, parlavano italiano i miei tre fratelli maggiori e parlavano italiano con noi o noi presenti mio padre e mia madre. Solo molto più tardi, da ragazzo, ho scoperto che tra loro i miei genitori parlavano in dialetto napoletano. Mio padre aveva adottato il dialetto della moglie, quasi certamente perché il napoletano era, in tutto il Sud, il dialetto principe, il dialetto dell’antica capitale del Regno per antonomasia, come ancora si chiamava il regno borbonico. Parlavamo dunque italiano. Ma il dialetto ci circondava, dominava in quello che si sentiva per strada o nei negozi, e con estranei o amici si insinuava nei discorsi. Certe cose non potevano che chiamarsi e dirsi in dialetto, aveva ragione Pirandello. La scoliosi deformante, oggi non se ne ha più idea, era purtroppo assai diffusa: ma un gobbo si chiamava, era uno scartellato; uno scartellatiello se era un bambino o era piccoletto. Uno zio di mia madre, un ingegnere pensionato da anni, vecchissimo (tale mi appariva), passava il tempo a leggere seduto alla sua scrivania, sempre con un toscano in bocca, che lasciava spegnere e di continuo riaccendeva. E così un mio cuginetto lo aveva battezzato Appicc’e stuta, e il nomignolo circolava in tutto il vasto parentado, anche tra gli italofoni. Non parlavamo dialetto attivamente, ma era impossibile non impararne il necessario per riferirci ad alcune cose e per capire il prossimo. E questo avveniva da un capo all’altro dell’Italia. Camilleri Io avevo una nonna, Elvira, che mi leggeva non solo Alice nel paese delle meraviglie ma mi recitava anche a memoria, io ero appena un bambino, le poesie di Giovanni Meli, l’abate Meli. E ricordo che mi piaceva molto sentire il suono del dialetto, stavo per ore ad ascoltarla. Da piccolo passavo gran parte dell’anno in campagna, che poi era a due chilometri dal paese. E lì c’era un mezzadro, Minicu, che ascoltavo per giornate intere. Minicu mi raccontava le storie dei contadini e io lo pagavo con le sigarette Milit di mio padre. Mi sono rimaste così in mente che con una di quelle storie ho chiuso l’intervento che ho fatto per la laurea honoris causa dello Iulm. Era la storia dell’uomo con due teste che parlano due lingue diverse che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro, ma che torna normale quando le due teste parlano la stessa lingua. Certo, dire che si parla un dialetto è generico. Prendiamo il siciliano: non dà conto dell’enorme diversità tra il dialetto che si parla, per esempio, a Catania o ad Agrigento. Pirandello scrive Liolà in dialetto girgentano, perché – dichiara – è quello che più di tutti si avvicina alla lingua italiana, ed è vero. Se senti parlare un catanese nel suo dialetto più stretto, anche se sei un siciliano, rischi di non capirlo. De Mauro Più o meno lo stesso ci è successo parecchi anni fa, nel 1992, mentre preparavamo un vocabolario dell’italiano parlato nelle grandi città, Napoli, Roma, Firenze, Milano. Al momento della sbobinatura e della trascrizione, per il napoletano abbiamo dovuto chiedere aiuto ad altri colleghi. Di tanto in tanto incappavamo in persone che parlavano un napoletano talmente stretto da essere impenetrabile. Io, napoletano di origine, mediocre dialettofono «passivo», non capivo niente. Ma anche il team di colleghi esperti napoletani dovette arrestarsi dinanzi a certe parti di un dialogo concitato tra un infermiere e alcuni portantini in un ospedale di Napoli, talmente incomprensibili che non siamo riusciti a capire e decifrare molte parole. Specie in una grande città esistono e coesistono ancora gradazioni diverse di adesione al dialetto e, quindi, di persistenza di forme dialettali. A Napoli puoi sentire invece di piovuto e spiovuto le forme dialettali chiovuto, schiovuto participi passati regolari di chiovere e schiovere. Viceversa, è rarissimo sentire i participi «forti» chioppeto e schioppeto, che però circolano ancora. Camilleri Per dire, esiste un bellissimo dizionario siciliano dell’Ottocento, un dizionario numerico, pubblicato in Sicilia dopo l’Unità d’Italia per i primi titolari dei banchi del gioco del Lotto che, non essendo siciliani, avevano bisogno di un «traduttore» per smorfiare i sogni dei siciliani che andavano a giocare. De Mauro Ti è mai capitato di sentire le storie giudiziarie che si tramandano i bravi magistrati napoletani? Ne ricordo una in particolare. A volte ne abbiamo riso, ma poi una mia collega e amica fiorentina, Patrizia Bellucci, che ha studiato a fondo la «linguistica giudiziaria», ossia le interazioni verbali nei processi, ha spiegato in un suo bel libro le basi linguistiche e culturali che sono a monte della storiella giudiziaria. La storia riguardava un caso di stupro. La riproduco per obbligo filologico e prego lettrici e lettori che non amano l’abuso ormai corrente di male parole (per fortuna siamo in parecchi a resistere) di perdonarmi per l’occasione. Durante il processo il magistrato, per accertare i fatti, chiede alla vittima (che, come accade, è anche l’unico testimone): «Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi congresso?». Nicolino lo guarda interdetto. Il magistrato, paziente, cerca di essere a modo suo più chiaro: «Nicolino, fuvvi concubito?». Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentitagli dall’eloquio giudiziario: «Nicolino, ditemi, fuvvi copula?». Nicolino lo guarda smarrito. E allora il magistrato abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: «Niculì, isso, Gaetano, te l’ha misse ’n culo?». E Nicolino finalmente annuisce e risponde: «Sì, sì». Camilleri Un aspetto divertente del dialetto è l’inversione di significato. Ti racconto una storia di famiglia. Nel dopoguerra, per mesi siamo rimasti senza notizie del fratello di mia madre. Era a Milano, direttore di banca, e faceva la sua vita. Poi nel ’46 tornò in Sicilia, sposato. Ci mandò un telegramma: «Arrivo con mia moglie». Tutta la famiglia, che era numerosa, si riunì nella casa di campagna per ricevere la milanese che arrivava. La ragazza – si chiamava Franca – si sedette con noi a tavola, e cominciammo a mangiare. Alla fine, come succedeva sempre, le donne si alzarono per sparecchiare. Naturalmente, anche Franca si alzò, e fu un coro di uomini: «Mòviti Franca, mòviti, mòviti», e lei si mise a correre. Mi accorsi, dopo un po’, che aveva l’occhio smarrito, e capii che si stava chiedendo in che famiglia fosse piombata. Allora le dissi: «Franca, guarda, da noi mòviti significa esattamente il contrario, significa stai ferma». Respirò di sollievo, perché lei pensava, giustamente, a «muoviti». De Mauro Succede un po’ lo stesso con un’altra parola siciliana: annacamento, annacarsi che è il movimento della culla, l’addormentarsi dolcemente, ma è anche il movimento femminile... Camilleri Sì, ma anche di un uomo che ha pose e atteggiamenti raffinati, si dice che si «annaca». C’è anche un’altra espressione: «va ad annacariti a ’o Cassaro»; il Cassaro era una piazza di Palermo dove la nobiltà faceva sfoggio di vestiti e carrozze all’ultima moda. E ha ancora un altro significato: per esempio, un elettore va a chiedere un favore al suo deputato e quello gli dice «non ti preoccupare, provvederò»; l’elettore può rispondere «mi dice sopra ’u serio o m’annaca?», che sta per «mi dice sul serio o mi culla nell’illusione?». In dialetto ci sono parole e locuzioni di cui ti scervelli a cercare l’origine, penso per esempio: chinnicchiennacchi. Significa: «ma che c’entra?», «che ci trase?». Sei mesi fa mi scrive un professore che insegna latino arcaico, e mi spiega che chinnicchiennacchi deriva paro paro dal latino arcaico, basta scrivere col k quis hic in hac («cos’è questo in questa cosa?», «che c’entra?») ed ecco svelato il mistero dell’origine di chinnicchiennacchi. Mi ricordo un giorno che andai a Licata con mio padre, ero giovane, era il primo dopoguerra. A Licata si ruppe la macchina, un meccanico ci disse che ci volevano almeno due giorni per aggiustarla. Papà si informò se c’era un mezzo per tornare ad Agrigento. Gli risposero che c’era una pintajota che in un’ora ci avrebbe portato a Girgenti (badate bene, per i veri siciliani Agrigento resta sempre Girgenti). Mi stupii dello strano nome: pintajota. Scopro che solo a Licata chiamano così la corriera. Il problema divenne insolubile. Un giorno, parlandone con un amico fraterno, compagno di liceo, Gaspare Giudice, il biografo di Pirandello, vengo interrotto dal capofficina di mio padre, uno slavo, Kunić, che avendo sentito il mio discorso dice: «Probabilmente la prima corriera di Licata era una Lancia». «Scusa Kunić, perché?». «Perché i modelli della Lancia erano denominati da lettere greche». Aveva ragione lui. La prima corriera che arrivò a Licata era una Lancia Penta Jota, e da allora – e tuttora – a Licata tutte le corriere si chiamano pintajote. Se non era per il capofficina... De Mauro Il fatto è che il dialetto non è solo la lingua delle emozioni. L’ho capito proprio in Sicilia, da non siciliano, quando sono arrivato a Palermo, professore all’università, accolto affettuosamente dalle famiglie dei colleghi siciliani come la signora Franca lo fu nella tua. Era il 1964. Quando ci trovavamo a pranzo o cena e stavamo a tavola (erano tutti molto ospitali), si partiva con l’italiano, nel senso che tutti parlavano in italiano. Ma appena la discussione si accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso – e magari si passava alla politica, improvvisamente cambiavano registro linguistico. Un po’ alla volta slittavano nel dialetto, e dell’italiano si scordavano. Gli uomini, per parlare di argomenti più impegnativi intellettualmente, usavano il dialetto (le donne no, le donne già nel 1964 tra di loro parlavano in italiano, di qualsiasi argomento, anche se conoscevano il dialetto). Perché a Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto. Ancora oggi il passaggio al dialetto di chi sa bene l’italiano, non è una scivolata. Lo slittamento verso il dialetto in quel caso non è emotivo. Camilleri Forse si deve anche a questo la lunga lotta fatta ai dialetti durante il fascismo; anzi, cominciò assai prima, sin dall’Unità d’Italia, perché, ad esempio, Le miserie ’d monsù Travet erano state scritte da Bersezio in piemontese e dovettero essere riscritte in italiano; gli dissero: no guarda, lascia perdere i dialetti perché ora che l’Italia è unita... la lingua comune, ecc. ecc. Ma il fascismo fece un’autentica guerra ai dialetti, con le solite sciocchezze che faceva il fascismo perché poi nelle circolari del MinCulPop si diceva: è proibito mettere in scena rappresentazioni in dialetto, fatta eccezione per il dialetto veneto di Goldoni, il napoletano dei fratelli De Filippo, il siciliano di Angelo Musco... e allora? Dove c’erano bravi autori dialettali o bravi attori valeva e per gli altri, poveracci, no? Insomma un modo un po’ partigiano di considerare la cosa. De Mauro E poi, come se non bastasse, il fascismo ha riempito l’Italia di latinizzazioni inventate. Un tradimento sistematico della voce dialettale nella ufficialità, spesso senza capo né coda. Vedi il caso di Agrigento, dove è relativamente plausibile. I greci, come i fenici e i cartaginesi, stabilivano di solito le loro colonie sulle coste o su isolette costiere, come Mozia o Ischia. Quella città la costa la dominava e la chiamarono Akrágas (il genitivo era Akrágantos). Dopo le guerre puniche i conquistatori romani latinizzarono il nome e chiamarono la città Agrigentum. Nel Medioevo gli arabi dissero Karkint, che rifletteva il nome che la gente del luogo ormai usava, Girgentum nei documenti latini, Girgenti in dialetto siciliano. E così la città si è chiamata fino al fascismo, che invece impose Agrigento, una forma più vicina al latino classico, ma non al secolare nome locale dialettale. Camilleri Sì, prima era Girgenti, poi diventa Agrigento, col fascismo. De Mauro Quello dei nomi di luogo è sempre stato un problema per l’ufficialità del nostro Paese, che voleva staccarsi dalle denominazioni locali, dialettali. Lo sai che succedeva ai poveri ufficiali dell’Istituto geografico militare che negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento giravano l’Italia chiedendo notizie sui nomi delle località? Per le montagne andavano domandando: «Come si chiama quella montagna?»; e la gente rispondeva: «E come deve chiamarsi? Pizzo si chiama»; oppure: «Sasso», cioè rispondevano col nome generico dialettale per «montagna». I cartografi trascrivevano e l’Italia si è riempita di monti Pizzo o Sasso. Delle volte succedevano cose ancora più complicate... C’è un paese, anzi una cittadina romagnola, con un suo vecchio nome che è uno dei tanti residui di una parola gotica, sculcs, che significava sentinella, guardia, e sopravvive anche in antico toscano e, quindi, in italiano come scolca (o, più comunemente, scolta). Localmente, la parola gotica (e longobarda) è stata modificata a seconda dei dialetti: Scurcola, Sgurgola, Scolca, ecc. In Romagna la parola fu adattata dialettalmente come Sgurgheida per chiamare così il paese nato intorno a un’antica rocca gotica o longobarda su un’altura. Con l’Unità d’Italia bisognava dare un nome in italiano. In romagnolo esiste il verbo scurghèr, sgurghèr, «scortecciare, scorticare», e così il vecchio nome dialettale, malinteso, fu italianizzato in Scorticata. Dapprima nessuno disse niente, poi col diffondersi della conoscenza dell’italiano il nome apparve sempre meno tollerabile. Negli anni

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