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La Divina Commedia. Paradiso PDF

1132 Pages·2016·6.18 MB·Italian
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Il libro L a Commedia curata da Anna Maria Chiavacci Leonardi per i Meridiani Mondadori si caratterizza per l’estrema leggibilità del commento; la curatrice colloca il dettato dantesco nel contesto culturale e storico in cui nacque, rifacendosi soprattutto agli esegeti antichi, contemporanei o di poco successivi all’autore. Ogni canto è provvisto di un’introduzione specifica, una sorta di affascinante invito alla lettura, mentre i nodi cruciali dell’esegesi vengono discussi in un’apposita sezione alla fine del canto. Dal punto di vista tecnico, nell’ebook i versi sono collegati alle note, poste in fondo al volume. È così possibile leggere il testo tutto di fila, senza che la successione narrativa delle terzine sia costantemente interrotta dalla presenza delle note, come accade nella versione cartacea. La terza «sublimis cantica» – come il suo autore stesso, con profonda consapevolezza e bellezza, la chiamò – contiene in sé qualcosa di unico, che la fa diversa da ogni altra composizione della letteratura a noi nota. Essa appare nuova anche rispetto alle altre due parti del poema, già così rivoluzionarie nell’invenzione e nel linguaggio. Perché la poesia del Paradiso non racconta vicende di uomini, non descrive paesaggi. Essa si sostanzia di cose che non si vedono e che, soltanto, per fede, si sperano. E tuttavia anche e soprattutto qui il genio di Dante riesce a esprimersi con versi di grande potenza, che si imprimono per sempre nella mente del lettore con immagini di straordinaria forza suggestiva. Dante Alighieri La Divina Commedia PARADISO Commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi «Che la vera poesia abbia sempre il carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore. E se è vero ch’egli volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto si accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di noi.» Eugenio Montale Introduzione La terza «sublimis cantica, quae decoratur tituli Paradisi» – come il suo autore, con profonda consapevolezza e bellezza, la nominò – contiene in sé qualcosa di unico, che la fa diversa da ogni altra composizione della letteratura a noi nota. Essa appare nuova e diversa anche rispetto alle altre due, già così rivoluzionarie nell’invenzione e nel linguaggio, che fanno parte dello stesso poema. Se si volesse indicare la ragione che costituisce tale sua unicità usando delle sue stesse parole, crediamo ancora, come scrivemmo un tempo, che essa possa ritrovarsi parafrasando il verso che nel canto XXIV traduce il testo paolino definitorio della fede: «fede è sustanza di cose sperate». Tale ci appare infatti la poesia del Paradiso nella sua singolarità: essa si sostanzia tutta di cose che non si vedono, e che soltanto, per fede, si sperano. Il suo argomento infatti, la beatitudine del paradiso, cioè il perfetto compimento dell’infinito desiderio dell’uomo nel suo immedesimarsi con la realtà divina, è un qualcosa che non è sperimentato, ma soltanto sperato, e che solo può esserci dato, in rari momenti della nostra vita nel tempo, di confusamente intravedere. Di qui l’assoluta novità della cantica dantesca, che si fa memoria di cose soltanto sperabili, o soltanto misticamente sperimentabili. Certo il racconto poetico dà figura sensibile a tale realtà, conferendole bellezza in forme di assoluto splendore, ma tutto questo – come il poeta avverte – non è che un’ombra, come un tenue ricordo di un sogno appena svanito, un’impressione rimasta nell’animo; ombra da cui egli trae tutto quello che il suo verso ci dirà. E d’altra parte quel mondo ricordato non ha nessun carattere di indeterminatezza, ma ha un ordine e una struttura razionalmente certi, in quanto fondati sulla intelligibilità reciproca tra ordine umano e ordine divino propria del Cristianesimo. Per questo il Paradiso di Dante non è assimilabile né ad altri racconti di visioni – che rappresentano luoghi analoghi ai terreni, con le due figure bibliche del meraviglioso giardino e dell’aurea città – né alle esperienze narrate dai mistici, che non conoscono solitamente la mediazione razionale propria della letteratura. Della novità dell’impresa Dante si rende ben conto, come appare quando apre, con una seconda protasi, il II canto del suo Paradiso: «L’acqua ch’io prendo già mai non si corse». In questa singolare e alta apertura si configura fin dall’inizio quello che sarà il carattere tutto particolare di questa cantica, e cioè l’identità fra l’oggetto e il mezzo del poeta, fra l’esperienza del personaggio e quella dell’autore, fra il fatto narrato e il dire che lo raffigura, fino al limite dove si arresta la possibilità dell’umano linguaggio, limite tuttavia anch’esso in qualche modo varcato dalle stesse dichiarazioni della ineffabilità del veduto. Quella nave infatti (il «legno che cantando varca») non sai più se voglia significare – come richiede la lettera – l’impresa mai tentata da un poeta nel rappresentare il mondo divino, o l’esperienza eccezionale vissuta dall’uomo che ancora in vita ha visitato quel mondo. Lo stesso ricordo dell’impresa degli Argonauti, anch’essa fatta per mare, che tornerà certo non casualmente nell’ultimo canto (vv. 94-6), questa volta con il secondo significato – di raggiungimento del divino –, stabilisce quel sovrapporsi dei due piani che appunto nel canto finale verrà a dichiararsi in modo compiuto. Nuovo dunque questo terzo regno, nel quale Dante ha coerentemente rinunciato ad ogni mezzo di raffigurazione sensibile usato negli altri due, quali il paesaggio e la figura umana, creando un racconto di pura visione, dove l’unico paesaggio è il cielo, e le persone sono soltanto fiamme. La differenza è segnata in modo sensibile dal distacco dalla terra. Inferno e Purgatorio ancora le appartengono: la terra contiene l’uno, sostiene l’altro. Quei due mondi e i loro abitanti sono infatti legati al tempo e alla storia. E quel distacco fisico è figura della vera, sostanziale differenza tra le due dimensioni e i due linguaggi poetici: le prime due cantiche sono il racconto di una memoria storica, dove hanno posto gli eventi quotidiani, i vizi e le virtù degli uomini, le loro individuali vicende. Il Paradiso invece ricorda e racconta anch’esso un’esperienza, ma un’esperienza interiore, che possiamo chiamare con sicurezza mistica, perché a questo ci autorizza il testo di Dante con il preciso riferimento a san Paolo posto al centro del primo canto (vv. 73-5), esperienza per la quale occorre una diversa qualità di memoria. Lo iato, lo stacco tra l’ultima cantica e le prime due – che tutti i lettori avvertono, e che Dante stesso dichiara (I 16-8; II 1-9) – sta in questa differente qualità di esperienza e di memoria, da cui discendono tutte le differenze. Alla memoria storica si addicono tempo e spazio, i luoghi che il pellegrino percorre con il suo piede mortale (nell’Inferno il peso, nel Purgatorio l’ombra sono il segno della sua corporeità), i paesaggi in tutto uguali alla geografia terrestre, infine le singole storie degli uomini che sempre un luogo, un tempo, un gesto esattamente delimitano. (Ricordiamo il bacio di Paolo e Francesca, il conto dei giorni di Ugolino nella torre, il conto dei mesi sul mare notturno di Ulisse, il fiume dove arriva a morire Buonconte e il suo ultimo gesto di fede, le lacrime della vedovella di Forese che lo hanno condotto in meno di cinque anni in cima alla montagna.) Ma alla memoria mistica tutto questo è sottratto: qui non si misura il tempo, non si descrive il cammino (il passare da un cielo all’altro non è mai un atto del corpo, ma solo dello sguardo, e talvolta neppure consapevole; «e io era con lui; ma del salire non m’accors’ io, se non com’ uom s’accorge, anzi ’l primo pensier, del suo venire»: X 34-6). Anche le similitudini che creano i paesaggi celesti non sono più geograficamente connotate (le macchie di Corneto, le dighe di Arles, la pineta di Chiassi), ma in certo modo anonime, universali: Quale ne’ plenilunïi sereni Trivïa ride tra le ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni… (XXIII 25-7) E sì come al salir di prima sera comincian per lo ciel nove parvenze, sì che la vista pare e non par vera… (XIV 70-2) E come clivo in acqua di suo imo si specchia, quasi per vedersi addorno, quando è nel verde e ne’ fioretti opimo… (XXX 109-11) Anche gli uomini hanno perduto la loro individuale prepotenza fisica e morale (quale appare nell’Inferno in Farinata, o Filippo Argenti, o Vanni Fucci); né ci si affollano intorno a narrare i loro gesti terreni per essere ricordati nel mondo della storia (come accade in Purg. VI 1-12). Poche, brevi, non in primo piano, le singole private vicende narrate, proprie solo dei primi tre cieli (Piccarda, Romeo, Cunizza). Le altre storie, quelle di ampio respiro, hanno sempre un’altra funzione, pubblica e non privata, un valore cioè profetico (così le grandi vite di Francesco e di Domenico, quella di Giustiniano che si identifica con la storia dell’Impero, come quella di Cacciaguida con la vita dell’antica, sobria e casta Firenze). Ciò accade perché Inferno e Purgatorio hanno come primo oggetto l’uomo storico e il suo cammino nel tempo, il Paradiso ha per primo oggetto quella realtà assoluta e atemporale a cui l’uomo tende come a suo supremo desiderio, e verso la quale il cammino non è misurabile coi tempi storici. Le parti si sono invertite. E la memoria, come la parola, devono adeguarsi a questo rovesciamento. Le immagini sono leggere, diafane, luminose: aria, luce, stelle, musica. Il linguaggio si raffina nel lessico e nel suono, si sublima nel latinismo, nel neologismo, negli inserti biblici, nel ritmo ardente o quieto che alternamente lo conduce. Anche nel Paradiso, si osserverà, ci sono tuttavia i nove cieli fisici da percorrere, c’è un incontrare, un parlare, uno spiegare, una dimensione anch’essa in qualche modo storica, inevitabile nel linguaggio umano. Ma questo cammino attraverso i cieli tolemaici – della cui singolarità diremo tra poco – non è presentato come un percorso misurato nello spazio e nel tempo («che l’atto suo» – si dirà dell’avanzare di Beatrice da un cielo all’altro – «per tempo non si sporge»: X 39), bensì come un graduale accrescimento del vedere, nell’«appressarsi» a quella realtà suprema che è il solo oggetto della cantica, gradualità che è necessaria alla condizione corporea di colui che compie tale percorso. Ma la cosa più singolare è che questa salita per le scale dei sette pianeti è situata tutta in una dimensione irreale, intermedia, si direbbe, tra il tempo e l’eternità. Così sembra essere anche la condizione di Inferno e Purgatorio (un aldilà in attesa della fine dei tempi), ma c’è fra le due condizioni una sostanziale differenza: gli spiriti dei primi due regni abitano realmente, con i loro corpi fittizi, ma consistenti, i luoghi corporei a loro assegnati, ambedue situati sulla terra. Le anime del Paradiso abitano invece nell’Empireo, cioè il cielo divino e supremo, in quella luce intellettuale che Dante contemplerà alla fine del suo cammino. Essi appaiono, «si mostrano» qui nei cieli dei pianeti solo per Dante, perché egli si renda conto dei diversi ruoli che i diversi tipi di santità, gerarchicamente disposti, hanno nel mondo della storia. Il «paradiso intermedio» è una realtà sui generis, la cui singolare consistenza – che diremmo ambigua tra fisico e metafisico, come è tutto il cosmo dantesco – è figurata da quei corpi eterei, diafani, che sono i cieli, e da quegli abitanti che sono soltanto luci, luci che sono poi non altro che irraggiamento delle loro anime. Tale luogo intermedio, che Dante ha come racchiuso tra il primo e il trentesimo canto (canto nel quale si entra nell’Empireo), cioè tra i due luoghi «reali» del racconto, rappresenta quell’intervallo fra la morte dei singoli e la fine del tempo che la teologia cristiana non è

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