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La coscienza al bando. Il carteggio del pilota di Hiroshima Claude Eatherley e di Gunther Anders PDF

273 Pages·1962·0.83 MB·Italian
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LA COSCIENZA AL BANDO IL CARTEGGIO DEL PILOTA DI HIROSHIMA CLAUDE EATHERLY E DI GÜNTHER ANDERS Con un’introduzione di Robert Jungk e la prefazione di Bertrand Russell all’edizione inglese Einaudi In copertina: una foto dell'«Enola Gay», l’apparecchio che sganciò la bomba su Hiroshima. Eatherly pilotava lo «Straight Flush», che lo precedette sull’obbiettivo e diede il segnale del via. Introduzione di Robert Jungk 1. Dal 1945, gli esperti occidentali hanno scritto milioni di parole sugli «effetti delle armi nucleari». Ma, in questa vasta letteratura, c'è una lacuna più che essenziale. Gli specialisti hanno esaminato con la massima attenzione migliaia di rovine, decine di migliaia di superstiti della grande catastrofe, ma hanno escluso - dalle loro indagini scrupolose - qualcosa di molto importante: se stessi. Ma, così facendo, hanno trascurato un fatto decisivo: le bombe atomiche colpiscono anche chi le usa; e perfino chi si limita a progettare seriamente il loro impiego. Questo effetto-boomerang dei mezzi di distruzione di massa non è (è vero) di natura fisica, ma di natura psichica e spirituale. Poiché la violenza distruttiva delle «armi» atomiche, che trascende ogni esperienza bellica precedente, impone, a coloro che le abbiano usate o intendano usarle, un carico psichico che non sono in grado di elaborare consapevolmente né inconsapevolmente. Il «caso Eatherly» ci ha aperto per la prima volta gli occhi su queste ripercussioni delle nuove armi. Ecco una persona che non allontana da sé, non «rimuove», l’evento orrendo che ha contribuito a scatenare, ma lo sente intensamente come colpa, e si mette a gridare, mentre tutti gli altri tacciono, ottusi o rassegnati. Il suo smarrimento, il suo sdegno e le sue sofferenze appariranno probabilmente più «normali», alle future generazioni, del contegno dei suoi connazionali in senso stretto e, più largamente, dei suoi contemporanei. Tutti noi dovremmo provare e accusare lo stesso dolore, dovremmo lottare, con tutte le forze della coscienza e della ragione, contro l’irruzione dell’inumano e dell’antiumano. Invece continuiamo a tacere, serbiamo il nostro «contegno», ci diamo a divedere insensibili. Ma è una calma solo apparente. Poiché nemmeno noi siamo all’altezza delle nuove «armi». Sotto il loro peso crollano le basi della nostra esistenza politica e morale. La contraddizione tra ciò che vogliamo difendere e i mezzi previsti per la difesa diventa ogni giorno più grande. Ciò conduce a tensioni interne insuperabili, a una malattia psichica collettiva, che raggiunge fin d’ora uno stadio acuto presso un numero sempre maggiore di uomini. Gli Stati Uniti, che hanno introdotto quei mostri sulla scena mondiale e hanno continuato a svilupparli anche dopo il monito giapponese, sono stati anche i primi ad essere colpiti dalla ripercussione spirituale delle bombe. Com’è semplice, in fondo, il «caso Eatherly», se lo si confronta col «caso America», tanto più grave perché inconfessato! Il vero oggetto tragico del dramma non sono le traversie del pilota texano, ma il fatale irretimento del suo paese e dei suoi concittadini. Per realizzare la «libertà dalla paura», ha introdotto nel mondo la paura atomica; per assicurare la libertà e la felicità del singolo, crede di dover minacciare la morte a milioni e milioni di uomini. Ma ora c’è anche il «caso URSS», il «caso Inghilterra», il «caso Francia», il «caso Germania» - e domani ci saranno, probabilmente, il «caso Svezia», il «caso Svizzera», il «caso Israele», il «caso Cina»: non un paese che si disponga ad usare, per la difesa dei suoi valori e dei suoi diritti, le «nuove armi», distruttive di ogni valore e diritto, può reggere senza gravi danni al carico psichico rappresentato da questa sola intenzione. Poiché anche senza mai esplodere, le armi atomiche tenute esclusivamente in serbo reagiscono fin d’ora sui possibili «agenti». Svuotano dall’interno la democrazia, lasciando a pochi le decisioni più importanti, producono un abbrutimento generale nelle forze armate, che devono essere sempre pronte e disposte a tutto. Distruggono nei popoli muniti di armi atomiche l’intima fede nella propria umanità e moralità. 2. Guardate la foto del giovane Claude Robert Eatherly, al tempo in cui entrava come volontario nell’aviazione americana, e avrete davanti a voi il volto del tipico «clean cut boy» americano. Non è molto quello che si legge nei suoi tratti, ma quel poco sembra rispecchiare tutte le virtù di cui parlano i libri per i ragazzi: dirittura, coraggio, pulizia morale e innocenza. Migliaia e migliaia di adolescenti come lui accorsero allora alle armi per combattere, in nome della «decency and democracy», contro la barbarie del nazionalsocialismo. Lo studente Eatherly, passando dall’istituto magistrale texano alla caserma dell’Air Force, poteva ancora credere che la libertà e l’umanità si potessero difendere con la forza delle armi. Tanto maggior peso assume oggi la sua presa di posizione contro ogni guerra, anche contro quelle che possono sembrare giuste. Poiché, fra la decisione del volontario e il rifiuto dell’internato in tempo di pace, si situa l’esperienza della distruzione atomica, che Eatherly contribuì a scatenare, senza rendersi conto della parte che gli era stata assegnata. Si dice che il maggiore Eatherly, dopo la tremenda esperienza di Hiroshima, non parlasse a nessuno per giorni interi. Ma alla base insulare di Tinian, dove il suo gruppo, pervenuto nel frattempo a una dubbia gloria, attendeva la smobilitazione, nessuno pensò che si trattasse di qualcosa di grave. «Battle fatigue», era la classica definizione di quello stato. Molti ne restavano colpiti, e lo stesso Eatherly, nel 1943, dopo tredici mesi passati senza interruzione in servizio di vedetta nel Pacifico meridionale, aveva già sofferto una volta di una forma simile di esaurimento. Allora si era ripreso, dopo una cura di quattordici giorni in una clinica di New York, e anche questa volta parve tornare abbastanza rapidamente alla condizione psichica considerata come «normale» tra i veterani del Pacifico in periodo di riposo: quella di chi passa il tempo giocando a poker, tra bestemmie, barzellette e storie di guerra. In quei giorni si diffuse per il mondo la notizia che uno dei piloti che avevano partecipato all’attacco su Hiroshima si era ritirato in convento, per cercare nella preghiera un sollievo alla sua colpa. Ma non era che una leggenda. In realtà il maggiore L., di cui si era fatto il nome a questo proposito, aveva accettato un posto di direttore in una fabbrica di cioccolato. La voce si dimostrò, in questo caso, «più vera della realtà». Inventò un atto di rimorso che avrebbe dovuto effettivamente verificarsi. Fra tutti coloro che avevano partecipato ai due bombardamenti atomici, Eatherly fu il solo, in quei primi mesi del dopoguerra, a resistere alla tentazione di farsi celebrare come un eroe. E i suoi concittadini della piccola città di Van Alstyne dimostrarono comprensione per il suo atteggiamento, Il riserbo dell’aviatore non fu interpretato come segno di follia, e neppure di stravaganza. Poiché allora il «buon americano» e i suoi concittadini non si erano ancora reciprocamente estraniati. Il turbamento sollevato dall’orrore di Hiroshima non era ancora considerato come un sintomo di debolezza, la condanna delle bombe atomiche non era ancora sospetta. Non mancavano, in quel periodo, autoaccuse e ammissioni di colpa. L’opinione pubblica, quasi unanime, esigeva la messa al bando immediata degli ordigni nucleari, e da parte delle più varie tendenze politiche si affermava che gli Stati Uniti dovevano rinunciare spontaneamente al loro monopolio atomico (che si sarebbe potuto mantenere, del resto, solo per breve tempo) e compiere il gran gesto di iniziare tutti i membri alleati delle Nazioni Unite ai segreti della nuova, rivoluzionaria scoperta. Ma il gruppo dapprima isolato e poco numeroso di coloro che sostenevano la tesi del possesso esclusivo, da parte degli Stati Uniti, delle nuove e potentissime armi, impose a poco a poco le sue vedute, indirettamente favorito dal «no» sovietico (a loro tutt’altro che sgradito) ai piani americani di controllo, che erano già stati formulati con scarsa convinzione. La «guerra fredda» cominciava, e cominciava la corsa al riarmo atomico. Se il numero di sei cifre delle vittime giapponesi aveva scosso la gente, essa si abituò, ormai, a cifre dieci o cento volte superiori, Emerse una nuova unità di misura: il megadeath, equivalente a un milione di atomizzati. E con questa unità si facevano i conti, essa era impiegata tranquillamente nei calcoli della politica di «dissuasione». Se un individuo singolo tenesse di questi discorsi, sarebbe dichiarato pazzo e chiuso in una prigione come pericolo pubblico. Non così uno stato maggiore, non così un governo. Agli organi esecutivi della società è lecito macchinare questi piani folli, e prepararli in concreto col consenso di una parte dell’opinione pubblica. Se un uomo fino a poco tempo fa relativamente mite e pacifico cominciasse a sospettare, in ogni gesto del suo vicino, l’intenzione di assassinarlo, e cominciasse a trincerarsi in casa propria, a circondare ognuna delle sue azioni di un velo di segretezza, si direbbe che soffre di mania di persecuzione e sarebbe sottoposto a un trattamento psichiatrico. Non così una grande potenza: dove tutto ciò è considerato addirittura come politica «ragionevole» e «realistica». Era cominciata la «reazione» della bomba atomica sui suoi detentori. Il fatto che i potenti, simili a divinità, disponessero di forze apocalittiche, non li rendeva saggi e modesti, ma duri e tracotanti. 3. Domani - se avremo ancora modo di vedere un «domani» - i fautori del riarmo atomico e i loro calcoli di sterminio saranno bollati di fronte al tribunale della storia come lo sono oggi Hitler e le sue dottrine, che sono giudicate universalmente folli. Ma questo giudizio arriva sempre in ritardo, e non può risuscitare le vittime. Prima che città e campagne siano devastate da un disguido della politica di ricatto e dissuasione reciproca, prima che la terra, nella misura in cui non sarà diventata un cimitero, si trasformi in un solo, immenso lazzaretto, deve essere chiaro a tutti che la reazione psichica delle bombe atomiche ha fatto impazzire - nel senso letterale della parola - i loro detentori, e che questa pazzia è tanto più pericolosa in quanto i suoi esponenti hanno l’aria di parlare ragionevolmente, e appaiono come persone normali, civili e responsabili. E noi, cittadini, vittime potenziali di domani, che cosa possiamo e dobbiamo fare per impedire che la follia della catastrofe nucleare sia scatenata su di noi da questi «freddi calcolatori»? A questa domanda importantissima, che si pone ai superstiti della seconda guerra mondiale, ha cercato di rispondere il maggiore Eatherly. Le prime risposte che egli cercò di dare erano risposte sbagliate, e soprattutto inefficaci. Egli tentò dapprima la scappatoia dell’emigrazione. Poco dopo essere stato congedato dall’Air Force, nel 1947, lasciò il paese, spaventato dalla sua evoluzione politica. Poi tornò a casa e cercò - come tutti intorno a lui - di dimenticare, di guadagnare, di dedicarsi alla propria vita privata. Si impiega presso una ditta petrolifera a Houston, si reca ogni giorno in ufficio, frequenta la scuola serale per studiare giurisprudenza, e diventa direttore di un ufficio vendite. Eatherly era sposato, dal 1943, a una giovane attrice, Concetta Margetti, che aveva conosciuto durante il periodo di addestramento in California. Durante i primi sette anni del loro matrimonio si erano potuti vedere sempre solo per pochi giorni, al massimo per poche settimane. Ora potevano condurre finalmente una vita più normale, con la casa, il giardino, i bambini, una modesta possibilità di ascesa sociale, e tutti gli altri accessori della «vita serena nel proprio cantuccio». Così di giorno. Ma di notte l’ex aviatore è tormentato da angosce e da incubi. Per il momento sono ancora tollerabili, basta qualche bicchierino a scacciare le depressioni, qualche pillola a eliminare l’insonnia. Ma presto questi mezzi elementari non basteranno più. Eatherly crede di vedere, nei suoi sogni, i volti deformati delle vittime che bruciano nell’inferno di Hiroshima. È intorno a questo periodo che comincia a mettere, di tempo in tempo, una banconota in una busta e a spedirla a Hiroshima, o a scrivere lettere in Giappone, in cui alternativamente si accusa e si scusa. Ma anche questo «rimedio» non serve. Cosi, nel 1950 (l’anno in cui il presidente Truman annunciò che l’America avrebbe costruito un’arma atomica ancora più potente, la bomba a idrogeno), nella stanza di un albergo a New Orleans, Eatherly cerca di togliersi la vita con un sonnifero. È ritrovato ancora in vita, e rilasciato dopo due giorni di ospedale. Si fa ricoverare spontaneamente, per altre sei settimane, all’ospedale militare di Waco, dove si curano i soldati affetti da malattie nervose. Ne esce senza che sia intervenuto alcun mutamento nella sua salute. Egli cerca allora di curarsi da sé, e abbandona il suo posto in ufficio per un lavoro di carattere manuale nei campi petroliferi. La stanchezza fisica gli permette di dormire più tranquillamente per un certo periodo. Ma poi ricomincia a rimuginare su ciò che è accaduto, che accadrà, che dovrà necessariamente accadere se non si trova il modo di impedirlo. Allora matura in lui un piano inconsueto. Si opporrà alla nuova tendenza militaristica dell’America, che ha appena eletto presidente un generale della seconda guerra mondiale, rovesciando dal suo piedestallo, compromettendo e smascherando l’ideale nazionale del combattente eroico e valoroso. E l’oggetto di questo smascheramento sarà lui stesso: l’«eroe di Hiroshima», il maggiore Claude Robert Eatherly. 4. All’inizio del 1953, davanti al pretore di New Orleans, appare, tra vari altri piccoli malfattori, uno che ha falsificato un assegno per una somma irrilevante. Si registrano i dati personali, due o tre domande e il giudizio: nove mesi. E si passa al caso seguente… Eatherly ha appena aperto bocca. Avrebbe forse potuto dire che aveva spedito quell’assegno a una fondazione destinata a provvedere agli orfani di Hiroshima, avrebbe potuto richiamare l’attenzione sul suo grado, sulle sue azioni di guerra. Niente di tutto questo. La macchina giudiziaria è troppo rapida, il «caso» è troppo insignificante per attirare l’attenzione. Sarà ben presto rilasciato, poiché la pena gli viene condonata per buona condotta. Nuovo tentativo a Dallas. Questa volta si tratta di rapina. Ma lo strano rapinatore non ha portato via nulla. Il caso viene messo a tacere, quando l’avvocato dichiara che il suo cliente è irresponsabile e che andrà in ospedale a farsi curare. Altri quattro mesi a Waco. Il maggiore Eatherly viene riconosciuto psichicamente infermo e invalido di guerra, e viene rimandato a casa con una piccola pensione di 132 dollari mensili, che in seguito sarà perfino raddoppiata. Non gli infliggono il marchio del delinquente, come aveva sperato, e non gli concedono la «grazia del castigo», con cui potrebbe sperare di redimersi dalla sua grande colpa. Ma non riescono neppure a guarirlo. Dopo sei mesi di lavoro come rappresentante di una ditta di macchine da cucire, tenta di nuovo di suicidarsi. La moglie lo trova con le vene dei polsi tagliate. È fermamente decisa a divorziare, se egli non tornerà a sottoporsi a una cura psichiatrica. Così si ripresenta egli stesso alla clinica di Waco. Il direttore della clinica, dottor McElroy, descrive così, in termini freddi e concisi, le sue condizioni: «Alterazione chiaramente riconoscibile della personalità. Paziente completamente ritratto dalla realtà. Stati angosciosi, tensioni psichiche crescenti, reazioni sentimentali attutite, idee fisse». I suoi rimorsi di coscienza sono liquidati come sintomi morbosi, la sua sensibilità, che lo distingue dai suoi concittadini che vivono senza darsi troppi pensieri, è interpretata come «assenza di sentimenti», e quanto alle idee fisse, si cercherà subito di levargliele di testa con fortissime dosi di insulina. Eatherly era sottoposto a questa cura quattro o cinque volte la settimana, perché potesse finalmente dimenticare. E dopo sei mesi parve che i cattivi ricordi fossero stati veramente scacciati. L’ex pilota ritornò alla famiglia di sua moglie nella città petrolifera di Beaumont, ma solo per constatare, dopo breve tempo, che il suo matrimonio, dopo tante prove, era andato definitivamente a catafascio. Concetta Margetti chiese prima la separazione legale, poi il divorzio. Ottenne che fosse vietato al marito di frequentare i figli e rinunciò espressamente ad ogni sussidio da parte sua. Eatherly rispettò il primo desiderio, ma continuò a pagare spontaneamente un contributo per l’educazione dei figli. E cosi questa vita, sconvolta dalle ripercussioni della bomba, continua per cinque anni ad oscillare, con febbrile monotonia, fra il tribunale e la clinica, fra i vani gesti di rivolta di un bandito dilettante, che assalta cassieri senza derubarli, scardina porte di uffici postali senza toccare un soldo, e i tentativi di guarigione di un malato a cui non servono psicoterapie e tranquillanti, perché, moralmente più sano del suo ambiente, non può adattarsi alla società malata in cui ritorna ogni volta, avendo perduto per sempre, dopo gli eventi del 1945, quella «carapace» psichica che permette ai suoi contemporanei «normali» di sistemarsi con relativa comodità tra Auschwitz, Hiroshima e la minaccia di nuovi, spaventosi crimini di guerra. 5. E tuttavia il maggiore Eatherly ha ottenuto qualcosa di ciò che si era proposto: poiché è riuscito ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul proprio «caso». Inizialmente, è vero, essa reagì alle notizie sul «pilota pazzo di

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