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La cavia PDF

2011·0.46 MB·italian
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ROBIN COOK LA CAVIA (Seizure, 2003) A Audrey Anche se la sua facoltà di ricordare si è affievolita, la mia non lo è; quindi ti ringrazio di cuore, mamma, per tutto il tuo amore, la tua dedizione e i sacrifici che hai fatto per me, in particolare quando ero piccolo... un riconoscimento ancora più toccante e profondo ora che ho un bambino di tre anni sano, felice e scatena- to! Ringraziamenti Come per molti altri miei romanzi, in particolare quelli per cui era ne- cessaria una preparazione che andasse oltre le nozioni di chimica apprese all'università e la specializzazione in chirurgia e oftalmologia, ho tratto e- norme beneficio dall'erudiziene, dalla saggezza e dall'esperienza degli a- mici e di amici degli amici. Questo libro, infatti, si occupa di biotecnologie e di politica. Sono state numerosissime le persone che mi hanno messo a disposizione tempo e idee con generosità. Quelle che vorrei ringraziare in modo particolare sono (in ordine alfabetico): Jean Cook, psicologa con un'elevata preparazione accademica nel campo dell'assistenza sociale, lettrice perspicace, critica coraggiosa e inestimabile cassa di risonanza. Joe Cox, capace avvocato fiscalista e grande lettore di fiction, che ha competenze per quanto riguarda la struttura aziendale, la finanza e le que- stioni legali internazionali. Gerald Doyle, internista con una professionalità e una carica umana di cui si è perduto lo stampo, uno dei medici clinici più preparati del nostro paese. Orrin Hatch, venerato senatore dello Utah laureato in giurisprudenza, che mi ha graziosamente permesso di sperimentare di prima mano una giornata tipo nella vita di un senatore e mi ha intrattenuto con storielle umoristiche su ex senatori le cui biografie hanno costituito un terreno ferti- le su cui basarmi per creare il mio Ashley Butler. Robert Lanza, medico che è una vera e propria dinamo umana nel lottare indefessamente per colmare il gap tra clinica medica e biotecnologie del ventunesimo secolo. Valerio Manfredi, esuberante archeologo italiano, scrittore lui stesso, che si è dato moltissimo da fare nel fornirmi presentazioni e nell'organiz- zare la mia visita a Torino per la ricerca sulla Sacra Sindone. Prologo Lunedì 22 febbraio 2001 era una di quelle giornate invernali eccezio- nalmente tiepide che traevano in inganno gli abitanti della costa atlantica con la falsa promessa di una primavera imminente. Il sole splendeva dal Maine all'estremità dei Florida Keys, facendo innalzare la temperatura di circa dodici gradi. Doveva essere una giornata normale, felice, per la mag- gioranza delle persone che vivevano su quel lungo litorale, ma per due in particolare avrebbe segnato l'inizio di una serie di eventi destinati a far in- crociare tragicamente le loro vite. Ore 13.35 - Cambridge, Massachusetts Daniel Lowell sollevò lo sguardo dal foglietto rosa che teneva in mano, su cui era annotato un messaggio telefonico. Due cose lo rendevano unico: a chiamarlo era stato il dottor Heinrich Wortheim, presidente del diparti- mento di chimica ad Harvard, dicendo che desiderava vederlo nel suo uffi- cio, e inoltre il piccolo riquadro che recava la scritta URGENTE era segna- lato da una X. Il dottor Wortheim comunicava sempre per lettera e ne a- spettava una in risposta. Era considerato uno dei massimi chimici del mondo e occupando una posizione così elevata ad Harvard, poteva permet- tersi un comportamento eccentrico, da novello Napoleone. Raramente si mescolava con i comuni mortali come Daniel, che pure era a capo del pro- prio dipartimento sottoposto all'autorità di Wortheim. «Ehi, Stephanie!» chiamò a gran voce Daniel, attraverso il laboratorio. «Lo hai visto questo messaggio sulla mia scrivania? È dell'imperatore. Mi vuole vedere nel suo ufficio.» Stephanie sollevò la testa dallo stereomicroscopio per dissezione e gli lanciò un'occhiata molto scettica. «Questo non mi dice niente di buono.» «Tu non gli hai mai parlato, vero?» «Come avrei potuto? L'ho visto solo due volte durante tutto il dottorato: quando ho discusso la tesi e quando mi ha allungato il diploma.» «Deve essersi fatto qualche idea sui nostri progetti. Be', non c'è da sor- prendersi, considerata tutta la gente che ho avvicinato perché facesse parte del nostro comitato scientifico.» «Hai intenzione di andarci?» «Non me lo perderei per niente al mondo!» Dal laboratorio all'edificio che ospitava gli uffici amministrativi si arri- vava con una breve camminata. Daniel sapeva che lo aspettava un confron- to, ma non era preoccupato. Anzi, non vedeva l'ora. Nell'attimo stesso in cui entrò, la segretaria del dipartimento gli fece cenno di entrare direttamente nel sancta santorum di Wortheim. Trovò l'anziano premio Nobel seduto alla scrivania, un mobile di antiquariato. I capelli bianchi e il volto affilato lo facevano apparire più vecchio dei suoi settantadue anni. Questo però non sminuiva il forte carisma che emanava come un campo magnetico. «Prego, sieda, dottor Lowell», lo accolse Wortheim, guardandolo al di sopra degli occhiali da lettura con la montatura di metallo. Gli era rimasto un leggero accento tedesco, nonostante avesse vissuto negli Stati Uniti per quasi tutta la vita. Daniel obbedì. Era conscio del lieve sorriso disinvolto che gli aleggiava in viso e che di certo non sarebbe passato inosservato al suo capodiparti- mento. Nonostante l'età, le capacità intuitive di quell'uomo erano acute come non mai e pronte a captare il minimo sgarbo. Il servilismo che a- vrebbe dovuto mostrare verso questo «barone» era uno dei motivi che rin- francavano Daniel nella decisione di lasciare il mondo accademico. Wor- theim era brillante e aveva vinto il Nobel, ma rimaneva impantanato nella chimica sintetica inorganica del secolo scorso. Il presente e il futuro erano rappresentati dalla chimica organica, sotto forma di proteine e dei loro ri- spettivi geni. Fu il vecchio a rompere il silenzio, dopo che i due si furono studiati re- ciprocamente per qualche secondo. «Dalla sua espressione, immagino che le voci che mi sono arrivate siano attendibili.» «Potrebbe essere più preciso?» Daniel voleva essere sicuro che i suoi so- spetti fossero fondati. Aveva pensato di aspettare un altro mese prima di fare l'annuncio ufficiale. «Lei sta organizzando un comitato scientifico.» Wortheim si alzò e ini- ziò a camminare avanti e indietro. «E un comitato scientifico può signifi- care soltanto una cosa.» Si fermò e lo fissò con astio e disprezzo. «Ha in- tenzione di rassegnare le dimissioni e ha fondato una società, o sta per far- lo.» «Riconosco il capo d'accusa», proclamò Daniel. Ma non poté impedire al proprio sorriso di allargarsi smodatamente. Sul viso di Wortheim si era diffuso invece un profondo rossore. Senza dubbio, equiparava quella situa- zione al tradimento di Benedict Arnold durante la guerra di Indipendenza americana. «Mi sono esposto personalmente quando è stato assunto», sbottò. «Ab- biamo perfino costruito il laboratorio che lei voleva.» «Non ho intenzione di portare il laboratorio con me», replicò Daniel. Non riusciva a credere che il vecchio volesse farlo sentire in colpa. «La sua impertinenza è oltraggiosa.» «Potrei porgerle le mie scuse, ma non sarei onesto.» Wortheim tornò alla scrivania. «Il suo abbandono mi metterà in difficol- tà con il rettore.» «Mi spiace. Lo dico in tutta sincerità. Tuttavia, sono proprio questi in- trallazzi burocratici una delle ragioni per cui non sentirò la mancanza del mondo accademico.» «Che altro?» «Sono stufo di sacrificare all'insegnamento il tempo per la ricerca.» «Il suo carico di ore in aula è il meno oneroso di tutto il dipartimento. Lo abbiamo negoziato così, quando è venuto qui.» «Sì, ma sottrae troppo tempo alla mia ricerca e non è nemmeno la que- stione principale. Voglio raccogliere i vantaggi di ciò che ha prodotto la mia creatività. Vincere premi e vedere i miei articoli pubblicati su riviste scientifiche non è abbastanza.» «Desidera essere una celebrità.» «Suppongo che questo sia uno dei modi possibili per interpretare la si- tuazione. E, inoltre, il denaro non guasterebbe. Perché no? Si è arricchita anche gente con metà della mia abilità.» «Ha mai letto Il dottor Arrowsmith, di Sinclair Lewis?» «Non ho tante occasioni di leggere romanzi.» «Magari dovrebbe trovare il tempo», suggerì Wortheim, in tono di scherno. «Potrebbe farle riconsiderare la sua decisione, prima che sia irre- versibile.» «Ci ho già pensato parecchio. Ritengo sia la cosa giusta per me.» «Vuole sapere la mia opinione?» «Credo di conoscerla già.» «Penso che sarà un disastro per entrambi, ma soprattutto per lei.» «Grazie per le sue parole di incoraggiamento.» Daniel si alzò. «Ci ve- diamo in giro.» E uscì. Ore 17.15 - Washington, D.C. «Grazie a tutti voi per aver accettato di incontrarmi», esordì il senatore Ashley Butler, agitando festosamente una mano. Il tipico accento strasci- cato del Sud trasmetteva un senso di cordialità, accentuato dal sorriso stampato sul volto flaccido. Il nutrito gruppo di uomini e donne dall'e- spressione entusiasta era balzato in piedi nell'attimo stesso in cui lui aveva fatto irruzione nella propria saletta per le conferenze al Senato, assieme al capo dello staff. I visitatori, provenienti dalla capitale del suo stato, erano raggruppati al centro, attorno alla tavola di quercia. Erano i rappresentanti di una piccola organizzazione di imprese che faceva pressione per uno sgravio fiscale, o forse si trattava di uno sgravio assicurativo. Il senatore non se lo ricordava, e non era annotato sul programma del giorno, come invece avrebbe dovuto essere. Si disse che doveva far notare la mancanza alla dirigente del suo ufficio. «Mi spiace di essere arrivato in ritardo», ag- giunse, dopo aver stretto con energia la mano all'ultima persona. «Ero an- sioso di incontrarvi, e avrei voluto arrivare prima, ma è stata una di quelle giornate!» Sollevò gli occhi al cielo, con enfasi. «Purtroppo, a causa dell'o- ra e di altri impegni pressanti, non posso rimanere. Mi spiace, ma c'è qui Mike, e lui è un grande.» Il senatore assestò al membro dello staff che aveva destinato all'incontro con quel gruppo una plateale pacca sulle spalle, spingendo il giovane avan- ti fino a farlo andare a sbattere contro il tavolo. «Mike è il migliore che ho: ascolterà i vostri problemi e mi riferirà. Sono certo che possiamo esservi d'aiuto, e vogliamo esserlo.» Il senatore elargì un'altra serie di pacche sulle spalle di Mike, assieme a un sorriso ammirato, simile a quello di un padre orgoglioso che assiste alla consegna del diploma al figlio. I visitatori lo ringraziarono in coro per averli ricevuti, soprattutto consi- derando i suoi impegni pressanti. Su ogni volto spiccavano sorrisi entusia- sti. Se qualcuno fu deluso per la brevità dell'incontro e per aver dovuto a- spettare quasi mezz'ora non lo diede minimamente a vedere. «Il piacere è tutto mio», dichiarò Ashley. «Siamo qui per servire.» Girò sui tacchi, pronto ad andarsene. Quando raggiunse la porta si voltò per un ultimo saluto con la mano e i visitatori risposero allo stesso modo. «È stato facile», mormorò Ashley a Carol Manning, da lungo tempo ca- po dello staff, che lo aveva seguito a ruota dalla sala conferenze. «Temevo che mi avrebbero impastoiato con una litania di storie tristi e richieste irra- gionevoli.» «Sembravano persone per bene», commentò Carol, rimanendo sul vago. «Pensi che Mike riuscirà a gestirle?» «Non lo so. Non è con noi da abbastanza tempo, ancora non sono riusci- to a inquadrarlo.» Il senatore avanzò a grandi falcate per il lungo corridoio che conduceva al suo studio privato. Guardò l'orologio. Erano le cinque e venti del pome- riggio. «Presumo che ti ricordi dove mi devi portare adesso.» «Certo», lo rassicurò Carol. «Torneremo nell'ufficio del dottor Whit- man.» Il senatore le lanciò un'occhiata di rimprovero e si premette l'indice sulle labbra. «Non è un'informazione da dare in pasto a chiunque», sbottò irrita- to. Mentre passava davanti alla scrivania di Dawn Shackelton, la responsa- bile del suo ufficio, afferrò le carte che lei gli porgeva e senza nemmeno guardarlo, andò a chiudersi nel suo studio. Tra quei fogli c'era il program- ma del giorno dopo, assieme a un elenco di telefonate arrivate mentre lui si trovava nella capitale per una votazione a chiamata nominale, oltre alla trascrizione di un'importante intervista estemporanea con qualcuno della CNN che lo aveva abbordato nell'atrio. «Meglio che prendo la mia auto», osservò Carol, guardando l'orologio. «Dobbiamo essere nello studio del dottore alle sei e mezzo, e non si sa che razza di traffico dovremo affrontare.» «Buona idea», approvò lui, mentre andava a sedersi alla scrivania e in- tanto controllava l'elenco delle telefonate. «Devo aspettarla all'angolo della C con la Seconda?» Ashley si limitò a un grugnito affermativo. Un certo numero di chiamate erano importanti, infatti provenivano dai capi di parecchi suoi comitati di azione politica. Per quanto lo riguardava, la raccolta di fondi era la parte più significativa del suo lavoro, considerato che doveva affrontare una campagna di rielezione per il novembre dell'anno successivo. Udì la porta richiudersi alle spalle di Carol. Per la prima volta in quella giornata, il si- lenzio scese su di lui. Si guardò attorno. Per la prima volta in quella gior- nata, era solo. Di colpo, l'ansia provata al risveglio, quella mattina, dilagò in lui incon- trollabile. La sentiva dalla bocca dello stomaco alla punta delle dita. Non gli era mai piaciuto andare dal medico. Quando era bambino, era sempli- cemente la paura delle punture o di qualche altre esperienza dolorosa o im- barazzante. Ma a mano a mano che gli anni passavano, quella paura si era trasformata, diventando più potente e angosciante. Farsi vedere da un dot- tore era un modo sgradito per ricordare la propria mortalità e il fatto di non essere più giovane. Adesso era come se il mero atto di andare a farsi visita- re aumentasse le sue possibilità di dover affrontare qualche terribile dia- gnosi, come il cancro o, ancor peggio, la sclerosi laterale amiotrofica, nota anche con la sigla SLA. Qualche anno prima l'avevano diagnostica a uno dei suoi fratelli, in se- guito a un vago sintomo neurologico. Dopo la diagnosi, l'uomo robusto e atletico, un vero e proprio ritratto della salute - molto più di Ashley -, era diventato uno storpio, e nel giro di pochi mesi era morto. I medici non a- vevano potuto fare nulla. Ashley posò distrattamente i fogli sulla scrivania e guardò lontano. An- che lui aveva sofferto di qualche vago sintomo neurologico, un mese pri- ma. Dapprima non li aveva presi in considerazione, attribuendone la colpa allo stress, all'assunzione eccessiva di caffè o all'insonnia. I disturbi subi- vano alti e bassi, senza però scomparire del tutto. Anzi, sembravano len- tamente peggiorare. Quello più inquietante era il tremore intermittente alla mano sinistra. In certe occasioni aveva dovuto tenerla ferma con la destra perché nessuno se ne accorgesse. Poi c'era stata quella strana sensazione di avere della sabbia negli occhi, cosa che li faceva lacrimare in modo imba- razzante. Infine, era comparso di tanto in tanto un senso di rigidità che ri- chiedeva a semplici azioni come l'alzarsi e il mettersi a camminare uno sforzo sia mentale sia fisico. Una settimana prima, il problema lo aveva spinto a rivolgersi al medico, nonostante la sua superstiziosa riluttanza. Non era andato al Walter Reed, il noto centro medico dell'esercito, né al National Naval Medical Center di Bethesda. Temeva la possibile reazione dei media. Ashley faceva volentie- ri a meno di quel genere di pubblicità. Dopo quasi trent'anni al Senato era diventato una potenza, una forza con cui fare i conti, nonostante la sua re- putazione di ostruzionista che regolarmente si opponeva ai dettami della sua fazione politica. In realtà, con il suo appoggio costante a varie posizio- ni fondamentaliste e populiste, come i diritti dello stato e la preghiera nelle scuole, e le sue prese di posizione contro l'aborto, era riuscito a confondere le linee del partito e a guadagnarsi un crescente numero di sostenitori in tutto il paese. La rielezione al Senato non sarebbe stato un problema, con la sua macchina politica perfettamente oliata. Ciò che aveva in mente era la corsa alla Casa Bianca per il 2004. Non voleva certo che qualcuno fa- cesse supposizioni o spargesse chiacchiere sulla sua salute. Una volta superata la riluttanza a cercare l'aiuto di un medico, si era ri- volto a un internista privato in Virginia che aveva già visto in passato e della cui discrezione poteva fidarsi. Questi lo aveva immediatamente dirot- tato sul dottor Whitman, un neurologo. Il medico era stato evasivo, anche se, davanti ai timori specifici di A- shley, aveva dichiarato di dubitare che il problema fosse dovuto alla SLA. Dopo averlo visitato scrupolosamente e avergli prescritto alcuni esami, compresa la risonanza magnetica, non aveva azzardato una diagnosi ma gli aveva prescritto una cura che avrebbe dovuto attenuare i sintomi. Poi gli aveva dato appuntamento a quando tutti gli esami sarebbero stati pronti. Era la visita a cui Ashley stava per recarsi. Si passò una mano sulla fronte sudata, nonostante la stanza fosse fresca. Sentiva il polso accelerare. E se avesse avuto davvero la SLA? Se si fosse trattato di un tumore al cervello? Nei primi anni Settanta, quando era sena- tore dello stato, uno dei suoi colleghi aveva scoperto di avere un tumore al cervello. Cercò invano di rammentare quali sintomi accusasse. Tutto ciò che ricordava era che prima di morire, quell'uomo era divenuto l'ombra di se stesso. La porta di comunicazione con la stanza esterna si socchiuse e Dawn mise dentro la testa, con precauzione. «Ha appena chiamato Carol dal cel- lulare. Sarà sul luogo dell'appuntamento fra cinque minuti.» Ashley annuì e si alzò. Trovò incoraggiante il fatto di non sentirsi intral- ciato nei movimenti. A quanto pareva, il farmaco somministratogli dal dot- tor Whitman faceva miracoli, e questo era l'unico punto positivo dell'intera faccenda. Erano scomparsi tutti i sintomi preoccupanti, tranne un leggero tremore alla mano che ricompariva appena prima di assumere la dose suc- cessiva. Se il problema si poteva risolvere così facilmente, forse non dove- va preoccuparsi troppo. O almeno così cercava di convincere se stesso. Carol fu puntualissima, come sempre. Lavorava con lui da sedici anni, sui quasi trenta in cui aveva ricoperto l'incarico di senatore, e si era dimo- strata sempre affidabile, devota, leale. Mentre si dirigevano in Virginia, cercò perfino di approfittare del viaggio per discutere gli avvenimenti del giorno e fare progetti per l'indomani, ma si rese conto ben presto dell'umo- re che attanagliava il suo capo e rimase in silenzio, concentrandosi sul traf- fico infernale. L'ansia di Ashley aumentava a mano a mano che si avvicinavano allo studio del neurologo. Quando scese dall'auto, stava di nuovo sudando. Nel corso degli anni aveva imparato a dare retta all'intuito, e l'intuito aveva messo in atto i campanelli di allarme. C'era qualcosa che non andava nel suo cervello, anche se lui cercava di negarlo. Per venire incontro alle sue esigenze, l'appuntamento era stato fissato dopo il normale orario delle visite, e nella sala d'attesa vuota incombeva una quiete sepolcrale. L'unica illumìnazione proveniva da una piccola lampada da scrivania che creava una fioca pozza di luce sul banco deserto della reception. Ashley e Carol rimasero fermi per un momento, non sa- pendo che fare. Poi si aprì una porta interna, inondando lo spazio di fredda luce al neon. E, sulla soglia, si stagliò la sagoma nera del dottor Whitman. «Scusate per questa accoglienza inospitale», li salutò il medico. «Sono andati tutti a casa.» Azionò un interruttore. Indossava un camice bianco inamidato e aveva un contegno molto professionale. «Non occorrono scuse», replicò Ashley. «Apprezziamo la sua discrezio- ne.» Lo scrutò in viso, sperando di cogliere nella sua espressione un qual- che segno di buon auspicio. Ma non fu così. «Senatore, prego, venga nel mio studio.» Whitman accompagnò le paro- le con un gesto di invito. «Signora Manning, se vuol esser così cortese da aspettare qui...» L'ordine che regnava in quella stanza sembrava maniacale. Il mobilio consisteva in una scrivania, sul cui ripiano erano perfettamente allineati gli oggetti, e due poltroncine per gli ospiti. I libri erano disposti sugli scaffali rigorosamente secondo la loro altezza. Il neurologo indicò una delle due poltroncine, prima di sedersi lui stesso. Con i gomiti sulla scrivania, congiunse le mani davanti a sé, facendo com- baciare i polpastrelli, e fissò il senatore che intanto si era accomodato. Se- guì una pausa significativa. Ashley non si era mai sentito così a disagio. L'ansia aveva raggiunto il culmine. Da quando era adulto, aveva impiegato la maggior parte della vita a sgomitare per il potere, riuscendovi oltre ogni sogno più sfrenato. Eppu- re, in quel preciso momento si sentiva del tutto impotente. «Al telefono mi ha detto che il farmaco ha funzionato», esordì il medico. «A meraviglia», esclamò Ashley, improvvisamente sollevato dal fatto che Whitman fosse partito da una cosa positiva. «Sono scomparsi quasi tutti i sintomi.» Il neurologo annuì, come se si fosse aspettato quel risultato. La sua e- spressione rimase imperscrutabile. «Pensavo che questa fosse una buona notizia», azzardò Ashley. «Ci aiuta a fare la diagnosi.» «Ebbene... che cos'è?» chiese il senatore dopo una pausa imbarazzante. «Qual è la diagnosi?» «Il farmaco era una forma di levodopa», spiegò Whitman in tono catte- dratico. «Il corpo può convertirla in dopamina, una sostanza coinvolta nel- la trasmissione neuronaie.» Ashley respirò a fondo. Un'improvvisa ondata di collera minacciò di sa- lire in superficie. Non voleva ascoltare lezioni, come uno studentello qua- lunque. Voleva la diagnosi. Si sentiva messo alla prova, come quando il gatto gioca con il topo. «Ha perduto alcune cellule coinvolte nella produzione di dopamina», continuò Whitman. «Queste cellule si trovano in una parte del cervello che si chiama substantia nigra.» Ashley sollevò entrambe le mani in segno di resa. Soppresse la voglia di imprecare deglutendo con qualche difficoltà. «Dottore, arriviamo al dun- que. Quale pensa che sia la mia diagnosi?» «Sono sicuro al novantacinque per cento che lei ha il morbo di Parkin- son.» Detto questo, Whitman si appoggiò allo schienale, facendo cigolare la poltrona. Per un momento, Ashley non parlò. Non ne sapeva tanto sul quel morbo, ma non gli suonava amico, e gli balzò alla mente qualche immagine di per- sona famosa che lottava contro quella malattia. Allo stesso tempo, si sentì sollevato al'idea di non avere un tumore al cervello o la SLA. Si schiarì la voce. «E si può curare?» si decise a chiedere. «Al momento no. Però, come ha già sperimentato con il farmaco che le ho prescritto, per un certo periodo si può tenere sotto controllo.» «Che cosa significa?» «I disturbi potrebbero anche non ripresentarsi per un po', magari un an- no. Purtroppo, a causa della sua anamnesi in cui i sintomi si sono sviluppa- ti rapidamente, il farmaco perderà di efficacia prima che con altri pazienti, almeno per l'esperienza che mi sono fatto. A quel punto, il morbo la debili- terà progressivamente. Tutto quello che potremo fare sarà affrontare ogni circostanza a mano a mano che si presenterà.» «È un disastro», bofonchiò Ashley, sopraffatto dalle implicazioni. I suoi

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