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La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione. 1945-1948 PDF

276 Pages·2015·1.63 MB·Italian
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Ladri di Biblioteche Presentazione Lasciare «tracce di luce sul gioco delle onde dei giorni vissuti», più come un «piacere che come un dovere». Sono le parole con cui, all’inizio di un nuovo anno, Ernst Jünger rinnova il proposito di tenere il diario, distillando in un’immagine il senso di questo libro. Bassa Sassonia, 11 aprile 1945 – 2 dicembre 1948: è il tempo della desolazione, in cui si piangono i propri cari o ci si consuma nell’incertezza della loro sorte. In balia degli umori degli occupanti, con la fame, il peso degli orrori che filtrano dai racconti dei prigionieri liberati dai campi di concentramento e dei nuovi profughi dell’Est che affollano le strade, si soffre l’umiliazione dell’isolamento e dell’unanime condanna internazionale, e si sperimenta una dolorosa fragilità. La resa incondizionata, la catena di esecuzioni e suicidi dei potenti della stagione appena conclusa (prima Mussolini, poi Hitler, Goebbels, Himmler), la capitolazione giapponese e le bombe su Hiroshima e Nagasaki; come pure il ripristino della corrente elettrica, la prima lettera ricevuta, la fioritura del giardino, il miracolo di un fossile che ci ricorda la vitalità e l’unità dell’universo al di là del tempo e dello spazio: ogni cosa viene puntualmente annotata. La resurrezione cui pian piano si assiste passa per le piccole cose, per una quotidianità di lavoro, letture, abitudini e affetti ritrovati o onorati nel ricordo (come il figlio Ernstel, caduto sul fronte italiano nel 1944); ma anche per un primo tentativo di valutazione di quanto è accaduto. In un documento straordinario, riaffiorano allora volti, fatti, incontri, presagi, lo straniamento e il tragico scetticismo con cui si è assistito all’ascesa del nazismo, senza tacerne l’oscura fascinazione iniziale. Opere di Ernst Jünger (1895-1998) nel catalogo Guanda: Il contemplatore solitario, Irradiazioni. Diario 1941-1945, Nelle tempeste d’acciaio, La forbice, Cacce sottili, L’operaio, Giardini e strade. Diario 1939-1940. In marcia verso Parigi, La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948, Eumeswil, Heliopolis, Il cuore avventuroso. Figurazioni e Capricci, Ludi africani, Rivarol, massime di un conservatore, La pace, Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, Lo stato mondiale. Organismo e organizzazione, Il tenente Sturm, Le api di vetro, Due volte la cometa, Sulle scogliere di marmo, Tre strade per la scuola. Vendetta tardiva, Maxima- Minima, Sulla questione degli ostaggi. Parigi, 1941-1942. www.guanda.it facebook.com/Guanda @GuandaEditore www.illibraio.it Titolo originale: Die Hütte im Weinberg. Jahre der Okkupation Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-2351240-5 © Klett-Cotta 1958, 1979 J.G. Cotta’sche Buchhandlung Nachfolger GmbH, Stuttgart © 2009 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. 1945 Kirchhorst, 11 aprile 1945 Adesso vengono cose sgradevoli: pattuglie che cercano le armi e si prendono il vino, soldati che per acquartierarsi confiscano intere case, della nostra tutto il piano inferiore, dev’essere sgomberato senza indugio. Mi vedo perciò costretto a trasportare la biblioteca in mansarda, e i miei figli mi assistono come formichine, con i cesti della biancheria. I ragazzi sono di buon umore; si sono procurati una bottiglia di vermut, e lo sorseggiano insieme, di nascosto. Evidentemente trovano piacevole lo sconvolgimento dell’ordine domestico. Nelle ultime settimane li ho sentiti dire: «Pensa che bello se domani arrivassero i bombardieri». In tal caso non sarebbero andati a scuola. In paese si odono gli schiamazzi dei polli a cui viene tirato il collo. Un reparto corazzato svolta e attraversa il campo dei vicini, lavorato di fresco e verde di primavera. In un attimo è spianato come un’aia nera. Sulla strada sfilano in una colonna infinita autocarri guidati da negri. Osservo il plotone diretto a est da un angolo del cimitero. Vicino a me c’è il figlio di una profuga, di nove anni. Mi guarda con occhi adulti e scaltri e dice: «Mi fanno paura». E intanto indica gli autisti, che scivolano via come bambole nere. Kirchhorst, 12 aprile 1945 La notte è trascorsa senza incidenti. Al mattino il ciliegio nel giardino era in fiore. Gli americani perquisiscono le abitazioni. Si servono dei prigionieri polacchi, che hanno familiarità con questi luoghi, come di segugi. Li osservo mentre dal vicino rivoltano un mucchio di sabbia accumulata di fresco, e lo scandagliano con dei bastoni. È un lavoro inutile; certo che la carne macellata era nascosta là sotto, ma interrata sotto le aiuole coltivate. Quando ci sono in ballo le salsicce, il contadino si fa scaltro. Invece, nella paglia del fienile, scoprono un fucile, di cui probabilmente si sarà sbarazzato un soldato tedesco passato di là. Ciò suscita grande animazione. Mentre il vicino è già scappato nel bosco, la moglie, spaventata, chiama Perpetua, perché spieghi loro il significato di quel ritrovamento. Alcuni soldati perlustrano il giardino con specchi magnetici fissati a delle aste. Incominciano a scavare in un punto e ci trovano un vecchio ferro di cavallo. La vista di questi cercatori di tesori mi impensierisce. Senza dubbio a quest’ora avrebbero già trovato i miei fucili da caccia se li avessi seppelliti nelle aiuole come previsto. Ma li ho fatti sotterrare, ben impacchettati, in un lontano campo di patate. Le armi da guerra, invece, le ho gettate nello stagno con la riserva d’acqua per gli incendi giusto la notte scorsa. Contavo su un interregno anarchico, più che su un puro scatenarsi della violenza. Il trambusto in cui si è soltanto degli oggetti è privo di senso. Pare di essere una di quelle figure di Bruegel che, dalle finestre, osservano con lo sguardo fisso spettacoli d’ogni sorta. Perciò me ne sono andato nel fienile a lavorare un po’. Un soldato, entrato là dentro per controllare il pollaio, mi ha chiamato. Aveva una voce sgradevole. Mi sono avvicinato a lui e, nella penombra, ho visto che aveva estratto un grosso revolver e me lo aveva puntato contro. La canna mi sfiorava il petto. Ho posato il forcone che avevo in mano. È sceso un silenzio quasi solenne. Alla fine mi ha chiesto che ci facessi là dentro e gli ho risposto che ero il padrone di casa. Allora ha messo la sicura alla sua arma e l’ha infilata nel cinturone. Era la seconda volta che in vita mia, in una circostanza simile, sperimentavo la canna di una pistola. Già nel 1918 alcuni spartachisti intenti a perquisire casa nostra mi avevano rivolto lo stesso saluto. Tutte e due le volte quel contatto aveva come segnato l’ingresso in uno spazio diverso. Ho di nuovo percepito quell’attenzione estrema, quell’auscultare il silenzio. Nel frattempo Perpetua manda avanti la casa come un capitano la sua nave sballottata dai marosi. Così, grossi pezzi dello steccato vengono divelti e bruciati. Del resto nella legnaia sono nascoste le casse di vino. Laggiù uno dei gruppi che bivaccano nel prato ha intrapreso una gara di tiro, e i giovani alberi da frutta fanno da bersaglio. Profughi sconosciuti si sono accampati in giardino e negli androni. Dal paese, intanto, arriva gente in difficoltà. E sulla strada continua a scorrere senza interruzione il flusso dei carri armati. Non appena la padrona di casa viene a sapere del mio incontro nel fienile mi dà l’ordine di consegna. Meglio così. Allora mi ritiro nella mansarda, che è tappezzata di libri da cima a fondo. Liberi non restano che una finestrella, il letto e la scrivania. Sotto c’è il campo di Wallenstein: gli altoparlanti annunciano la vittoria; pattuglie accompagnano i prigionieri stanati dai cani nella palude. Un velivolo tedesco sgancia bombe. È tipico delle massaie che il loro zelo si faccia tanto più grande quanto maggiori sono le richieste. In circostanze eccezionali può crescere fino al virtuosismo, ed espandersi come un elemento. Mi ha stupito più di una volta. E anche adesso me ne sto alla finestra e mi chiedo se ci sia davvero bisogno di tirar fuori oggi i vecchi abiti dagli armadi e dalle valigie e di sprimacciarli col battipanni. Di sicuro ai vestiti fa bene, ma c’è ancora tempo per farlo. Guardo Perpetua indaffarata a stendere i capi dell’uniforme che il generale Loehning ha lasciato qui da noi per via degli attacchi aerei. Le strisce rosse sui calzoni brillano in lontananza. Lei lancia uno sguardo in alto, verso di me, e io scuoto la testa. Ma i soldati sdraiati al sole ridono di noi. Osservo la sentinella che sorveglia la casa. Se ne sta seduto in una poltrona di vimini. Però regge il fucile, come un cacciatore in agguato. Intorno al comandante che entra ed esce dall’edificio non si fanno troppe cerimonie, a parte chiamarlo

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