SAGGI STEFANO CHIODI LA BELLEZZA DIFFICILE Saggi e interventi sull’arte contemporanea Le Lettere In copertina: Lorenzo Scotto di Luzio, Senza titolo, 2007, capelli su carta, cm. 32 x 42 cm. Courtesy Emilio Mazzoli, Modena. Copyright © 2008 by Casa Editrice Le Lettere - Firenze ISBN 88 6087 184 0 www.lelettere.it Senza intuire in qualche modo la vita del dettaglio attraverso la struttura, ogni aspirazione alla bellezza rimane pura fantasia. Struttura e dettaglio sono sempre, in definitiva, carichi di storicità. È compito della critica filosofica mostrare che la funzione della forma artistica è appunto questa: trasformare i dati storici che stanno alla base di ogni opera significativa in contenuti di verità. Questa metamorfosi dei dati di fatto in contenuti di verità fa sì che l’affievolirsi, decennio dopo decennio, del fascino originario dell’opera, diventi il germe di una nuova nascita, in cui ogni bellezza effimera viene completamente a cadere e l’opera si afferma come rovina. Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco INTRODUZIONE «Beauty is difficult». Scrive Ezra Pound nei Pisan Cantos che Aubrey Beardley aveva risposto al poeta Yeats, curioso di sapere come mai non avesse continuato a disegnare alla maniera preraf- faellita: «So very difficult, Yeats, beauty so difficult». A chi gli domandava perché non creasse qualcosa di nuovo, anziché limi- tarsi a riprodurre confezioni di pagliette d’acciaio, Andy Warhol rispondeva invece senza battere ciglio: «because it’s easier». Ecco sarcasticamente riassunto un nucleo elementare di differenza tra modernità e postmodernità: la bellezza è difficile, sottintendendo difficile fabbricarla e difficile decifrarla, intenderla; oppure no, la bellezza è la cosa più facile del mondo, è già qui tra noi, pronta da consumare. Anzi, non è neppure più veramente bellezza, ma solo il suo fantasma, svuotato dei tratti indecifrabili, delle difficoltà che l’hanno secolarmente contrassegnata. E così evapora anche l’op- posizione tra la difficoltà del nuovo, dell’autentico, e la facilità del ripetitivo, l’inautentico per definizione. E tuttavia è più verosimile pensare di essere in presenza qui, più che di uno spartiacque, di un balletto dialettico: perché la difficoltà torna nel momento stesso in cui ci accingiamo a liquidare l’estetica insieme al suo ingombrante corteo di problemi irrisolti, torna sotto forma di oscurità, di punto di domanda che accompagna e segna il nostroesercizio di spetta- tori o di interpreti. Staccato dal suo liscio involucro sensoriale, dal dominio del gradevole, dell’appagante, oggi regno incontrastato dell’immaginario pubblicitario, il “bello” appare tanto il fossile di un’epoca remota, un misterioso minerale, un meteorite dotato di inquietanti proprietà, un puntatore ambiguo, bifronte, quanto l’in- ciampo delle teorie che neprevedono l’indefettibileeliminazione, VIII STEFANOCHIODI l’elemento di disturbo, e anche il germe di una diversa articola- zione del senso: lo schermo argenteo su cui Warhol iscrive l’e- strema reificazione, quella della morte, può diventare così la superficie impressionabile su cui si proiettano il nostro smarri- mento e la nostra meraviglia. Sappiamo da tempo del resto che una volta divelte la Storia e la Natura dai loro piedistalli per sostituirvi il conflitto senza tregua tra principi integralmente mondani, la dimensione dominante del- l’esperienza è divenuta il simulacro, la forma della derealizzazione dell’umano, di un’incessante simulazione che produceormai la real- tà anziché esserne come credevamo solo un mascheramento. Le assiologie tradizionali hanno a loro volta perso consistenza e non sono più pensabili fatti artistici neutri, puramente profani o, al con- trario, puramente estetici: ogni cosa sembra venire in luce portan- do con sé la compromissione, a prima vista difficilmente percepibile, di ogni suo potenziale valore d’uso, presentandosi in una sorta di precomprensione che abbraccia e denatura quell’oriz- zonte puro, quello spazio non ancora gravato dalla cultura verso cui tendevano le avanguardie e i progetti utopici della modernità. Una condizione questa in cui viene assestato un colpo mortale al modello critico ermeneutico, alla sua prolissa ricerca di connessio- ni tra “dentro” e “fuori” l’opera, tra questa e lo sfondo da cui avrebbe dovuto trarre alimento. Tutto è fuori, oggi. Ed è proprio dalla modernità che ereditiamo, allargandola, la frattura con il pas- sato, con la tradizione, rendendo semmai più radicale quella con- dizione in cui la cultura non può che apparire – come agli occhi del benjaminiano angelo della storia – un cumulo di macerie illu- minate dalla luce obliqua in cui rovina preventivamente ogni super- ficiale “bellezza”. In questo tempo l’arte visiva non può che misurare l’irrealizzabilità del suo antico compito: portare a matu- razione il percepibile, organizzare, nella forma di un’esperienza condivisibile, l’intensificazione e il distanziamento delle cose: fare spazio, fare tempo. Osservata da uno sguardo malinconico– postu- mo, come impone la nostra generica condizione di sopravvissuti alla fine dell’utopia–non solo l’arte, ma la realtà intera si trasforma così in una sterminata allegoria, come se da esso fosse defluita la vita e ogni cosa fosse consegnata a un inaridimento, a un’ontologica arbi- trarietà. Per questo la sola epifania che ci sia oggi concessa, come INTRODUZIONE IX ha scritto Giorgio Agamben, è l’estraniazione, l’esperienza para- dossale del «dissolversi della trasmissibilità dell’esperienza». Ma l’arte mette in disordine la vita. E dell’arte nostra contem- poranea potremmo anche dire, parafrasando una massima di Goe- the, che se non c’è via più sicura per evadere dal mondo, non vi è neppure mezzo più certo per farvi ritorno. Così, se nelle esperien- ze più recenti si avverte sempre un che di teatrale, di simulato, di rinviato in anticipo, una maniera di fare tongue in cheekfatta appo- sta per irritare i nostalgici della bella forma, essa ci richiede con insistenza un secondo sguardo, proprio perché si presenta adden- sata in una forma che tanto più tende a rimuoverci, a eclissarci nella dura oggettività dei processi di scambio, quanto altrettanto costan- temente implica, chiede, pretende partecipazione e consapevolez- za. Ed ecco allora l’arte prendere sempre più ai nostri giorni il carattere di un dramma grottesco, futile e intensissimo, terribile, vacuo e crudele, arido e passionale al tempo stesso, impegnata com’è in una sfida a emulare l’intima contraddittorietà dell’esi- stenza in quella che è insieme la sua garanzia di verità e la sua più abile falsificazione. Le cose non sono come appaiono, ci dicono gli artisti, e l’apparire stesso è anzi intriso di quella responsabilità, impersonale ma non astratta, attraverso cui si produce il senso in movimento dell’esperienza umana. Il legame tra arte e piacere este- tico si è dissolto nella fiamma fredda della tarda modernità; ma nella vera opera d’arte, per citare ancora Benjamin, il piacere sa rendersi impalpabile, vivere per un istante, scomparire, rinnovar- si. In questo forse la bellezza appare uno schema in grado di orga- nizzare la convenzionalità del mondo, di manifestarne l’arbitrio e la ricchezza, la storicità e il tragico, la profondità filosofica e il bri- vido carnale. Per questo ancora, per noi oggi, la bellezza può tor- nare a essere difficile. I testi riuniti questo libro, tutti pensati o scritti tra il 2001 e il 2008, rappresentano una selezione significativa di un lavoro “mili- tante”, come si sarebbe detto un tempo, sin qui disseminato in cata- loghi, antologie, giornali, riviste, che oltre l’esperienza artistica contemporanea ha via via toccato temi e nodi teorici, retroceden- do a volte nei territori della storia, cercando di tradurre in pratica quel compito ideale della critica che consiste nell’acquisire «il senso