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La battaglia contro l’Europa. Come un’élite ha preso in ostaggio un continente. E come possiamo riprendercelo. PDF

206 Pages·2016·5.161 MB·Italian
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Le terre 237 2 I edizione digitale: marzo 2016 © 2014 Thomas Fazi First published by Pluto Press, London © 2016 Fazi Editore srl Via Isonzo 42, Roma Tutti i diritti riservati Titolo originale: The Battle for Europe: How an Elite Hijacked a Continent – and How We Can Take It Back ISBN: 978-88-9325-014-6 www.fazieditore.it www.facebook.com/fazieditore @FaziEditore www.youtube.com/EditoreFazi Google plus Fazi Editore 3 Thomas Fazi - Guido Iodice LA BATTAGLIA CONTRO L’EUROPA 4 Indice Prefazione Introduzione 1. Le vere cause della crisi europea 2. Le conseguenze economiche di Angela Merkel 3. Una via d’uscita dalla crisi 5 LA BATTAGLIA CONTRO L’EUROPA 6 Prefazione Predatori del mondo intero, adesso che mancano terre alla vostra sete di totale devastazione andate a frugare anche il mare. Avidi se il nemico è ricco e arroganti se è povero. Gente che né l’Oriente né l’Occidente possono saziare. Solo voi bramate possedere con pari smania ricchezza e miseria. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano impero. Rubano, massacrano, rapinano, e con falso nome lo chiamano nuovo ordine. Laddove fanno il deserto, lo chiamano pace. PUBLIO CORNELIO TACITO Parafrasando Tacito, potremmo dire: «Hanno fatto un deserto e ora la chiamano ripresa». A otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria, l’Europa è stremata dall’austerità, dalla stagnazione economica, da disuguaglianze sempre più gravi e dal crescente divario tra paesi del centro e della periferia. La stessa parola “crisi”, che rimanda a un fenomeno di rottura e di breve periodo, è ormai inadeguata a descrivere quello che appare come un cambiamento strutturale – ma forse sarebbe meglio dire una ristrutturazione deliberata – dell’economia e della società. La democrazia viene esautorata a livello nazionale e non viene sviluppata a livello europeo. Il potere è sempre più concentrato nelle mani di istituzioni tecnocratiche che non rispondono delle loro decisioni e in quelle dei paesi più forti dell’Unione. Allo stesso tempo, cresce in tutto il continente un’ondata di populismo, con l’affermarsi in alcuni paesi di pericolosi movimenti nazionalisti. Eppure non vi è ancora un consenso – non dico a livello mainstream, ma neanche a sinistra – sulle ragioni che ci hanno condotto fino a questo punto, e su come uscirne. Uno dei motivi che mi hanno spinto a iniziare l’edizione inglese di questo libro (The Battle for Europe, Pluto Press), nell’estate del 2012, era precisamente la mancanza di un’analisi esaustiva, critica e accessibile di quello che stava accadendo, che fosse in grado di integrare in un unico quadro analitico le diverse crisi che componevano “la crisi”. Per come la vedevo – e per come la vedo ancora oggi –, si trattava di un problema politico ancor prima che teorico: il fatto che le politiche di austerità imposte dall’establishment europeo, che sarebbero state impensabili solo qualche anno prima, incontrassero relativamente poca resistenza poteva imputarsi in buona parte all’incapacità dei cittadini di comprendere le dinamiche in corso. E 7 dunque di reagire. Oggi non si può certo dire che le cose siano migliorate. Anzi: per certi versi sono addirittura peggiorate. Il perdurare della crisi economica e la vergognosa gestione della vicenda greca hanno sì trasformato la crisi in un argomento di dibattito diffuso – e questo è senz’altro un elemento positivo –, ma hanno anche determinato un progressivo imbarbarimento del dibattito pubblico, sempre più dominato da logiche nazionalistiche («prima gli italiani») e semplificazioni illusorie e solo apparentemente radicali («fuori dall’euro»). Nel frattempo molti dei miti fondativi alla base del “regime di austerità” – dobbiamo stringere la cinghia perché stiamo finendo i soldi; abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità; il problema è l’eccessivo debito pubblico ecc. – si sono persino rafforzati. Per quanto mi riguarda, rispetto a quando è uscita l’edizione inglese, a inizio 2014 – e dunque rispetto ad alcune delle proposte in essa avanzate –, sono diventato molto meno ottimista sulla capacità dei movimenti europei antiausterità di ottenere un cambio di rotta senza un ribaltamento radicale degli equilibri politici nei singoli Stati membri e nell’eurozona nel suo complesso. Pur criticando la superficialità di certe posizioni che potremmo definire “neosovraniste”, riconosco che è necessario un riposizionamento da parte di tutti coloro che – come me – si sono a lungo identificati in una posizione di “Europa democratica e di sinistra” che immagina(va) di poter riformare l’eurozona e l’Unione Europea in una direzione più democratica e progressista (keynesiana). Da un lato bisogna prendere atto che i tedeschi (e la loro galassia) non saranno mai disposti ad accettare – almeno nel breve termine – una riforma dell’eurozona in questo senso. Dall’altro, però, bisogna anche ribadire che l’uscita individuale e unilaterale di un singolo paese (come può essere la Grecia, ma lo stesso discorso vale anche per l’Italia), al fine di recuperare la tanto agognata “sovranità monetaria”, rimane una pericolosa illusione nel momento in cui i rapporti di forza sono fortemente sbilanciati – ovunque – a favore del capitale e in cui la deflagrazione incontrollata della zona euro rischierebbe di precipitare l’Europa e l’economia globale nel caos finanziario, in quella che Barry Eichengreen ha definito una «Lehman al quadrato». In questa fase, dunque, la prospettiva per chiunque voglia allargare nuovamente la sfera pubblica al fine di rilanciare l’occupazione e gli investimenti non può che essere quella di trasformare i rapporti di forza – sia all’interno dei singoli paesi che tra i paesi stessi – per riuscire a incidere sui processi reali invece di subirli passivamente (a prescindere dall’obiettivo strategico che uno si dà). Il che vuol dire che il lavoro che ci aspetta è lungo e faticoso, e che non esistono scorciatoie o soluzioni miracolistiche. In quest’ultimo anno e mezzo, ho anche approfondito alcuni aspetti della crisi e cambiato opinione su altre questioni. Considero dunque la presente edizione italiana – rivista, approfondita, aggiornata e adattata per l’Italia insieme a Guido 8 Iodice, cofondatore e animatore del sito Keynes blog, con cui ho intrecciato nel tempo un proficuo scambio intellettuale, a partire dalla nostra comune ammirazione per il celebre economista britannico – un importante passo avanti rispetto all’originale. E, sperabilmente, l’inizio di un percorso comune con tutti coloro che, come noi, non hanno nessuna intenzione di morire “austeriani”. THOMAS FAZI Gennaio 2016 9 Introduzione Si narra che quando il ministro delle Finanze di Luigi XIV di Francia, Jean- Baptiste Colbert, chiese a un gruppo di mercanti – oggi diremmo di imprenditori –– cosa avrebbe potuto fare il governo per aiutare il commercio, uno di loro, chiamato Legendre, abbia risposto semplicemente: «Lasciateci fare». L’espressione laissez faire, che oggi in Italia traduciamo con ‘liberismo’, divenne da allora sinonimo di libertà di impresa, libero commercio e Stato minimo, contrapposta alle idee di Colbert e dei mercantilisti, che vedevano invece per lo Stato un ruolo attivo e interventista in campo economico. La vulgata vuole quindi che i liberisti siano coloro che si oppongono alle barriere doganali, alle tasse, alle regolamentazioni eccessive e, soprattutto, alla spesa pubblica. Generazioni di economisti, filosofi, politici, hanno sviluppato una dottrina secondo la quale meno lo Stato si occupa di economia, più questa sarà capace di prosperare da sola. Il ruolo del pubblico, al più, consiste nel garantire i contratti attraverso l’applicazione del codice civile e nell’occuparsi della polizia a difesa della proprietà. Eppure, a ben vedere, vi è un abisso tra la dottrina e la pratica. Un abisso che è diventato talmente evidente tra il 2007 e il 2008 da non poter essere più nascosto. Quando la crisi scatenata dallo scoppio delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e in Europa ha cominciato a far crollare, una dopo l’altra, banche piccole e grandi, quasi tutti coloro che fino al giorno prima avevano predicato il ritiro dello Stato dalla sfera economica si sono dovuti barcamenare per giustificare i salvataggi bancari di quegli istituti too big to fail, troppo grandi per fallire. L’Italia è stata solo marginalmente sfiorata dal fenomeno, eppure anche da noi, di fronte al possibile fallimento di Monte Paschi, i campioni del liberismo Michele Boldrin e Oscar Giannino si appellarono al governo addirittura per nazionalizzare la storica banca senese. Qualcuno, invero, cercò di tenere il punto. Quando nel settembre del 2008 il governo americano “lasciò fare” e Lehman Brothers fallì, l’economista italiano Francesco Giavazzi scrisse che quello era un bel giorno per il capitalismo. Il contagio finanziario globale che ne seguì dimostrò al di là di ogni ragionevole dubbio che Giavazzi sbagliava e che l’errore del “lasciar fare” e del permettere che una banca diventi troppo grande non può essere corretto lasciando fare ancora e permettendo che essa fallisca. In altre parole, il mercato non si ripara da solo. Ma è l’origine stessa della crisi finanziaria del 2008 che risulta, a un’analisi 10

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