Description:Di Sabrina Harman tutti dicevano che non avrebbe fatto mai male a una mosca, letteralmente: «se c'è una mosca sul pavimento e tu stai per pestarla, lei ti blocca». Sabrina era entrata nell'esercito per pagarsi il college e poi andare in polizia: amava fare fotografie e le sarebbe piaciuto diventare fotografo legale. Nella sua unità in Iraq era considerata una che odiava assistere ad atti di violenza, o commetterli: tutto sommato un soldato che non avrebbe mai dovuto fare il soldato, troppo gentile, troppo sensibile, inadeguata per quel ruolo di guardia carceraria ad Abu Ghraib. Eppure Sabrina Harman e molti altri suoi commilitoni, fra cui Charles Graner, Lynndie England e Ivan Frederick, sono le stesse persone che ridono beffarde puntando il dito davanti a una piramide umana di prigionieri incappucciati, che sollevano festose il pollice accanto al cadavere di un uomo morto per le torture, che indifferenti stringono una cinghia intorno al collo di un detenuto nudo a terra. Sono le stesse persone che da quelle foto, che qui volutamente non sono riprodotte, sembrano quasi osservarci, cercare la nostra complicità. Pensavano di essere accolti come dei liberatori e si ritrovano in quella che era la più famigerata prigione di Saddam Hussein, riconvertita in fretta e furia e bersagliata dai mortai, a svolgere compiti per cui non sono addestrati, sottoposti a una catena di comando confusa e vaga sugli ordini e sulle procedure da seguire per gli interrogatori. Questo libro è la storia di quelle fotografie, di quegli uomini e di quelle donne. Ma è soprattutto la storia agghiacciante di ciò che non si vede, di come quel luogo è diventato il cuore di tenebra del nostro presente, un luogo in cui i prigionieri - il 75 per cento dei quali è risultato poi innocente - venivano quotidianamente picchiati, denudati, umiliati, torturati, privati di dignità e diritti; a volte uccisi. È il racconto di come tutto ciò è diventato normalmente possibile e di come le istituzioni, ricorrendo a ipocriti eufemismi e a fumosi termini tecnici, hanno consapevolmente perseguito questo obbiettivo. Ogni giorno ci dicono che siamo in guerra, che certi compromessi sono inevitabili, che fanno parte delle «regole del gioco». Per questo le fotografie di Abu Ghraib ci riguardano tutti: non possiamo ignorare l'orrore, non possiamo far finta che sia un male necessario. L'unica speranza di contenerlo è fissarne l'oscurità.