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L. CAVAZZUTI, La pirateria nella navigazione antica, p. 45 PDF

14 Pages·2005·0.97 MB·Italian
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Preview L. CAVAZZUTI, La pirateria nella navigazione antica, p. 45

LA PIRATERIA NELLA NAVIGAZIONE ANTICA di Luca Cavazzuti «Stranieri, chi siete? e di dove navigate i sentieri dell’acqua? forse per qualche commercio, o andate errando così, senza meta sul mare, come i predo- ni, che errano giocando la vita, danno agli altri portando?» (Omero, Odissea, IX, 252-5, trad. di R. Calzecchi Onesti) La domanda rivolta da un irato Polifemo ad Ulisse e ai suoi compagni, fur- tivamente introdottisi nella sua grotta, mette in risalto come nella remota arcai- cità il limite tra commercio e attività predatorie fosse quanto mai sfumato. Breve tempo dovette passare dall’inizio della navigazione mediterranea nella sua declinazione mercantile, a quando si manifestarono i primi attacchi delle leggere e veloci feluche dei pirati. Va rilevato che in epoca omerica l’andar per mare era prerogativa solo degli aristocratici, che abbandonate provvisoriamente le attività agricole potevano permettersi di armare una nave ed equipaggiarla con i loro compagni e con schiavi. Comportamenti simili erano ben noti ai principi achei, non a caso riuni- ti sotto le mura di Troia per vendicare un atto di rapina. In sostanza chi aveva la possibilità di commerciare o razziare schiavi e bestiame, vino e cereali, per scambiarli soprattutto con metalli e oggetti preziosi, era in grado di affrancarsi da ogni bisogno e pertanto la pirateria non recava vergogna, ma buon nome co- me ricorda Tucidide (Guerra del Peloponneso, I, 5, trad. a cura di F. Ferrari): «Giacchè i Greci anticamente e, tra i barbari, quelli che sono costieri e abi- tano nelle isole, da quando avevano cominciato ad attraversare più frequente- mente il mare per recarsi gli uni dagli altri, si erano dati alla pirateria sotto la guida dei più abili, in cerca di guadagno per sé e di nutrimento per i più debo- li; e, assalendo le città che erano senza mura e disperse in villaggi le saccheg- giavano e così si procuravano la maggior parte dei loro mezzi di sussistenza, senza ancora vergognarsi di questo modo di agire, il quale anzi portava loro perfino una certa gloria. Anche ora lo dimostrano alcuni popoli della terrafer- ma, per i quali è un onore esercitare con successo la pirateria, e lo dimostrano gli antichi poeti nelle domande che senza eccezione facevano rivolgere dapper- tutto a coloro che sbarcavano, vale a dire se erano pirati. Giacché gli uni non respingevano come indegno quel fatto di cui gli altri li interrogavano e gli altri, che avevano interesse a sapere questa cosa, non la biasimavano. Ma anche in terra praticavano reciprocamente la pirateria, e anche ora in molte parti della Grecia si vive alla maniera antica, presso i Locresi Ozoli, gli Etoli, gli Arcaniani e i paesi di terraferma situati da quelle parti. A questi popoli con- tinentali è rimasta, dall’antica abitudine alla pirateria, l’abitudine di andare armati». Il passo di Tucidide mette in luce altre due caratteristiche peculiari del sac- cheggio: pirateria e brigantaggio erano in realtà le due facce di una stessa medaglia, con origini e motivazioni identiche, ma che si esplicavano con tecni- che e mezzi differenti semplicemente perché l’azione avveniva in ambienti diversi, le acque o la terra. Appare quindi logico che altre popolazioni quali per esempio i Liguri o gli Isauri dell’Anatolia sud orientale, abitanti di imper- vie terre montuose e con coste alte a strapiombo sul mare, potessero con la stessa facilità scendere a valle a razziare o, avvistato un lento convoglio com- 45 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Luca Cavazzuti merciale, armare le navi tenute nascoste in grotte e anfratti sicuri, inseguirlo e abbordarlo, per poi rifugiarsi indisturbati sui monti. Altro aspetto di fondamentale importanza era il saccheggio dei centri abita- ti, che procurava ai predoni la maggior fonte di guadagno, in quanto permette- va una retata di esseri umani pronti per essere venduti al miglior offerente nel mercato di schiavi più vicino, o liberati dietro un ingente riscatto. «…I pirati vennero nella nostra terra di notte e portarono via trenta o più giovani ragazze e donne ed altre persone, schiave e libere. Mollarono gli ormeggi alle nostre navi nel porto e, prendendo la nave di Dorieo, fuggirono su di essa con i prigionieri e il bottino…» (Silloge Inscriptionum Graecarum, I, 521). Con queste parole incise nel marmo, la piccola comunità dell’isola di Amorgo onorò due dei prigionieri, che riuscirono a convincere i predoni a trat- tenerli come ostaggi e a liberare gli altri. La legittimità della pirateria preclassica cominciò a vacillare dal V sec. a.C. quando si svilupparono tra Greci pratiche e abitudini rivolte alla tutela e alla sicurezza dell’individuo; anche se tali usanze raggiungeranno solo più tardi e in ambito romano un inquadramento di tipo giuridico furono percepite ed osservate come norme di comportamento collettivo. Da quest’epoca la legitti- mità al saccheggio fu circoscritta ai periodi bellici, con il preciso scopo di osteggiare l’avversario nei suoi interessi economici, ma al di fuori della guerra dichiarata divenne sinonimo di barbaro, alieno alle tradizioni e quindi all’iden- tità etnica dei Greci. Non a caso Tucidide definisce barbari popolazioni del nord della Grecia come gli Etoli dediti alla pirateria ancora in epoca romana, quindi il tema fon- damentale sviluppato dallo stesso autore è che la pirateria trova terreno fertile laddove gli stati e le istituzioni politiche centrali sono deboli o del tutto assen- ti. Concetto che sembra suffragato dalle parole di Teuta, regina degli Illiri, allorché rispondendo agli ambasciatori romani inviati nel 230 a.C. per lamen- tare i continui attacchi alle onerarie italiche dirette verso la Grecia disse: «..che,in ambito pubblico,avrebbe cercato di fare in modo che nessun torto venisse fatto ai Romani dagli Illiri, ma che, nella sfera privata, non era consue- tudine dei re impedire agli Illiri di fare bottino sul mare… (e dopo la franca risposta del più giovane degli ambasciatori)… a tal punto si irritò per quanto era stato detto che, senza curarsi dei diritti fissati tra gli uomini, inviò qualcu- no contro di loro, che stavano salpando a uccidere quell’ambasciatore che si era espresso così liberamente».(Polibio, II, 8, trad. di M. Mari). L’episodio rappresentò il casus belliper lo scoppio della prima guerra illiri- ca (229-228 a.C.), che segnerà il primo coinvolgimento romano nel Mediterra- neo orientale. Nonostante l’intervento, Roma giungerà alla piena funzione di polizia dei mari molto lentamente e solo nella tarda Repubblica, di pari passo con la cre- scita dei propri interessi politici e commerciali verso il Levante, tanto da susci- 46 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale La pirateria nella navigazione antica tare in tempi più antichi le proteste di Alessandro Magno prima e le accuse di Demetrio Poliorcete poi: «Precedentemente gli Anziati possedevano navi e partecipavano con i Tir- reni ad atti di pirateria, sebbene fossero già soggetti ai Romani. È per questo che Alessandro, in epoca anteriore, mandò un’ambasceria per esprimere le sue lamentele e Demetrio poi, rinviando ai Romani i pirati catturati, disse che face- va loro il favore di rimandare i prigionieri per il legame di parentela con i Greci, ma che non era cosa dignitosa che gli stessi uomini fossero al comando dell’Italia e intanto inviassero bande di pirati e che, avendo costruito nel Foro un tempio ai Dioscuri, onorassero quelli che tutti chiamano Salvatori, ma poi mandassero in Grecia, la patria dei Dioscuri, gente che andava lì per depreda- re. I Romani così cessarono da questa attività». Le parole di Strabone (Geografia, V,3,5, trad. di A.M. Biraschi) mettono in evidenza un atteggiamento non molto dissimile da quello di Teuta, anche se la reazione romana fu decisamente diversa: quantomeno gli ambasciatori non furono trucidati. D’altra parte Plutarco nella Vita di Pompeo (cap. 24) , ricorda come ancora tra II e I sec. a.C. ci fossero personaggi di illustri famiglie impli- cati nei traffici della pirateria; infatti enormi guadagni potevano scaturire da complicità di vario genere: non solo la diretta partecipazione ai raids, ma anche il riciclaggio e la rivendita di mercanzie rubate, magari frodando le com- pagnie assicurative o più semplicemente la vendita d’informazioni preziose. Il fenomeno della pirateria era quindi intimamente legato ai traffici com- merciali e appariva abbastanza generalizzato in tutto il bacino del Mediterra- neo. Ad Oriente oltre a Illiri, Etoli e Fenici operavano i Cretesi, provetti navi- gatori e famosi arcieri: presero varie località delle Sporadi e controllavano anche capo Malea, all’estremità meridionale del Peloponneso; di conseguenza costringevano le onerarie, che viaggiavano fra l’Italia e la Grecia, a mantenersi al largo e possibilmente scortate da navi armate. A Occidente la testimonianza di Strabone ricordava gli Anziati e i Tirreni; quest’ultimi erano a tal punto famosi nell’antichità che il loro nome era diven- tato leggendario sinonimo di pirati. Nel settimo degli Inni Omerici si narra il mito di Dioniso rapito dai pirati Tirreni, i quali, credutolo figlio di un re per la sua bellezza, lo catturarono e lo imbarcarono sul loro vascello con l’intenzione di venderlo come schiavo; ma ben presto dalla nave cominciò a zampillare vino che profumava d’ambrosia, sulla sommità della vela apparvero racemi di vite da cui pendevano ricchi grappoli d’uva, mentre una rigogliosa edera ador- na di fiori avvolgeva l’albero maestro e gli scalmi erano tutti inghirlandati. I pirati sbalorditi cercarono di guadagnare la costa, ma il giovinetto dalle chiome turchine si trasformò in un leone dall’aspetto terribile, che si avventò sul comandante e lo ghermì. Gli altri atterriti si gettarono in mare, ma furono trasformati dal dio in delfini; solo il pilota che aveva riconosciuto la natura divina del prigioniero fu risparmiato e ricompensato. Un tale incantesimo portò i delfini ad essere amici degli uomini e a soccor- rerli nei naufragi, poiché dietro il loro aspetto si nasconderebbero i pirati pen- titi. Questo racconto era celeberrimo nell’antichità e ha lasciato varie tracce 47 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Luca Cavazzuti nella decorazione ceramica, come ad esem- pio la bella coppa dipinta da Exékias, dove un Dioniso regale riposa sulla nave dei pirati adorna di grappoli odorosi, mentre i malca- pitati nuotano tra i flutti sotto forma di delfi- ni (fig. 1). Secondo gli storici moderni i Tirreni della leggenda non rappresenterebbero però gli Etruschi, bensì i loro avi dell’Egeo, origi- nari dell’isola di Lemno; in ogni caso sono documentate storicamente anche azioni pira- tesche dei Tirreni d’occidente, sia nel Tirre- no che in Adriatico. 1. - Kylix attica a figure nere Nel 339 a.C. Timoleonte di Siracusa sorprese e mise a morte il potente pira- dipinta da Exékias (550-530 a. C.). Staatliche Antikensammlungen, ta etrusco Postumio comandante di una flotta forte di ben dodici vascelli; l’ori- Munich. gine di Postumio va ricercata nell’ambito dell’Etruria meridionale, probabil- mente a Cerveteri dove è noto il corrispondente gentilizio etrusco. L’anno 2. - Stele 10 del sepolcreto dei Giardini Margherita. Museo Civi- seguente Roma conquistò la città volsca di Anzio, e manifestò la vittoria ador- co Archelogico, Bologna. nando la tribuna degli oratori nel Foro con sei rostri strappati alle navi dei pirati, ma la collaborazione tra Anziati ed Etruschi conti- nuerà con l’utilizzo della base navale alla foce dell’Astura. Sul versante adriatico è nota l’opera degli abitanti di Spina durante il IV sec. in antitesi con la politica espansionistica di Dionigi di Siracusa prima e di Atene in seguito, ma anche in tempi precedenti, quando i rapporti commerciali tra le due etnie trovavano nel- l’emporio di Spina uno dei punti di contatto e scambio commerciale, gli etruschi, proba- bilmente sotto l’orchestrazione di Felsina, conducevano operazioni di corsa sul mare contro e nello stesso tempo a difesa dalle popolazioni rivierasche dalmate. In questo senso va interpretata la stele di Vel Kaikna, proveniente dalla necropoli dei Giardini Margherita a Bologna (fig. 2). La rappresentazione sul lato principale restitui- sce una nave da guerra dall’alta prua, armata con il rostro e azionata da due file di remato- ri, di cui sono visibili le teste. Sul ponte compaiono il nocchiero, che guida l’imbar- cazione seduto a poppa, mentre a prua si nota un personaggio di vedetta e al centro due armati con lancia e corazza. L’evidenza 48 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale La pirateria nella navigazione antica figurativa induce ad attribuire a Kaikna un ruolo politico-militare, probabil- mente quello di navarca della flotta etrusca a Spina. D’altra parte anche Strabone (Geografia, V,1,7) ricorda quanto potente sul mare fosse stata la città di Spina in tempi più antichi a quelli da lui vissuti, tanto da offrire un tesoro nel santuario di Delfi, e in un altro passo (III, 16,120) specifica che il tesoro conteneva i frutti delle prede di guerra. Altre feluche incrociavano sulle acque tirreniche. Nel 181 a.C. il console L. Emilio Paolo guidò una spedizione a tenaglia per terra e per mare contro i Liguri di ponente, in particolare Ingauni e gli Intemeli, che si davano al brigan- taggio sui monti e pirateggiavano sul mare sino alle colonne d’Ercole. Prese tra due fuochi le tribù liguri si arresero: furono catturate trentadue navi corsare con i comandanti e i piloti. Livio (XL, 28; 34) ricorda che nel trionfo celebrato dal console l’anno seguente vennero esposti molti principi dei Liguri, probabil- mente gli esponenti di questa aristocrazia di guerrieri e armatori che mal sotto- stava ai trattati stipulati con i Romani all’indomani del conflitto annibalico. Esistevano poi gruppi forse meno organizzati di pescatori-predoni, i lestai menzionati da Cassio Dione (LV,28), che operavano lungo le coste della Sarde- gna; ma per sedare i disordini da loro fomentati fu necessario sia l’intervento della flotta che quello dell’esercito. Per non sottostare al giogo romano alcuni gruppi fuggirono verso le Baleari dove trovarono l’alleanza dei locali abitanti, famosi ed esperti frombolieri. Dall’arcipelago iberico i rivoltosi sarebbero stati in grado sia di fomentare disordini in Sardegna e in Gallia forzando i blocchi navali, sia di razziare le navi che viaggiavano tra l’Italia, la Gallia e la Spagna, profittando del gran numero di insenature e porti naturali offerti dalle coste baleariche. Come si è mostrato sin ora la pirateria era un fenomeno sviluppato in varie zone, ma comunque con una sfera d’azione di breve o medio raggio; la situa- zione si modificò radicalmente a partire dalla metà del II sec. a.C.: con la crisi del regno dei Seleucidi e il decadere della potenza navale di Rodi, la recrude- scenza degli attacchi proliferò in ogni parte del Mediterraneo. D’altra parte Roma, divenuta ora potenza di primo piano in Oriente con le vittorie su i regni ellenistici, era restia nel mantenere una grande flotta permanente ed anzi aveva creato sull’isola di Delo un grande porto franco dove non si facevano troppe domande circa la provenienza delle merci o degli schiavi; schiavi che in gran parte soddisfacevano il bisogno di manodopera romana. Sulla costa meridionale dell’Anatolia, la Cilicia era il centro propulsore della pirateria, grazie anche ad un habitat ideale costituito da un’estensione di montagne scoscese, che si gettano in mare con una successione di promontori a precipizio e di profondi fiordi; così protetti alle spalle dai monti contro qual- siasi attacco di forze terrestri, potevano sfruttare la varietà di ridossi e di covi ben nascosti sulla costa per sferrare i loro attacchi. I Cilici stabilirono il loro quartier generale nella roccaforte di Coracesium, odierna Alanya, una specie di Gibilterra in miniatura, appolaiata su una roccia a strapiombo sul mare e unita alla terraferma solo da uno stretto istmo; ma tutta la costa era disseminata di piazzeforti secondarie per il ricovero delle navi e di torri per l’avvistamento e le segnalazioni. 49 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Luca Cavazzuti Quando poi nel 88 a.C. Mitridate VI Eupatore cominciò la sua rivolta con- tro Roma, i pirati divennero il braccio armato del re sui mari mettendo a sua disposizione la migliore flotta di tutto il Mediterraneo. Essi si consideravano appartenenti ad una solidale comunità più grande e relativamente unita, nella quale confluivano gruppi di varie etnie quali Siriani, Panfilii, Ciprioti, Pontici e di altre zone del Mediterraneo orientale. Secondo Appiano (Guerre Mitrida- tiche, 92) lo sfruttamento attuato dai pubblicani romani ai danni della Provin- cia d’Asia generò profondi sentimenti antiromani, che Mitridate fomentò per i suoi scopi; così i nemici di Roma divennero gli alleati naturali dei pirati, che si spinsero sino nelle acque delle Baleari in aiuto di un altro ribelle: Sertorio. In sostanza si può parlare di una vera e propria “internazionalizzazione” del fenomeno piratico. Le testimonianze lasciateci dagli autori antichi mostrano una situazione di totale terrore, che pervadeva ogni zona, con il mare in com- pleto dominio dei predoni: queste le parole di Plutarco (Vita di Pompeo, 24, trad. di A. Marcone): «L’attività dei pirati prese le prime mosse dalla Cilicia…[e] trovò nuova conferma e nuova convinzione nel corso della guerra contro Mitridate, al cui servizio essa si era posta. Poi, durante le guerre civili, quando i Romani, prese- ro a farsi la guerra gli uni contro gli altri alle porte di Roma, il mare, lasciato senza sorveglianza, cominciò ad attirare e a spingere i pirati sempre più lonta- no, tanto che si misero ad attaccare non solo le imbarcazioni, ma anche le isole e le città costiere….In più luoghi vi erano approdi sicuri per le navi corsare, posti fortificati atti a dare segnalazioni, squadre d’assalto che non solo per il valore degli equipaggi, la capacità dei nocchieri, la rapidità e la leggerezza delle imbarcazioni, erano particolarmente adatte al loro compito, ma offende- vano per l’eccesso della loro magnificenza più di quanto non destassero timo- re. Le prue dorate, i tappeti di porpora e i remi d’argento davano l’impressione che le loro malefatte li riempissero d’orgoglio e di soddisfazione….Le navi dei pirati erano più di mille e le città di cui si impadronirono furono più di quattro- cento. Tra i santuari, sino ad allora sacri e inviolabili, invasero e saccheggia- rono quelli di Claro, Didima, e Samotracia, a Ermione il tempio della dea Cto- nia e quello di Asclepio a Epidauro, quelli di Nettuno all’Istmo, a Tenaro e a Calauria, quelli di Apollo ad Azio e a Leucade, quelli di Giunone a Samo, ad Argo e a Lacinio… Dopo aver recato moltissimi oltraggi ai Romani, arrivaro- no a praticare, partendo dal mare, il brigantaggio anche sulle strade e sulle proprietà vicine. Una volta rapirono persino due pretori, Sestilio e Bellieno, nelle loro vesti ornate di porpora e li portarono via insieme ai loro servitori e littori. Si impadronirono anche della figlia di Antonio, un uomo che aveva avuto l’onore del trionfo, mentre si recava in campagna e non la rilasciarono se non dietro un forte riscatto». Un fenomeno di tale portata non aveva più solo implicazioni commerciali, ma anche politiche e sociali: la stessa Roma, si trovava sull’orlo di una nefasta carestia, dal momento che gli approvvigionamenti non giungevano più nel porto di Ostia e addirittura una flotta intera fu distrutta dai pirati all’interno del porto; a questo punto l’intervento romano, guidato da Gn. Pompeo, fu tanto veloce quanto efficace; ancora Plutarco (Vita di Pompeo, 25-28, trad. di A. Marcone): 50 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale La pirateria nella navigazione antica «25. …Allora Gabinio, uno degli intimi di Pompeo, propose una legge che gli con- feriva non dico il comando della flotta, ma addirittura un potere assoluto e universa- le…[con una] autorità sul mare sino alle Colonne d’Ercole e dovunque sulla terra- ferma, entro un raggio di quattrocento stadi dal mare. Pochi erano, allora, i terri- tori dei Romani che si trovassero fuori di questo ambito, che per altro comprendeva i popoli più importanti e i re più potenti….Furono equipaggiate per lui cin- quecento navi e raccolti centoventimila fanti e cinquemila cavalieri. Scelse all’in- terno del senato ventiquattro luogotenenti e generali, e si affiancò due questori… 3. - Kylix attica a figure nere (c. 26. …[Pompeo] provvide a dividere l’intera estensione del mare Mediterra- 510 a.C.). British Museum, Lon- neo in tredici settori, affidandone ciascuno a una flotta di una determinata don; (da Casson 1995). entità con un luogotenente, così che, grazie a questa flotta disseminata contem- poraneamente ovunque, poteva accerchiare i gruppi di pirati che incontrava e dare loro la caccia fino a respingerli verso terra. Poiché quelli che riuscivano a disperdersi tempestivamente e a sfuggirgli andavano a rifugiarsi, convergen- do da tutte le parti, in Cilicia, come api in un alveare, si apprestò lui stesso a inseguirli con sessanta delle sue navi migliori. Ma non volle dirigersi contro di loro prima di aver liberato dai pirati che li infestavano, in soli quaranta giorni, il mare Tirreno, il Libico, il mare di Sardegna, di Corsica e di Sicilia… 28. Tuttavia la maggior parte e i più potenti dei pirati avevano messo al sicuro le loro famiglie e le loro ricchezze, insieme alla massa di coloro che non servivano alla guerra, nei castelli e nelle piazzeforti del Tauro e, imbarcatisi sulle navi, si accingevano a fronteggiare l’arrivo di Pompeo nei pressi di Cora- cesio, in Cilicia; ingaggiata battaglia furono sconfitti e quindi assediati… si arresero, consegnando le città e le isole di cui si erano impadroniti e che ave- vano fortificato… La guerra fu così conclusa: i pirati furono cacciati ovunque dal mare in non più di tre mesi, e Pompeo catturò, tra le molte altre, novanta navi dotate di speroni di bronzo». In totale furono necessari poco più di sei mesi per preparare e portare a compimento la guerra, tra la fine del dell’inverno del 67 e l’estate del 66 a.C. Un fenomeno così vasto, che ha lasciato tracce voluminose nelle parole degli autori antichi, non ha prodotto però la stessa mole di testimonianze archeologiche. Alcune le possiamo riscontrare nell’iconografia della ceramica antica, in particolare la famosa coppa attica a vernice nera B 436 del British Museum, dipinta intorno al 510 a.C., dove assistiamo all’attacco di una nave da guerra ai danni di un’imbarcazione commerciale (fig. 3). Nella prima scena si nota la feluca pirata, bassa e filante sull’acqua, con la prua a testa di cinghiale, che termina nel terribile muso-sperone. Tutti i rema- tori sono seduti ai loro banchi, intenti nello spasimo della voga per lanciare la nave alla massima velocità e raggiungere la preda: un lento e ingombrante naviglio commerciale, che procede a velatura ridotta. Nella seconda immagine il mercantile ha invece la grande vela quadrata completamente spiegata nell’e- stremo tentativo di fuga, mentre gli assalitori non sono più al loro posto, alcuni 51 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Luca Cavazzuti li vediamo ora in piedi, intenti ad armeggiare con la velatura e l’albero mae- stro; forse hanno desistito dall’attacco? L’insieme della rappresentazione è stata convincentemente spiegata da L. Casson: in combattimento una nave doveva muoversi con molta più agilità rispetto alla navigazione di crociera, per poter sfruttare appieno le potenzialità offensive del rostro, quindi era insuffi- ciente, per non dire pericoloso, affidarsi alla sola forza del vento. In genere un comandante, che si accingeva all’attacco, ordinava di abbassare albero e vela- tura per abbandonarli sulla spiaggia, poiché a bordo non c’era posto per alber- gare simili attrezzature. Per soddisfare le proprie esigenze, i pirati idearono allora una singolare soluzione tecnica, che sarà ripresa in seguito anche dalla regolare marina da 4. - Nike di Samotracia (200-180 guerra: trasformarono la classica galea a due banchi di rematori nella hemiolia, a.C.). Musée du Louvre, Paris; (da Pomey 1997). la “uno e mezzo”. Questo tipo di nave permetteva loro di navigare durante l’inseguimento sia con le vele che con la propulsione a remi, ma quando la preda era raggiunta e l’azione d’ab- bordaggio pronta, metà dei rematori dei banchi superiori, quelli tra l’albero e la poppa, abbandonavano il loro posto e fissavano i remi; così non solo si lasciava un ampio spa- zio dove riporre albero e velatura, ma una dozzina di uomini in più era pronta per l’abbordaggio. È questo il momento “fotografato” nella seconda scena in cui si vedono alcuni dei pirati in piedi, intenti nell’imbracare le vele e nell’abbattere l’albero, pronti all’attacco. Se confrontiamo la rappresentazione dell’he- miolia nelle due immagini, noteremo che nella seconda i remi della parte di poppa sono disposti su un’unica linea e non su due come nella prima immagine, proprio perché quelli arretrati dei banchi superiori sono stati tolti. La grande nemica della hemiolia era la triemiolia ricordata in molte fonti antiche; creata nei cantieri di Rodi proprio per dare la caccia alle navi pirata, rappresentava uno sviluppo della hemiolia come indica il nome stesso. In realtà non è ancora chiaro quale fosse la disposizione dei rematori, cioè se si trattasse di una trireme che, accin- gendosi all’abbordaggio, si trasformava in una due e mezzo, oppure una soluzione sempre di uno e mezzo, ma con due rematori per ogni livello; in ogni caso il sistema dell’abbattimento dell’albero rimaneva analogo a quello utilizzato dai pirati. Molti degli studiosi moderni hanno riconosciuto il tipo di nave rodia in alcuni monumenti, dei quali il più famo- so è indubbiamente la cosiddetta Nike di Samotracia. Si tratta di una statua di vittoria alata montata sulla prua di una nave da guerra, una triemioliaappunto, che Demetrio Poliorcete offrì al santuario panellenico dopo la vittoria di Salamina di Cipro nel 306 a.C. sui Tolomei (fig. 4). 52 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale La pirateria nella navigazione antica Un valido supporto per lo studio della pirateria può essere ricercato anche nel- l’archeologia subacquea, che, con uno sviluppo considere- 5. - Elmo romano concrezionato vole negli ultimi quarant’anni, ha permesso di far luce su vari aspetti della con parte di calotta cranica dal re- litto di Spargi (prima metà I sec. navigazione antica, dal commercio alle tecniche di costruzione navale e più in a.C.). Museo archeologico navale generale sul rapporto tra l’uomo e il mare. Come è noto i reperti che abitual- “Nino Lamboglia”, Isola della Maddalena (SS); (foto Sopr. Arch. mente si rinvengono sui relitti di navi antiche sono quelli più resistenti, per Sassari e Nuoro). loro natura, all’azione degli agenti marini, in particolar modo: anfore, cerami- che, pietre, marmi e alcuni metalli. Molto rari sono anche gli oggetti di uso personale ed eccezionali sono i resti umani; nonostante ciò sin dall’inizio delle ricerche sottomarine furono ritrovate su alcuni relitti delle armi: elmi, spade, giavellotti e corazze il cui impiego in base alla funzione commerciale delle navi, rimaneva oscuro. D’altra parte in alcune situazioni i reperti si prestano a spiegazioni anche contraddittorie, ad esempio la presenza di una preziosa corazza anatomica di I sec. d.C. sul relitto B della Cueva del Jarro in Andalu- sia, potrebbe segnalare la presenza a bordo di un alto ufficiale in trasferimento o fare parte del carico; però nonostante casi particolari sembra evidente un filo conduttore che lega i ritrovamenti. Già all’inizio degli anni Ottanta P.A. Gianfrotta pubblicava un lavoro, che metteva in evidenza la pertinenza delle armi ai marinai stessi o ad un gruppo di armati presenti a bordo con lo specifico compito di difendere i convogli. D’altra parte non mancano certo le testimonianze di autori antichi quali 6.- Relitto di Spargi in corso di Polluce (VII,139) o passi del Digesto (IV,9,1,3), che parlano di personale di scavo (prima metà I sec. a.C.); (da Pallarés, «Bollettino d’arte» sup- bordo con mansioni di vigilanza come i nauphilakeso i dietariidi età tardoan- pl. al n. 37-38, 1986). tica; o di vere e proprie scor- te, sia in mare per difendere ad esempio i preziosi riforni- menti granari dall’Egitto o le navi mercantili che veleggia- vano nel Mar Rosso, sia in terra per le carovane che attraversavano i deserti. In questa ottica il recupe- ro più sorprendente è stato quello di un elmo concrezio- nato con parte di una calotta cranica, su una nave oneraria naufragata alla fine del II sec. a.C vicino all’isola di Spargi, nell’arcipelago della Maddalena (fig. 5). L’imbar- cazione trasportava un carico composto essenzialmente di anfore contenenti vino dell’I- 53 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Luca Cavazzuti talia meridionale e ceramica a vernice nera e di altro tipo (fig. 6). Si sono rin- venuti anche i frammenti di un secondo elmo, una punta di lancia e alcune bor- chie appartenenti probabilmente a una corazza; ma è soprattutto la presenza del cranio umano con il suo elmo che ha fornito un’indicazione precisa, grazie alla quale possiamo ipotizzare che l’imbarcazione sia naufragata in seguito ad un combattimento, considerato che un pesante elmo bronzeo non è un oggetto comunemente indossato durante la navigazione per ripararsi dalla pioggia e tanto meno dal sole. Potremmo quindi ipotizzare una scena simile a quella dipinta sulla coppa del British Museum sopra descritta: la nave dopo aver fatto rotta lungo le coste tirreniche dell’Italia centrale stava entrando nelle bocche di Bonifacio, per poi risalire la costa corsa sino alla Provenza o per proseguire verso la penisola ibe- rica, quando fu attaccata da un gruppo di pirati sardi, così a bordo si ingaggiò un cruento combattimento, seguito dall’affondamento della nave. L’uomo con l’elmo ne sarebbe appunto rimasto vittima, anche se rimane difficile capire se in qualità di membro dell’equipaggio, l’esito negativo lo renderebbe più proba- bile, o al contrario come assalitore. Anche gli evidenti segni d’urto riscontrati in alcune parti dello scafo, diffi- cilmente imputabili a ostacoli naturali, lascerebbero pensare che la nave di Spargi sia stata abbordata e speronata. L’affondamento può essere considerato una precauzione dei pirati per eliminare il corpo del reato, dopo essersi impos- sessati degli oggetti più preziosi e facilmente smerciabili, e aver deciso la sorte dei prigionieri: soppressione, rapimento per ottenere un riscatto o vendita come schiavi. Una situazione simile è ipotizzabile anche per il relitto di Kyrenia. Otto punte di lancia e alcune punte di freccia vennero riconosciute, dopo accurati esami, all’interno di conglomerati ferrosi ritrovati sull’imbarcazione affondata nelle acque cipriote alla fine del IV sec. a.C.; in molte delle armi si riscontraro- no tracce di lacci in cuoio che passavano anche sotto lo scafo. Così si è pensa- to che le punte si fossero incastrate nella fiancata della nave prima dell’affon- damento. La nave dopo l’inseguimento era stata colpita dai predoni con lance legate al guinzaglio per facilitare le operazioni di abbordaggio. È interessante che un naufragio reso sospetto da tali circostanze sia avvenu- to a Cipro, proprio di fronte alle coste della Cilicia. Scenari simili dovevano essere molto frequenti, tanto che i romanzi e i rac- conti di avventura dell’antichità traboccano di esempi. Nel romanzo di Achille Tazio Leucippe e Clitofonte (III, 20), la nave assalita viene colata a picco e i naufraghi uccisi. Nelle Etiopichedi Eliodoro (I, 3), i pirati si limitano a portare via dalla nave catturata oro, argento, pietre preziose e drappi di seta trascuran- do il resto. Sempre nelle Etiopiche (V, 23-27) dopo essersi impossessati di una nave mercantile, i predoni si sbarazzano della loro imbarcazione per non desta- re sospetti nei porti dove intendevano recarsi a vendere il bottino sotto le men- tite spoglie di innocenti marinai. Nei Racconti d’Efeso (I, 13-14), i pirati s’im- padroniscono della nave sulla quale viaggiano i protagonisti, trasbordano sol- tanto la parte più preziosa del carico con pochi ostaggi e poi bruciano la nave. L’elmo di Spargi è sicuramente il ritrovamento più significativo, proprio 54 © 2004 Casa Editrice Edipuglia, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

Description:
corazza anatomica di I sec. P. Brulé, La piraterie crétoise hellénistique, Paris 1978. Y. Garlan, Signification historique de la piraterie grec-.
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