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L' Amore Fatale PDF

221 Pages·2000·0.82 MB·Italian
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Ian McEwan L’amore fatale Traduzione di Susanna Basso Titolo originale: Enduring Love Capitolo primo L’inizio è facile da individuare. Eravamo al sole, vicino a un cerro che ci proteggeva in parte da forti raffiche di vento. Io stavo inginocchiato sull’erba con un cavatappi in mano, e Clarissa mi porgeva la bottiglia - un Daumas Gassac del 1987. L’istante fu quello, quella la bandierina sulla mappa del tempo: tesi la mano e, nel momento in cui il collo freddo e la stagnola nera mi sfioravano la pelle, udimmo le grida di un uomo. Ci voltammo a guardare dall’altra parte del prato, e intuimmo il pericolo. L’attimo dopo, correvo in quella direzione. Si trattò di un rivolgimento assoluto: non ricordo di aver lasciato cadere il cavatappi, né di essermi alzato, di aver preso una decisione, né di aver sentito la raccomandazione che Clarissa mi rivolse. Che idiozia, lanciarmi dentro questa storia e i suoi labirinti, allontanandomi di volata dalla nostra felicità, tra l’erba tenera di primavera accanto al cerro. Un altro grido e l’urlo del bambino, affievolito dal vento che spazzava le chiome alte degli alberi lungo le siepi. Accelerai la mia corsa. A quel punto, improvvisamente, da angolazioni diverse del prato, altri quattro uomini stavano convergendo sul luogo dell’incidente, correndo come me. È come se assistessi alla scena da un’altezza di cinquanta metri, con gli occhi della poiana che poco prima avevamo osservato volteggiare ad ali spiegate e tuffarsi nel tumulto delle correnti: cinque uomini in corsa silenziosa diretti al centro di un prato di una quarantina di ettari. Io arrivavo da sud- est, con il vento a favore. Circa duecento metri alla mia sinistra correvano affiancati due individui. Erano Joseph Lacey e Toby Greene, braccianti agricoli che stavano riparando il lato meridionale dello steccato, là dove costeggia la strada. Più o meno alla stessa distanza da loro, veniva John Logan la cui vettura era parcheggiata ai margini del prato con la portiera, o le portiere, spalancate. Sapendo ciò che so ora, è curioso ricordare la figura di Jed Parry dritta di fronte a me: è uscito da un filare di faggi e avanza contro vento dal lato opposto del prato a una distanza di cinquecento metri. Agli occhi della poiana, Parry e io eravamo due sagome minuscole; con le nostre camicie bianchissime sullo sfondo verde, ci correvamo incontro come due amanti, ignari della sofferenza che da quel groviglio 2 sarebbe nata. Mi precipitavo verso un essere fuori del comune ma anche adesso, dopo tutto quel che è accaduto, sono certo che in quel momento, prima cioè che le complicate coincidenze responsabili del nostro incontro su quel prato si allineassero per darsi forma compiuta, la straordinarietà ancora non esisteva. Il caso che avrebbe scardinato le nostre vite era a pochi minuti da noi. A mascherarne l’enormità contribuiva non solo la barriera del tempo, ma anche il colosso al centro del prato con la sua fenomenale forza d’attrazione in grado di scuotere le resistenze meschine dell’uomo. Cosa faceva Clarissa intanto? Raccontò poi che camminava spedita verso il centro del prato. Non so come riuscisse a resistere all’impulso di correre. Quando si verificò l’evento che sto per descrivere - la caduta - ci aveva quasi raggiunti e occupava un ottimo punto di osservazione, libera da un diretto coinvolgimento, come da corde e urla, e dalla nostra fatale assenza di cooperazione. Quanto descrivo risente di ciò che vide la stessa Clarissa, di ciò che ci ripetemmo nell’ossessiva analisi a posteriori. L’erba del prato avrebbe subito un primo taglio nel mese di maggio, e la fienagione doveva favorire la nuova crescita, preparare al secondo taglio, come l’evento che avrebbe avuto su di noi conseguenze di irrevocabile crescita. Divago, rimando l’informazione. Mi attardo nell’attimo precedente perché fino a quel punto erano ancora possibili esiti differenti; il convergere di sei persone su una distesa di verde conserva una geometria confortante dalla prospettiva di una poiana; ha la riconoscibile limitatezza di un tavolo da biliardo. Le condizioni iniziali, la forza e la sua direzione, bastano a definire ogni traiettoria, ogni angolo di collisione e ritorno, mentre una luce gloriosa sovrasta l’intero prato, il tappeto verde e i corpi in movimento, ammantandoli di una chiarezza rassicurante. Mentre ci correvamo incontro, prima del contatto, credo ci trovassimo in una sorta di grazia matematica. Indugio sulla nostra disposizione spaziale, sulle distanze relative, sui punti cardinali di provenienza, perché rispetto ai fatti accaduti, quello fu l’ultimo istante in cui compresi qualcosa chiaramente. Verso che cosa stavamo correndo? Credo che nessuno di noi lo saprà mai fino in fondo. A livello superficiale tuttavia la risposta c’è; correvamo verso un pallone aerostatico. Non di quelli che sfruttano le semplici proprietà del calore, però, questo era un pallone enorme pieno di elio, gas elementare forgiato dall’idrogeno nella fornace nucleare delle stelle, il primo passo nella generazione della 3 molteplicità e varietà della materia nell’universo, compresi noi stessi e tutti i nostri pensieri. Correvamo incontro a una catastrofe, a sua volta una specie di fornace, nel cui calore identità e destini si sarebbero combinati in forme diverse. Alla base del pallone stava una cesta con dentro un bambino, mentre lì accanto, aggrappato a una corda, era un uomo in disperato bisogno di aiuto. Pallone a parte, quella giornata si sarebbe comunque impressa nella memoria, sebbene nel più piacevole dei modi, giacché ci ritrovavamo dopo una separazione di sei settimane, la più lunga nei sette anni di vita con Clarissa. Sulla strada per Heathrow feci una deviazione a Covent Garden e trovai uh parcheggio quasi regolare proprio davanti a Carluccio’s. Entrai e misi insieme un picnic il cui pezzo forte sarebbe stato una gran mozzarella che la commessa pescò in un recipiente di terracotta servendosi di una pinza di legno. Comprai anche olive nere, insalata mista e focaccia. Poi mi precipitai su Long Acre, da Bertram Rota, per ritirare il regalo di compleanno di Clarissa. Se si escludono l’appartamento e la nostra automobile, era l’oggetto in assoluto più costoso che avessi mai acquistato. La rarità di quel libriccino pareva irradiare un calore che percepivo anche attraverso la spessa carta marrone del pacco, mentre tornavo sui miei passi alla macchina. Quaranta minuti più tardi passavo in rassegna gli schermi dei voli in arrivo. L’aereo da Boston era appena atterrato e calcolai che avrei avuto una mezz’ora d’attesa. Se mai qualcuno volesse conferma dell’assunto darwiniano riguardo all’universalità espressiva dell’emozione, scritta nel codice genetico degli esseri umani, allora dovrebbero bastargli pochi minuti al terminal quattro di Heathrow, quello degli arrivi. Vidi la stessa gioia, lo stesso sorriso irreprimibile sulla faccia di una robusta nigeriana, di una nonnetta scozzese dal labbro sottile e di un impeccabile pallido businessman giapponese nell’atto di spingere i rispettivi carrelli e di riconoscere qualcuno tra la folla in attesa. Se è vero che osservare la varietà umana può essere fonte di piacere, lo stesso vale anche per l’umana uguaglianza. Non facevo che sentire la stessa nota calante del mezzo singhiozzo che spesso accompagnava un nome, mentre due persone si facevano largo per abbracciarsi. Cos’era? Una seconda maggiore, una terza minore o una via di mezzo? Pa-pà! Jolan-da! Ho-bi! Nz-e! D’altra parte, esisteva anche la cantilena ascendente rivolta a bambini dall’aria serissima e diffidente da padri e da nonni 4 assenti da molto tempo, tutti a blandire e implorare un immediato compenso d’amore. Hann-ah? Tom-my? Mi vuoi? La varietà stava semmai nei singoli drammi: padre e figlio adolescente, turchi probabilmente, si stringevano in un lungo abbraccio, forse di perdono, o di lutto, dimentichi dell’ingorgo di carrelli intorno a loro; due gemelle identiche, sulla cinquantina, si salutavano con evidente antipatia sfiorandosi appena le mani e baciandosi a fior di pelle; un bambino americano, issato sulle spalle di un padre che non riconosceva, urlava per farsi mettere giù, e faceva saltare i nervi alla madre esausta. Ma per lo più erano abbracci e sorrisi, e nel giro di trentacinque minuti assistei a più di cinquanta lieti fini teatrali, sempre meno riusciti, finché non mi sentii emotivamente stanchissimo e cominciai a sospettare persino della sincerità dei bambini. Mi stavo chiedendo quanto io stesso mi sarei reso plausibile salutando Clarissa, quando mi sentii battere su una spalla: era lei che uscendo non mi aveva visto ed era tornata a cercarmi. Il distacco svanì in un istante e recitai il suo nome, unendomi al coro degli altri. Meno di un’ora dopo avevamo parcheggiato su una strada sterrata che tagliava attraverso un bosco di faggi nelle Chiltern Hills, nei pressi di Christmas Common. Mentre Clarissa si cambiava le scarpe, preparai lo zaino del picnic. Poi ci avviammo sul sentiero sottobraccio, ancora sotto l’effetto gioioso del nostro incontro; quanto di lei mi era ben noto - come le proporzioni e la sensazione della sua mano nella mia, il tono pacato e affettuoso della voce, la pelle chiara e gli occhi verdi di taglio celtico -, assumeva tuttavia un certo non so che di nuovo, si illuminava di una radiosità estranea facendomi tornare alla mente i primi appuntamenti e i mesi del nostro reciproco innamoramento. Oppure vedevo me stesso nei panni di un altro uomo, del mio stesso rivale in amore, venuto a portarmela via. Quando glielo dissi lei rise e commentò che ero lo scemo più complicato del mondo, e fu mentre ci fermavamo per darci un bacio e domandarci a voce alta se non avremmo fatto meglio a rimontare in macchina e andare subito a casa, che scorgemmo tra le foglie nuove degli alberi, il pallone spostarsi come in sogno attraverso la valle boschiva a ovest. Non potevamo vedere né l’uomo né il ragazzo. Ricordo di aver pensato, senza farne parola, che si trattava di un mezzo di trasporto piuttosto insicuro quando, a segnarne la rotta, era il vento più che il 5 pilota. Ma riflettei che forse proprio in quello doveva consistere la natura del divertimento. E l’idea mi svanì di mente all’istante. Attraversammo College Wood diretti a Pishill, fermandoci ad ammirare il verde recente sui faggi. Ogni foglia sembrava accendersi di una luminosità interiore. Parlammo della purezza del colore della foglia di faggio in primavera e di come osservarlo purificasse i pensieri. Mentre passeggiavamo nel bosco, il vento prese ad alzarsi facendo cigolare i rami come ingranaggi arrugginiti. Conoscevamo bene la strada. Era senza dubbio il posto più bello a un’ora di viaggio dal centro di Londra. Amavo le ondeggianti distese dei campi disseminati di gesso e di selce, e quei sentieri che li tagliavano per sprofondare nell’ombra dei faggi, fino a valloni umidi e incolti dove spesse coltri di muschio cangiante foderavano i tronchi morti degli alberi e dove, di quando in quando, non era impossibile imbattersi in un muntjak che rovistava nel sottobosco. Per quasi tutto il tempo della nostra passeggiata parlammo della ricerca di Clarissa: John Keats morì a Roma nell’appartamento ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti che divideva con l’amico Joseph Severn. Era ipotizzabile l’esistenza di tre o quattro sue lettere ancora non pubblicate? Si poteva supporre che una avesse come destinatario Fanny Brawne? Clarissa aveva buone ragioni per pensarlo e aveva perciò trascorso una parte del suo semestre sabbatico viaggiando tra la Spagna e il Portogallo, e girando per le case note a Fanny Brawne e a Fanny, la sorella di Keats. Adesso era di ritorno da Boston dove aveva lavorato alla Houghton Library di Harvard, cercando di rintracciare la corrispondenza di certi lontani parenti di Severn. L’ultima lettera a noi pervenuta, Keats la scrisse quasi tre mesi prima di morire, al vecchio amico, Charles Brown. Il tono dello scritto è piuttosto solenne e propone, secondo lo stile tipico dell’autore, una geniale definizione della creazione artistica inserita quasi tra parentesi: «La coscienza del contrasto, la percezione delle luci e delle ombre, tutto quell’insieme di nozioni (nel senso primitivo) necessarie alla poesia, sono i grandi nemici della guarigione del mio stomaco». È quella che si conclude con il celebre commiato, così straziante per reticenza e per cortesia: «Riesco a malapena a dirti addio, anche per lettera. Sono stato sempre impacciato nel prendere congedo. Dio ti benedica! John Keats». Ma tutte le biografie sono concordi nell’affermare che al momento di redigere questa lettera, Keats stava attraversando un periodo di remissione dal male, che perdurò una decina di giorni ancora. Visitò Villa 6 Borghese e passeggiò in via del Corso. Ascoltò con piacere Haydn suonato da Severn, scaraventò con furia la cena fuori dalla finestra per protestare contro la qualità scadente della cucina, e pensò addirittura di dare inizio alla stesura di una poesia. Ipotizzando l’esistenza di lettere risalenti a quei giorni, quale interesse potrebbe aver avuto Severn, e più ancora, Brown, a sopprimerle? Clarissa riteneva di aver trovato la risposta al quesito in un paio di riferimenti rinvenuti nella corrispondenza tra lontani parenti di Brown nel corso del decennio 1840, ma le occorrevano altre prove, fonti diverse. - Sapeva che non avrebbe più visto Fanny, - diceva Clarissa. - Scrisse a Brown dicendogli che la sola vista del nome di lei gli sarebbe stata intollerabile. Ma non smise mai di pensarla. In quei giorni di dicembre era abbastanza forte, e l’amava moltissimo. È facile immaginare che abbia scritto una lettera anche se non intendeva spedirla. Le strinsi più forte la mano senza parlare. Di Keats e della sua poesia sapevo poco, ma ritenevo possibile che, date le condizioni disperate in cui versava, non avesse voluto scriverle proprio perché l’amava moltissimo. Di recente avevo pensato che l’interesse di Clarissa nell’esistenza di quelle ipotetiche lettere avesse qualcosa a che fare con il nostro rapporto, e con la sua convinzione che un amore non può essere perfetto se non trova espressione in forma scritta. Nei mesi successivi al nostro incontro, e prima dell’acquisto dell’appartamento, mi aveva scritto alcune meraviglie, appassionatamente astratte nello svisceramento di ciò che faceva del nostro amore qualcosa di diverso e migliore rispetto a qualunque altro sentimento mai esistito. Forse è questa l’essenza di ogni lettera d’amore: la celebrazione dell’unicità. Io mi ero sforzato di eguagliarla, ma la franchezza mi aveva concesso solo di attingere ai fatti, che a me parevano comunque abbastanza miracolosi di per sé: una donna bellissima amava e voleva essere riamata da un uomo massiccio, goffo, stempiato e incredulo. Ci fermammo a osservare la poiana nei pressi di Maidensgrove. Può darsi che il pallone avesse riattraversato il nostro sentiero mentre percorrevamo i boschi che coprono le vallate intorno alla riserva naturale. Nelle prime ore del pomeriggio giungemmo al Ridgeway Path, procedendo a nord lungo la linea della scarpata. Poi tagliammo per una di quelle ampie distese che si allungano a ovest delle Chiltern verso la fertile campagna sottostante. Oltre la piana di Oxford 7 distinguevamo il contorno delle Cotswold Hills e, ancora più in là, la massa azzurrognola dei Brecon Beacons. Avevamo deciso di pranzare in fondo al sentiero, dove si godeva il panorama migliore, ma il vento era ormai troppo teso. Tornammo sui nostri passi e trovammo riparo tra i quercioli del lato settentrionale del prato. E fu a causa di questi alberi che non assistemmo alla discesa del pallone. In seguito mi sono chiesto come mai non fosse stato sospinto a chilometri da lì. E ancora più recentemente ho saputo che quel giorno il vento non era lo stesso al livello del suolo e a un’altezza di centocinquanta metri. La conversazione su Keats si esaurì mentre preparavamo la colazione sull’erba. Clarissa estrasse la bottiglia dal sacco e me la porse tenendola dal fondo. Come ho già detto, il collo mi stava sfiorando la pelle quando udimmo il grido. Era un tono baritonale su note via via più alte dettate dalla paura. Quel grido segnò l’inizio e, naturalmente, una fine. In quell’istante si chiuse un capitolo, o meglio, un intero stadio della mia vita. A saperlo, e a poter disporre di un secondo in più, valeva la pena di concedersi un pizzico di nostalgia. Il nostro matrimonio d’amore senza figli durava da sette anni. Clarissa Mellon amava anche un altro uomo, ma con l’approssimarsi del bicentenario dalla sua nascita, il fastidio che mi arrecava era in fondo modesto. Anzi, mi dava persino una mano fornendo spunti per gli scambi di idee che erano parte integrante del nostro equilibrio, il nostro modo per discutere di lavoro. Abitavamo in un edificio art déco nella zona settentrionale di Londra con un fardello di preoccupazioni al di sotto della media: più o meno un anno di ristrettezze economiche, il passeggero timore per un cancro inesistente, i divorzi e le malattie degli amici, l’intolleranza di Clarissa verso i miei occasionali e furiosi accessi di insoddisfazione per il mio lavoro - ma nulla poteva minacciare l’autonoma intimità delle nostre vite. Quel che vedemmo alzandoci in piedi fu quanto segue: un immenso pallone grigio, grande come una casa, a forma di lacrima, precipitato sul prato. Il pilota doveva essere già mezzo fuori dal cesto porta- passeggeri quando il velivolo aveva toccato terra. Una fune attaccata a un’ancora gli si era impigliata intorno a una gamba. Attualmente, tra raffiche di vento che, sollevandolo, spingevano il pallone in direzione della scarpata, l’uomo veniva trascinato ora a terra ora a mezz’aria, sul prato. Nel cesto c’era un bambino, un ragazzo di circa dieci anni. Approfittando di 8 un’improvvisa calma di vento, l’uomo si rimise in piedi afferrando il cesto, o il ragazzo. Seguì un’altra raffica e il pilota si ritrovò sulla schiena, sbattuto sul terreno ineguale, nel tentativo di puntare i piedi al suolo, o nello sforzo di afferrare l’ancora alle sue spalle per assicurare il mezzo alla terra. Anche potendo, non avrebbe osato liberarsi dal groviglio della fune. Gli occorreva il proprio peso per mantenere il pallone a terra, e il vento avrebbe potuto strappargli la fune di mano. Correndo, lo sentii gridare rivolto al ragazzo incoraggiandolo a saltar fuori dal cesto. Ma il volo incontrollato del pallone scaraventava il bambino da tutte le parti. Finalmente recuperò l’equilibrio e appoggiò una gamba sul bordo del cesto. Il pallone si alzò e ricadde di schianto su un dosso, e il ragazzo cascò all’indietro sparendo alla nostra vista. Poi si rialzò con le braccia tese verso l’uomo al quale intanto gridava qualcosa, parole inarticolate per la paura che non riuscii a distinguere. Dovevo trovarmi a un centinaio di metri da lì quando la situazione tornò sotto controllo. Il vento si era placato, l’uomo era in piedi chino sull’ancora che stava cercando di ficcare nel terreno. Si era liberato la gamba dalla fune. Per qualche ragione, magari per volontà o per stanchezza o semplicemente perché stava facendo quel che gli si diceva di fare, il ragazzo rimase dov’era. L’imponente pallone oscillava, piegandosi e strattonando le funi, ma la belva era stata domata. Rallentai la corsa, pur senza fermarmi. Mentre si raddrizzava, l’uomo ci vide - o per lo meno vide me e i due braccianti - e ci fece segno di raggiungerlo. Aveva ancora bisogno di aiuto, ma fui lieto di poter assumere un sostenuto passo di marcia. Anche i braccianti stavano ormai camminando. Uno dei due tossiva forte. L’uomo dell’auto però, John Logan, sapeva qualcosa che noi non potevamo sapere e continuò a correre. Quanto a Jed Parry, il pallone me ne ostruiva la vista. Il vento recuperò la sua furia tra le cime degli alberi poco prima che ne sentissi la forza abbattersi sulla mia schiena. Poi tornò a prendersela con il pallone che interruppe le oscillazioni innocenti e buffe per immobilizzarsi d’un colpo. L’unico movimento percepibile era il baluginio di tensione che andava a incresparne la superficie accumulando energia. Poi si liberò, l’ancora strappò da terra una pioggia di fango, e cesto e pallone si sollevarono a circa tre metri. Il bambino fu scaraventato all’indietro e non lo vedemmo più. Il pilota, che aveva la fune tra le 9 mani, fu sollevato a mezzo metro d’altezza dal terreno. Se Logan non lo avesse raggiunto e non avesse afferrato una delle tante funi penzolanti, il pallone si sarebbe portato via il ragazzo. E invece, adesso, i due uomini venivano trascinati insieme sul campo, mentre i braccianti e io avevamo ripreso a correre. Arrivai prima di loro. Quando acciuffai una corda, il cesto era più in alto delle nostre teste. Il ragazzo dentro strillava. A dispetto del vento, sentii odore di urina. Jed Parry si impadronì di una corda qualche secondo dopo di me, e i due braccianti, Joseph Lacey e Toby Greene, fecero altrettanto subito dopo. Greene era in preda a una crisi di tosse, ma tenne duro. Il pilota ci gridava che fare, ma le sue istruzioni erano troppo frenetiche e comunque nessuno lo stava a sentire. Costretto a combattere troppo a lungo, era esausto e aveva perso il controllo emotivo. Con noi cinque aggrappati alle corde, il pallone era sicuro. Bastava che rimanessimo ben saldi in piedi e tirassimo poco per volta fino a riportare il cesto per terra, il che, a dispetto di tutte le grida del pilota, fu esattamente quello che incominciammo a fare. A quel punto eravamo prossimi alla scarpata. Il terreno si piegava in una brusca discesa del venticinque percento prima di trasformarsi in un pendio dolce verso il fondo. D’inverno questo è uno dei punti preferiti per gli slittini dei ragazzi del posto. Parlavamo tutti insieme. Due di noi, io e l’automobilista, volevamo trascinare il pallone lontano dall’orlo. Qualcuno invece riteneva che prima si dovesse tirare fuori il bambino. Un altro insisteva che dovevamo tirar giù il pallone e assicurarlo bene al terreno. Io non vedevo dove fosse la contraddizione, visto che potevamo tirar giù il pallone pur camminando in direzione del prato. Ma stava avendo la meglio la seconda opinione. Il pilota ne aveva una quarta, ma nessuno la conosceva o aveva testa per ascoltarla. Dovrei chiarire un concetto. Poteva anche esserci una vaga comunanza d’intenti, ma non fummo mai una squadra. Non c’era modo, né tempo. A portare tutti quanti sotto il pallone erano state le coincidenze di spazio e di tempo, e una predisposizione al soccorso. Nessuno aveva il comando - o l’avevamo tutti e facevamo a chi grida più forte. Il pilota, con la faccia congestionata e grondante, veniva ignorato. Irradiava incompetenza come una stufa irradia calore. E noi intanto incominciavamo a strillare le nostre, di istruzioni. So che se avessi avuto 10

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