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L’ Altare Dell’ Eden PDF

223 Pages·2013·1.98 MB·Italian
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L'Altare Dell'Eden James Rollins Nord (2011) Valutazione:★★★★★ Tag:http://ebooklonyas.blogspot.com/ Iraq, aprile 2003. Baghdad è stata appena conquistata dall'esercito americano: la città è nel caos e, mentre i soldati cercano di arginare rapine e saccheggi, alcuni uomini armati irrompono nel giardino zoologico e sottraggono da un laboratorio sotterraneo i risultati di un esperimento rivoluzionario. Le armi, però, non possono proteggerli dalla creatura che, all'improvviso, emerge dall'oscurità... New Orleans, oggi. Un peschereccio naufragato sulle coste della Louisiana, i membri dell'equipaggio scomparsi, sangue ovunque e, nella stiva, un carico clandestino di animali esotici: è questo lo scenario che si presenta alla veterinaria Lorna Polk, chiamata dall'agente Jack Menard per prestare le prime cure ai preziosi animali. Incuriosita dalle loro singolari anomalie fisiche e dalla loro stupefacente intelligenza, Lorna sospetta subito che siano le cavie di audaci manipolazioni genetiche. Ma la curiosità si trasforma in terrore quando prima scopre che un feroce giaguaro dai denti a sciabola è fuggito nella palude, e poi si salva per miracolo dall'esplosione che distrugge il peschereccio. Per far luce sulla provenienza di quel misterioso carico, infatti, Jack e Lorna dovranno affrontare un nemico potente e implacabile, disposto a tutto pur di nascondere la verità. Perché quegli animali sono gli ignari custodi di un segreto sconvolgente, un segreto che risale all'origine stessa della razza umana... James Rollins L’ALTARE DELL’EDEN A mia sorella Laurie, ti vogliamo tutti bene « Babilonia diventerà un cumulo di rovine, un rifugio di sciacalli, un oggetto di stupore e di scherno, senza più abitanti.» Geremia 51,37 « E quale mai informe animale, giunta finalmente la sua ora, si avvicina a Betlemme per nascere? » W.B. Yeats « Lo studio della Natura alla fine rende l’uomo privo di scrupoli quanto la Natura. » H.G. Wells PROLOGO Baghdad, Iraq, aprile 2003 I due ragazzini erano immobili davanti alla gabbia del leone. « Non voglio entrare. » Il più piccolo si avvicinò al fratello maggiore e gli strinse forte la mano. Erano infagottati in giacche troppo grandi, le facce avvolte nelle sciarpe e le teste coperte da berretti di lana. Il sole non era ancora sorto e il gelo dell’alba penetrava fin dentro le ossa. Dovevano muoversi. « Bari, la gabbia è vuota. Non fare lo shakheef. Guarda. » Ma-keen spalancò la porta di ferro nera, mostrando al fratello l’interno. In un angolo buio era accatastato qualche vecchio osso rosicchiato. Ci si sarebbe potuto fare un buon brodo. Il ragazzo si mise a fissare le rovine dello zoo. Si ricordava di com’era un tempo. Sei mesi prima, per il suo dodicesimo compleanno, erano andati ai Giardini Al-Zawraa per fare un picnic e per godersi le attrazioni del parco di divertimenti e dello zoo. Lui e la famiglia avevano passato un intero pomeriggio a passeggiare tra le gabbie delle scimmie, dei pappagalli, dei cammelli, dei lupi, degli orsi. Makeen aveva anche dato da mangiare una mela a uno dei cammelli. Si ricordava ancora la sensazione del contatto della mano con quelle labbra gommose. In quel momento, contemplava lo stesso scenario con occhi più vecchi, molto più vecchi dei sei mesi che erano passati. Il parco versava in uno stato di abbandono, tra macerie e rifiuti. Era un deserto stregato, fatto di palazzi distrutti, mura annerite e pozzanghere maleodoranti di acqua oleosa. Un mese prima, dalla finestra del loro appartamento, Makeen aveva assistito a uno scontro a fuoco tra l’esercito americano e la Guardia Repubblicana, che aveva devastato quei bei giardini rigogliosi. La battaglia era iniziata al crepuscolo e il crepitio dei proiettili e il fischio dei razzi erano andati avanti per tutta la notte. La mattina successiva, però, tutto era tornato calmo. La coltre di fumo era così densa che aveva nascosto il sole per tutto il giorno. Dal balcone del loro piccolo appartamento, Makeen aveva intravisto un leone che usciva dal parco, dirigendosi verso il centro della città. Si era mosso come un’ombra scura per poi sparire fra le strade. Erano scappati anche altri animali e nei due giorni successivi orde di persone erano sciamate nel parco. «Sciacalli», li aveva chiamati suo padre sputando a terra per poi bollarli in modo ancora più ingiurioso. Avevano aperto le gabbie. Avevano rubato gli animali, alcuni per mangiarli, altri per venderli al mercato nero dall’altra parte del fiume. Il padre di Makeen era andato con altri uomini a chiedere aiuto per proteggere il loro quartiere dalle bande. Non era tornato. Nessuno di loro era tornato. Nelle settimane successive, l’onere di provvedere alla famiglia era ricaduto su Makeen. Sua madre si era messa a letto, con la fronte che le bruciava per la febbre, persa da qualche parte tra la paura e il dolore. E lui non poteva fare altro che darle da bere qualche sorso d’acqua. Se fosse riuscito a prepararle una bella minestra, a farla mangiare un po’ di più… Gettò un’altra occhiata alle ossa nella gabbia. Ogni giorno, lui e il fratello uscivano un’ora prima dell’alba e cercavano qualunque cosa commestibile riuscissero a scovare nel parco bombardato e nello zoo. Makeen portava in spalla un sacco di juta. Dentro non c’erano altro che un’arancia vecchia e una manciata di semi schiacciati che avevano raccolto dal pavimento di una voliera. In un bidone dell’immondizia, il piccolo Bari aveva trovato anche una scatola ammaccata di fagioli. Quella scoperta aveva riempito di lacrime gli occhi di Makeen, che aveva nascosto il tesoro arrotolandolo nel maglione pesante del fratellino. Il giorno precedente, un ragazzo più grande con un grosso coltello gli aveva rubato il sacco, facendolo tornare a casa a mani vuote. Non avevano avuto niente da mangiare per le ventiquattro ore successive. Ma di lì a poco avrebbero mangiato bene. Anche la mamma, inshallah, pregò Makeen. Entrò nella gabbia e trascinò Bari con sé. I colpi di arma da fuoco che si sentivano in lontananza sembravano battiti di mani che intimavano loro di allontanarsi. Makeen agì con cautela. Sapeva che dovevano sbrigarsi. Non voleva uscire allo scoperto adesso che era sorto il sole. Sarebbe stato troppo pericoloso. Corse verso il mucchietto di ossa, posò a terra il sacco e iniziò a ficcarci dentro i nodelli rosicchiati e le diafisi spezzate. Quando ebbe finito, chiuse il sacco e si fermò. Prima che potesse fare un passo, una voce non lontana disse in arabo: « Yalla! Da questa parte! Quaggiù! » I due ragazzi si nascosero dietro un muretto di calcestruzzo che si trovava di fronte alla gabbia del leone. Makeen abbracciò il fratello e gli intimò di rimanere in silenzio, mentre due grandi ombre passavano accanto alla gabbia. Quindi provò a sbirciare e intravide due uomini. Uno era alto e indossava un’uniforme militare color cachi. L’altro era tarchiato, aveva la pancia tonda e un completo scuro. « L’entrata è nascosta dietro l’ambulatorio dello zoo. » Il grassone sbuffava e ansimava per tenere il passo di quello in divisa. « Posso solo pregare che non siamo arrivati troppo tardi. » Makeen notò la pistola nella fondina attaccata alla cintura del più alto e capì che essere sorpresi a origliare avrebbe significato la morte. Tra le sue braccia, Bari ebbe un brivido, come se avesse presagito anche lui il pericolo. Sfortunatamente, gli uomini non si allontanarono. L’ambulatorio era proprio di fronte al loro nascondiglio. Il grassone non fece caso alla porta divelta: giorni prima era stata forzata e la struttura era stata ripulita di farmaci e attrezzature mediche. Si diresse invece verso un muro liscio incorniciato da due colonne. Makeen non riuscì a vedere cosa stesse facendo ma, dopo che l’uomo ebbe infilato la mano dietro una delle colonne, una sezione del muro si aprì. Era una porta segreta. Si avvicinò un po’ di più alle sbarre. Il padre aveva letto loro le storie di Ali Babà, racconti di caverne inaccessibili e immensi tesori nascosti nel deserto. Tutto ciò che lui e il fratello avevano trovato allo zoo erano stati ossa e fagioli. Lo stomaco del ragazzino gorgogliò mentre lui s’immaginava il lauto banchetto che forse attendeva di sotto il principe dei ladri. « Stai qui. » Il grassone abbassò la testa per entrare e scese per una rampa di scale buie. L’uomo in divisa si mise di guardia accanto all’entrata. Teneva la mano sulla pistola. Di tanto in tanto, il suo sguardo cadeva sul loro nascondiglio. Makeen trattenne il respiro. Il cuore batteva all’impazzata. Lo aveva visto? Udì dei passi che si avvicinavano alla gabbia e strinse più forte il fratello. Ma un attimo dopo sentì un fiammifero che veniva sfregato e poi l’odore del fumo di una sigaretta. L’uomo si mise a camminare davanti alla gabbia su e giù come se fosse una tigre annoiata. Tra le braccia di Makeen, Bari ebbe un sussulto. Le dita del fratello stringevano forte le sue. Cosa ne sarebbe stato di loro se quell’uomo si fosse messo a girare per la gabbia e li avesse trovati rannicchiati lì? Sembrò che fosse passata un’eternità quando una voce affannata risuonò dal vano della porta: « Li ho presi! » La sigaretta cadde a terra, appena fuori della gabbia. Il tizio in divisa tornò indietro per raggiungere l’altro. raggiungere l’altro. Il grassone ansimava ancora. Doveva essere tornato indietro di corsa. «Le incubatrici erano spente. Non so quanto siano durati i generatori dopo che se n’è andata la corrente. » Makeen fece capolino tra le sbarre della gabbia. Il ciccione aveva in mano una grossa valigetta di metallo. « È tutto a posto? » chiese il tizio in divisa. Parlava arabo anche lui, ma non aveva un accento iracheno. L’altro si mise su un ginocchio, sistemò la valigetta in equilibrio sulla coscia e l’aprì. Makeen si aspettava di vedere oro e diamanti e, invece, lì dentro non c’erano altro che uova bianche circondate da una spugna scura. Non sembravano diverse dalle uova di gallina che sua madre comprava al mercato. Nonostante il terrore, quella vista gli fece venire l’acquolina in bocca. Il grassone le contò e le esaminò. « Sono tutte intatte », disse con un sospiro di sollievo. « Se Dio vuole, gli embrioni sono ancora vivi. » « E il resto del laboratorio? » L’uomo chiuse la valigetta e si rimise in piedi. «Lascio ai tuoi uomini il compito di dare fuoco a tutto. Nessuno dovrà mai sospettare cosa abbiamo scoperto. Non possiamo lasciare nessuna traccia. » « So cosa devo fare. » L’uomo puntò la pistola e sparò in faccia al grassone. L’esplosione fu come un rombo di tuono. La parte posteriore del cranio della vittima schizzò via in una nuvola di sangue e ossa. Il morto rimase in piedi ancora un attimo e poi stramazzò a terra. Makeen si coprì la bocca per soffocare qualunque suono. « Nessuna traccia », ripete lo spilungone prendendo la valigetta. Toccò una radio che aveva sulla spalla. Passò all’inglese: « Fai entrare i camion e tieni pronte le cariche incendiarie. Dobbiamo andarcene da questo cesso prima che si faccia vivo qualcuno del posto ». Makeen capiva un po’ la lingua degli americani. Non riuscì ad afferrare tutte le parole, ma intuì il senso del messaggio. Stanno arrivando altri uomini. Con altre pistole. Il ragazzino cercò una via di fuga, ma erano intrappolati nella gabbia dei leoni. Forse anche il fratello si era reso conto del pericolo: il tremore della sua mano era aumentato dal momento dello sparo. Alla fine, non riuscì più a tenere sotto controllo la paura e si lasciò scappare un piccolo singhiozzo. Makeen lo strinse e pregò che il rumore non fosse stato avvertito. I passi si avvicinarono di nuovo. Una voce acuta sbraitò in arabo nella loro direzione: « C’è qualcuno? Fatti vedere! Ta’aal hnaaì» Makeen avvicinò la bocca all’orecchio del fratello. «Resta nascosto. Non venire fuori. » Poi spinse ancora di più Bari nell’angolo e uscì con le mani alzate. Fece un passo in avanti. «Stavo solo cercando da mangiare! » «Vieni fuori, waladl » Makeen obbedì. Si diresse verso la porta della gabbia e sgusciò fuori, continuando a tenere le mani in alto. « Per favore, ahki. Laa termi! » Cercò di parlare in inglese per dimostrare all’uomo che era dalla sua parte. «Non sparare. Io non vedere… non sapere… » Ma quello alzò la pistola senza mostrare nessuna pietà. Makeen sentì le lacrime calde che gli scorrevano lungo le guance. Con la vista appannata, notò delle ombre che si muovevano. Alle spalle dell’uomo, la porta segreta venne spalancata dall’interno. Una sagoma grossa e scura scivolò fuori e si fermò nell’ombra, come se temesse la luce. Makeen intravide appena la figura sfuggente: muscolosa, tonica, con una furia che le faceva brillare gli occhi. Si sforzò di capire cosa fosse, ma non ci riuscì. Un grido silenzioso gli si formò in petto. Anche se la bestia non fece rumore, l’uomo doveva aver presagito il pericolo. Si voltò mentre la creatura saltava con un urlo stridulo. L’assassino sparò alcuni colpi di pistola, ma lo scoppio fu coperto da un lamento selvaggio che fece venire la pelle d’oca a Makeen. Il ragazzino si voltò di scatto e corse verso la gabbia. « Bari! » Afferrò il fratello per il braccio e lo trascinò fuori. « Yaliai Corri! » Da una parte, l’uomo e la bestia lottavano per terra. Furono esplosi altri colpi. Makeen sentì degli stivali che avanzavano dietro di lui. Dal lato opposto del parco arrivarono di corsa altri uomini. Le grida erano intervallate da spari. Ignorandoli tutti, Makeen scappò via nei giardini bombardati, in preda al terrore più cieco, senza preoccuparsi di chi avrebbe potuto vederlo. Continuò a correre e a correre, inseguito da grida che lo avrebbero perseguitato nei suoi incubi per sempre. Non aveva idea di quello che fosse successo. Ma un’immagine si era fissata nella sua mente: gli occhi feroci della bestia, che brillavano di una scaltra intelligenza, accesi da un fuoco senza fumo. Makeen sapeva cosa aveva visto. La Shaytan del Corano, la bestia nata dal fuoco di Dio che era stata maledetta per non essersi sottomessa a Adamo. Makeen sapeva la verità. Alla fine, il diavolo era arrivato a Baghdad. ATTO PRIMO PRIMO SANGUE 1 New Orleans, Stati Uniti, 23 maggio, ore 07.32 La Ford Bronco urtò i detriti lasciati dall’uragano e sobbalzò per l’ennesima buca. Per poco Lorna non picchiò la testa contro il tettuccio. La macchina slittò sulla strada bagnata e Lorna tolse il piede dall’acceleratore, cercando di mantenere il controllo. Il vento aveva divelto gli alberi, i fiumi erano esondati e un alligatore era finito persino in una piscina. Fortunatamente si era trattato della coda di un uragano che aveva colpito con maggiore intensità una zona più a ovest. Eppure, con tutti quegli acquazzoni, sembrava che Madre Natura fosse determinata a far tornare Orleans Parish una grande palude. Mentre Lorna viaggiava lungo il corso del fiume, non riusciva a fare altro che pensare alla telefonata. L’aveva ricevuta venti minuti prima: al Centro era andata via la corrente. I generatori non erano entrati in funzione e decine di progetti di ricerca erano in pericolo. Quando superò l’ultima ansa del Mississippi, l’area recintata comparve davanti a lei. Il Centro Audubon per la Ricerca sulle Specie a Rischio si estendeva in una zona di oltre quaranta ettari a sud di New Orleans. Anche se era collegato allo zoo cittadino, non era aperto al pubblico. La struttura era nascosta in una foresta di latifoglie e il corpo principale era costituito da un edificio di circa tremilacinquecento metri quadrati, che ospitava una mezza dozzina di laboratori e un ospedale veterinario. La dottoressa Lorna Polk ci lavorava da quando aveva conseguito la laurea in veterinaria. Era il supervisore del cosiddetto « zoo surgelato », ovvero dodici taniche di azoto liquido in cui venivano conservati sperma, uova ed embrioni di centinaia di specie animali a rischio: gorilla di montagna, tigri di Sumatra, gazzelle di Thomson, scimmie Colobus, bufali cafri. Era una posizione di grande responsabilità, soprattutto per una persona che aveva solo ventotto anni e aveva appena finito il tirocinio. Al suo incarico - il controllo della banca del seme - era legata la speranza di riportare indietro dal baratro dell’estinzione le specie a rischio attraverso l’inseminazione artificiale, il trasferimento embrionale e la clonazione. Tuttavia, nonostante il peso della responsabilità, lei amava il suo lavoro e sapeva di essere in gamba. Mentre correva lungo il viale che portava all’ingresso dell’edificio principale, il cellulare, che teneva nel portabevande, iniziò a squillare. Lorna lo afferrò e continuò a guidare con una mano sola. « Dottoressa Polk, sono Gerald Granger, del reparto tecnico. Ho pensato che dovesse saperlo subito: siamo riusciti a far partire i generatori e a individuare il guasto da cui era dipesa la mancanza di corrente. » Lorna lanciò un’occhiata all’orologio della macchina. Il black-out era durato quasi quarantacinque minuti. Fece qualche calcolo mentale e tirò un sospiro di sollievo. «Grazie, Gerald. Sarò lì tra un minuto. » Richiuse il telefono. Dopo aver parcheggiato, appoggiò la testa sul volante. Il sollievo era così intenso che quasi si mise a piangere. Quasi. Dopo essersi presa un minuto per ricomporsi, si raddrizzò e si rese conto all’improvviso di com’era vestita. Era uscita di corsa con un paio di jeans sgualciti, una vecchia maglia a collo alto grigia e un paio di stivali. Non proprio l’aspetto professionale che aveva di solito. Girandosi per scendere dalla Bronco, vide il suo riflesso nello specchietto retrovisore. Oh, buon Dio… I capelli biondi - che di solito erano raccolti in una treccia impeccabile - quella mattina erano tirati indietro in una coda molto approssimativa. Anche gli occhiali con la montatura nera le stavano storti sul naso. In quel momento, sembrava una studentessa universitaria ubriaca di ritorno da una festa del Mar di Gras. Visto che aveva già un aspetto trasandato, decise di sciogliere i capelli, poi scese dalla macchina e si diresse verso l’entrata principale. Prima che potesse arrivare alla porta, un rumore nuovo catturò la sua attenzione. Si girò verso il Mississippi. Un elicottero bianco sfiorava le cime degli alberi e si dirigeva velocemente verso di lei. Una mano si poggiò sulla spalla di Lorna. Lei sussultò, ma le dita la strinsero per rassicurarla. Quando si girò, si accorse che si trattava del suo capo e mentore, il dottor Carlton Metoyer, il direttore del Centro. Non lo aveva sentito avvicinarsi per colpa dell’elicottero. Più vecchio di lei di trent’anni, era un afro-americano alto e robusto, con i capelli bianchi e una barba brizzolata e ordinata. La sua famiglia - così come quella di Lorna - risaliva alla colonia creola di Cane River, un misto di eredità francese e africana. Il dottor Metoyer si riparò gli occhi con la mano mentre fissava il cielo. « Abbiamo compagnia. » L’elicottero si stava dirigendo proprio verso il Centro. Si spostò su un campo adiacente e iniziò a scendere. Lorna notò che era un piccolo A-Star dotato di galleggianti invece dei soliti pattini di atterraggio. Riconobbe anche la striscia verde sulla fiancata bianca: dopo Katrina, la maggior parte degli abitanti di New Orleans conosceva quel simbolo. Era uno degli elicotteri della Border Patrol; le loro flotte erano state fondamentali per le operazioni di soccorso e messa in sicurezza dopo il disastro. « Che ci fanno qui? » «Sono venuti per te, mia cara. Ti daranno un passaggio. » 2 Mentre l’elicottero decollava, Lorna sentì lo stomaco che le si stringeva, non tanto per colpa del movimento quanto perché era in preda al panico vero e proprio. Afferrò i braccioli del suo sedile, che era accanto a quello del pilota. Il rombo dei motori, che diventava sempre più forte, superò la barriera delle grosse cuffie che aveva dovuto indossare. Era come salire in un ascensore attaccato a un razzo. Non era mai stata una patita delle grandi altezze, in generale odiava volare, e montare su un tosaerba volante come quello era per lei il colmo della pazzia. Aveva fatto un giro in elicottero solo una volta, durante uno stage in Sudafrica, mentre conduceva un censimento degli elefanti che vivevano in una zona di confine con una riserva. In quell’occasione, si era preparata al viaggio buttando giù un paio di compresse di Xanax prima di salire a bordo e, nonostante ciò, le gambe le avevano continuato a tremare per un paio d’ore dopo che era tornata con i piedi per terra. E quel giorno non aveva avuto nessun preavviso. Il dottor Metoyer le aveva dato qualche informazione sommaria mentre l’elicottero atterrava. Non le aveva neppure dato il tempo di entrare a esaminare le sue taniche di azoto liquido. «Se ne sta già occupando lo staff», le aveva garantito, e poi aveva aggiunto che le avrebbe controllate lui stesso e le avrebbe riferito i dettagli via radio più tardi. Già, la radio… Stavano volando al di sopra della rete GSM dei cellulari. Lorna si azzardò a dare un’occhiata fuori dal finestrino. L’elicottero s’inclinò offrendole una vista a volo d’uccello del Mississippi. Stavano volando verso sud seguendo più o meno il corso del Big Muddy. Dopo la tempesta, quel nome era particolarmente appropriato. Il fiume era color cioccolata e pieno di sedimenti: turbinava e ribolliva mentre scorreva verso il Golfo del Messico. Erano diretti al delta del fiume, dove si depositava tutto il materiale alluvionale, vale a dire i sedimenti, l’argilla, la sabbia e la terra che poi venivano spinti nel Golfo, formando più di un milione e duecentomila ettari di paludi costiere e acquitrini salati. La regione non era importante solo dal punto di vista ambientale, visto che ospitava un ecosistema vasto e complesso risalente al Giurassico, ma anche da quello commerciale. L’area copriva infatti gran parte del fabbisogno ittico degli Stati Uniti e forniva al Paese circa il venti per cento del suo petrolio. Era anche una zona di confine molto sensibile. La miriade d’isole, le intricate vie di navigazione interna e le piattaforme isolate per la pesca facevano del delta un nascondiglio ideale per contrabbandieri e trafficanti di tutti i tipi. Il Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti aveva classificato la zona come un’area ad alto rischio e aveva rinforzato la stazione della Border Patrol di New Orleans. A detta del capo di Lorna, l’agenzia aveva ispezionato la zona in seguito alla mareggiata provocata dalla tempesta della notte prima. Era frequente che i contrabbandieri approfittassero degli uragani per introdurre negli Stati Uniti droga, armi e persino carichi umani. Quella mattina una pattuglia aveva scoperto un peschereccio spiaggiato su una delle isole esterne. Dopo aver ispezionato la barca, avevano chiamato il Centro Au-dubon. Quella telefonata rimaneva un mistero anche per il dottor Metoyer. Non gli avevano dato nessuna informazione aggiuntiva sulla richiesta e non gli avevano spiegato perché sul posto fosse stata chiamata proprio Lorna. Nonostante la paura, in lei stava montando una rabbia che non riusciva a tenere a freno. Al Centro aveva dei progetti in pericolo. Che cosa ci faceva per aria, nel bel mezzo del nulla? La rabbia cresceva, alimentata dall’ansia. Che stava succedendo? Perché avevano chiesto proprio di lei? Non conosceva nessuno all’agenzia che si occupava della protezione e del controllo

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