ebook img

Joe Petrosino: l'uomo che sfidò per primo la mafia italoamericana PDF

103 Pages·2001·0.4 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Joe Petrosino: l'uomo che sfidò per primo la mafia italoamericana

Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt Arrigo Petacco, Joe Petrosino, L'uomo che sfidò per primo la mafia italoamericana. Copyright 2001 Arnoldo Mondadori Editore S.p. A., Milano. Innumerevoli sono i libri e i film che hanno illustrato le gesta dei mafiosi italoamericani, a cominciare dai malavitosi giunti oltreoceano a fine Ottocento insieme agli immigranti, per arrivare ai padrini dei giorni nostri, che si muovono con disinvoltura nei sofisticati ambienti del crimine organizzato. Ma come si è sviluppata la mafia in America? Come riuscirono quei «pezzi da novanta» arrivati dalla Sicilia a inserirsi nella società americana fino a raggiungerne i massimi livelli? In questo libro (uscito per la prima volta nel 1972, tradotto all'estero con successo e dal quale è stato tratto uno sceneggiato televisivo) Arrigo Petacco indaga su Vito Cascio Ferro, l'uomo che trapiantò nel Nuovo Mondo la struttura della mafia siciliana, e ricostruisce la vicenda di Joe Petrosino, il poliziotto che avvertì per primo l'incombente minaccia e cercò di fermarne sul nascere la diffusione. Nella storia della mafia «don Vito» occupa un posto di grande rilievo: «semianalfabeta ma intelligente, astuto, autorevole e, a modo suo, filosofo e saggio», gettò le fondamenta di quel «ponte nero» che ancora oggi collega Palermo a Brooklyn. Joe Petrosino, poliziotto italoamericano di umilissime origini, fu l'acerrimo nemico di don Vito Cascio Ferro: lo combatté per anni costringendolo addirittura a tornare in Sicilia, ma non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse. La sua impari lotta si concluse in modo tragico una sera in piazza Marina, a Palermo, dove si era recato sperando di «colpire nel suo centro vitale la piovra che stava ormai allungando i propri tentacoli fra i palazzi di Manhattan» La sua storia risulta tuttora di grande attualità perché illumina le origini del fenomeno mafioso e perché ricorda da vicino le imprese, spesso solitarie e osteggiate, di chi ha lottato contro Cosa Nostra. Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra, La Spezia, e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore de «La Nazione» e di «Storia Illustrata», ha sceneggiato alcuni film e realizzato numerosi programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo: L'anarchico che venne dall'America, Il Prefetto di ferro, Riservato per il Duce (nuova edizione L'archivio segreto di Mussolini), Dal Gran Consiglio al Gran Sasso (con Sergio Zavoli), Pavolini. L'ultima raffica di Salò (nuova edizione Il superfascista), I ragazzi del '44, Dear Benito, caro Winston, La regina del Sud, La principessa del Nord, La signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, Regina. La vita e i segreti di Maria José, L'armata scomparsa, L'esodo e L'amante dell'imperatore. A Monica e Carlotta [p. 3] INTRODUZIONE Agli inizi del XX secolo, gli americani la chiamarono «Black Hand» (Mano Nera), poi «Rachet» (neologismo derivato dall'italiano «ricatto»), poi «Sindacato», poi «Cosa Nostra», ma sempre di mafia si trattava. Sulle origini di questa organizzazione criminale che dalla Sicilia si è diffusa nel mondo grava ancora il mistero. Non si sa quando è sorta e neppure si conosce il significato del termine «mafia»: c'è chi dice che derivi dall'arabo mahias, millanteria, e chi da una voce dialettale che sta per baldanza, braveria. Al contrario, sappiamo molto sulla mafia americana. Decine di libri e centinaia di film hanno provveduto, spesso esagerando, a illustrare le gesta dei gangster italoamericani, a cominciare dai rozzi padrini Pagina 1 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt con i baffi a manubrio giunti oltreoceano confusi nelle masse di immigranti che tra Otto e Novecento si riversarono nel Nuovo Mondo, per arrivare agli azzimati padrini dei giorni nostri, che si muovono con disinvoltura nei sofisticati ambienti del crimine organizzato e multietnico dove la globalizzazione ha ormai cancellato i confini che un tempo dividevano le varie mafie. Quando la mafia siciliana approdò in America, ne esistevano già altre: quella irlandese, per esempio, o quella ebraica, ma la mafia italiana ebbe ben presto ragione su tutte. Come si sviluppò? Come riuscirono quei rozzi «pezzi da novanta» arrivati dalla Sicilia a inserirsi nella società americana fino a raggiungere i livelli che conosciamo? Le [p. 4] risposte le troverete in questo libro in cui, per la prima volta, fu rivelato il nome del padrino che innestò in America la malapianta mafiosa e anche il nome del poliziotto che avvertì l'incombente minaccia e cercò invano di schiacciare sul nascere quel seme venefico che avrebbe infettato gli Stati Uniti. Il primo si chiamava Vito Cascio Ferro, il secondo Joe Petrosino. Nella leggenda nera della mafia «don Vito» occupa una posizione di primissimo piano. Semianalfabeta ma intelligente, astuto, autorevole e, a modo suo, filosofo e saggio, è l'uomo che modernizzò la mafia arcaica trasferendola dalla campagna alla città e poi in America. Fu lui a stabilire i codici, le regole e gli organigrammi del moderno potere mafioso. E fu ancora lui a individuare i nuovi campi in cui, oltre il tradizionale abigeato, l'«onorata società», non più contadina, avrebbe potuto sviluppare la sua attività criminosa. Il «pizzo», per esempio, ossia la tangente che sono costretti a pagare i commercianti taglieggiati dalla mafia, è una tecnica di sua invenzione. «Pizzo» in siciliano significa «becco» e «fammi bagnare il becco» era il mellifluo invito che il ricattatore rivolgeva alla vittima. Anche il termine «omertà», oggi entrato nel linguaggio comune, è un neologismo di sua invenzione. Per don Vito voleva dire «essere uomini» D'onore, naturalmente. Fu dunque don Vito, durante una sua trasferta americana, a trapiantare nel Nuovo Mondo, adattandoli all'ambiente, i costumi della mafia siciliana e a gettare le fondamenta di quel «ponte nero» Palermo-Brooklyn che ancora oggi collega la «casa-madre» con la sua creatura prediletta. Joe Petrosino, poliziotto italoamericano di umilissime origini, fu il mortale nemico di don Vito Cascio Ferro. Lo combatté per anni, lo costrinse infine a tornare in Sicilia, ma non riuscì a impedire che il seme da lui portato in terra americana germogliasse rigogliosamente. La sua lotta impari e spesso solitaria si concluse infatti in modo tragico una buia sera in piazza Marina, a Palermo, dove si era recato in gran segreto con la vana speranza di colpire nel [p. 5] suo centro vitale la piovra che stava ormai allungando i propri tentacoli fra i palazzi di Manhattan. La sua storia, raccontata in questo libro (che uscì per la prima volta nel 1972), risulta tuttora di grande attualità: una drammatica vicenda alle origini del fenomeno mafioso che ricorda da vicino le imprese spesso solitarie e osteggiate di chi ha lottato contro Cosa Nostra. [p. 7] I L'uOMO nEL bARILE Carmelina Niscemi, vedova Zillo, si affacciò cautamente alla finestra dell'unica stanza che divideva con i suoi quattro figli. Erano le 6 del mattino del 14 aprile 1903. Sotto di lei, l'Undicesima Strada Est, nel quartiere italiano di New York, era ancora deserta. Solo dalla vicina Terza Avenue giungevano i primi rumori del traffico. Con molta circospezione, Carmelina si sporse in fuori per scrutare attentamente la strada e i palazzi di fronte, poi, quando fu ben certa che nessuno la osservava, raccolse di scatto il secchio dell'immondizia e ne scaraventò il contenuto dalla finestra. Ogni mattino ripeteva quell'operazione pur sapendo che la polizia era estremamente severa con chi lordava le strade. D'altra parte, Carmelina non era la sola a commettere tutti i giorni quell'infrazione. Cinque piani più sotto, nello slargo sul retro Pagina 2 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt della casa, si levava una montagna di rifiuti piovuti evidentemente anche da molte altre finestre. Deposto il secchio, Carmelina si riaffacciò alla finestra con fare disinvolto. «Se gli spazzini non passano neanche oggi, finiremo tutti appestati» commentò a mezza voce osservando con disgusto l'ammasso di immondizie. A questo punto la sua attenzione fu attratta da qualcosa di insolito, al margine dell'ammasso. Guardò meglio e nella grigia luce dell'alba scorse un grosso barile ritto, presso l'orlo del marciapiede. Un barile, se ben conservato, per una madre di famiglia, vedova, emigrata e povera, può rappresentare un oggetto [p. 8] adatto a mille usi. E poiché Carmelina era appunto in tali condizioni, scese senza perdere tempo sperando di non venir preceduta da eventuali concorrenti. Uscita nella Terza Avenue, già affollata di operai e di donne di servizio che si recavano al lavoro nella parte alta di Manhattan, la donna si aggiustò lo scialle nero attorno al capo e voltò nell'Undicesima Strada per raggiungere il retro del vecchio edificio in cui abitavano innumerevoli famiglie di emigrati italiani. Alto e panciuto, con le doghe nuove e i cerchi appena arrugginiti, il barile era ancora al suo posto. Carmelina cercò di spostarlo, ma il suo sforzo risultò vano. Il barile non era vuoto, anzi, era incredibilmente pesante. Incuriosita, la donna cominciò ad armeggiare intorno al coperchio finché non riuscì a sollevarlo. Poi guardò dentro, lanciò un grido e svenne. Qualche minuto dopo, richiamati dai lamenti, sopraggiunsero alcuni passanti e un agente del Secondo distretto. Quest'ultimo, un irlandese di nome John O'Brien, andò a guardare dentro il barile che Carmelina, non ancora in grado di parlare, gli indicava con gesti disperati. Anche per O'Brien lo spettacolo risultò sconvolgente: dalla segatura emergeva la testa di un uomo con gli organi genitali ficcati in bocca. Il «caso dell'uomo nel barile», come venne definito questo delitto dai giornali newyorkesi che gli dedicarono molti titoli di prima pagina, fu affidato per competenza agli agenti del Secondo distretto, che operavano agli ordini dell'ispettore David Schmittberger. E il caso risultò subito molto difficile. L'uomo era stato ucciso a coltellate, e aveva poi subito la mutilazione che abbiamo detto. (*) Ma indosso al cadavere, che era stato trasportato nella sede del Secondo distretto in Union Market insieme al suo rudimentale sarcofago, non [p. 9] fu trovato alcun documento che permettesse di stabilirne l'identità, o anche soltanto la nazionalità. Tuttavia, da un primo esame, l'ispettore giunse alla conclusione che doveva trattarsi di un mediterraneo, probabilmente greco o armeno. Egli espresse anche la convinzione di trovarsi di fronte a un delitto rituale, una sorta di sacrificio umano compiuto da una delle tante sette segrete che gli orientali avevano importato nel Nuovo Mondo. Questa sua convinzione si rafforzò quando, nelle tasche del morto, fu rinvenuto un piccolo crocifisso dorato sul quale era incisa la sigla J. N. R. J. Schmittberger, che era ebreo e non sapeva cosa significassero quelle lettere, le scambiò infatti per il simbolo della setta cui lo sconosciuto doveva appartenere. Più tardi, quando già i giornali della sera riportavano le ipotesi più strampalate sulla natura del delitto, un agente, frugando per l'ennesima volta negli abiti dell'ucciso, vi rinvenne un foglietto arrotolato sul quale era scritta una frase in lingua italiana. La frase era: «Vieni subito, è importante» Ma nessuno degli agenti del Secondo distretto conosceva questa lingua; e solo più tardi, con l'aiuto di un commerciante italiano di Mott Street, fu possibile tradurre il laconico messaggio. A questo punto, Schmittberger rinunciò a difendere la sua teoria. «Forse ho preso un granchio» disse al collega McCafferty. «E' sicuramente una storia di italiani. Sarà meglio chiamare il "dago".» Col nomignolo di «dago» (deformazione di Diego e termine spregiativo usato dagli americani per indicare italiani e spagnoli) negli ambienti della polizia era comunemente conosciuto il detective Giuseppe Petrosino, l'unico agente di origine italiana asceso Pagina 3 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt all'olimpo del Bureau, ossia all'ufficio cui facevano capo i cinque più abili investigatori di New York. Un'ora dopo, un uomo tarchiato, vestito di scuro con bombetta e bastone, dalla faccia dura e quadrata, leggermente butterata dal vaiolo, si presentava alla sezione di polizia del Secondo distretto. [p. 10] «Il mio nome è Petrosino» disse con un certo sussiego all'agente di piantone, poi si fece accompagnare nell'improvvisato obitorio dove erano stati sistemati i resti dell'ucciso. Qui salutò con un cenno del capo Schmittberger e, senza perdere tempo in convenevoli, si mise al lavoro. Dopo aver esaminato il cadavere con una scrupolosità che a Schmittberger parve eccessiva, visto che egli stesso lo aveva ispezionato più volte, Petrosino si occupò degli abiti e ne rovesciò le tasche per raccogliere in una busta la polvere in esse contenuta. Successivamente passò a osservare il barile. Trascrisse sul proprio taccuino la sigla W. T. stampata sul coperchio, grattò con un temperino fra gli interstizi delle doghe e ne raccolse della polvere bianca che assaggiò con la punta della lingua e, infine, frugò col bastone nel mucchio della segatura che era servita per il macabro imballaggio. La segatura era molto sporca, c'erano pezzi di carta e mozziconi di sigari e di sigarette. Il detective osservò ogni cosa con molta attenzione. «Questo è un toscano» commentò fra sé raccogliendo un pezzo di sigaro. Poi pregò un agente di mettergli in un sacchetto alcune manciate di quella segatura: l'avrebbe esaminata meglio più tardi. Terminato il suo lavoro, Petrosino si voltò verso l'ispettore Schmittberger. «Vorrei vedere gli altri oggetti che avete rinvenuto sul cadavere» disse. Schmittberger lo condusse nel suo ufficio e tolse da un cassetto chiuso a chiave il biglietto e il crocifisso. «Questo è una traccia» osservò Petrosino intascando il foglietto. «Questo invece non mi serve» aggiunse restituendo il crocifisso. «Ma la sigla... guardate bene la sigla!» insistette stupito Schmittberger. Petrosino, che non rideva mai, abbozzò una specie di sorriso. «Sono le iniziali di "Jesus Nazarenus Rex Judaeorum"» spiegò «e significano che Gesù è il vostro re, anche se voi ebrei non siete d'accordo.» [p. 11] Schmittberger incassò senza prendersela a male. Riuscì anche a ridere. Petrosino si alzò per andarsene. «Vi manderò qualcuno del Bureau per fare una fotografia del morto. Spero che sarà possibile ricomporre il cadavere, in modo da avere una fotografia decente.» «Chiamerò qualcuno delle pompe funebri, sono degli artisti in materia» disse Schmittberger. «Bene» approvò il detective. «E sarebbe anche utile rintracciare una ditta che usa come marchio di fabbrica la sigla W. T. Dovrebbe trattarsi di una fabbrica di dolciumi, dato che l'interno del barile è inzuccherato.» Schmittberger, ammiratissimo per la perspicacia del suo interlocutore, promise di fare il possibile. Poi chiese a Petrosino se intendeva rilasciare una dichiarazione ai cronisti che stazionavano da tutto il giorno di fronte al Secondo distretto. L'altro accettò di buon grado; era sempre molto sensibile nei confronti della stampa. Del resto erano stati proprio i giornalisti a fare di lui il poliziotto più famoso di New York. La sera del 14 aprile 1903 Giuseppe Petrosino rilasciò dunque una dichiarazione sul caso. «"L'uomo del barile"» disse «è certamente un italiano e probabilmente un siciliano. Penso che sia stato ucciso per un regolamento di conti all'interno di qualche banda. In Sicilia, a quanto pare, il trattamento dei genitali in bocca è riservato a quelli che parlano troppo.» Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se il delitto potesse essere attribuito alla «Mano Nera», l'organizzazione criminale che terrorizzava il quartiere italiano, Petrosino rispose seccato: «Ho già detto più volte che la Mano Nera, come organizzazione vera e propria, non esiste. Sono stati i giornali a Pagina 4 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt creare il mito di questa piovra che avvolgerebbe nei suoi tentacoli la città di New York. Quelle che realmente esistono sono delle bande, spesso molto piccole e comunque non collegate fra di loro, che [p. 12] sfruttano autonomamente questo nome inventato dagli anarchici per meglio terrorizzare le loro vittime» Lasciati i giornalisti, Giuseppe Petrosino tornò alla centrale di polizia al numero 300 di Mulberry Street, proprio nel cuore del quartiere italiano. Qui lo raggiunse per telefono l'ispettore Schmittberger che, senza nascondere la propria eccitazione, gli comunicò di avere scoperto la ditta che marchiava i propri barili con la sigla W. T. «Si tratta della fabbrica di dolciumi Wallace e Towney situata al 365 di Washington Street» continuò Schmittberger. «Produce generi di pasticceria, soprattutto per gli ambulanti, ma fornisce anche alcuni locali di ritrovo servendosi appunto di quei grossi barili. Fra questi locali» concluse l'ispettore «figurano due bar che si trovano nella mia zona. Si tratta di una birreria tedesca di Prince Street e del bar Stella d'Italia gestito da certo Pietro Inzerillo e situato al 260 di Elizabeth Street.» Petrosino, che aveva preso frettolosamente degli appunti, ringraziò Schmittberger e riappese. Ora la faccenda cominciava a farsi più chiara. Poco prima della mezzanotte il detective scendeva da una carrozza davanti alla Stella d'Italia, avendo scartato a priori la birreria tedesca. Il suo ingresso fu accolto dal solito brusio che sempre si sollevava quando egli entrava in uno dei tanti fumosi locali in cui si davano convegno i malviventi italiani. La Stella d'Italia era uno di questi. Petrosino riconobbe, seduti ai tavoli davanti alle carte e al fiasco di vino, molti gangster che secondo lui avrebbero dovuto essere espulsi o trovarsi in galera, ma che circolavano liberamente grazie all'eccessiva (sempre secondo lui) puntigliosità delle leggi americane circa la protezione delle libertà individuali. Come di consueto, il poliziotto prese posto a un tavolo d'angolo, in modo da avere le spalle protette dalla parete, poi ordinò da bere. Rimase così, immobile, per una decina di minuti. Voleva dare l'impressione che si trattasse di una delle sue solite visite di controllo. [p. 13] Entrando, aveva già notato che il pavimento della sala era coperto da uno strato di segatura, che consentiva ai clienti di sputare in libertà. Era proprio questa segatura che lo interessava prima di tutto. Fingendo di allacciarsi una scarpa ne raccolse un pizzico e lo nascose nel risvolto dei pantaloni. Uscito in strada, fece il giro dell'isolato. Sul retro, dove si apriva la porta di servizio del locale, erano accatastati alcuni grossi barili. Tutti portavano il contrassegno della ditta Wallace e Towney. Il giorno seguente, un esperto del modesto laboratorio scientifico di cui era da poco tempo dotata la centrale di polizia della città di New York, assicurò Petrosino che la segatura da lui raccolta alla Stella d'Italia era identica a quella contenuta nel barile. A questo punto la soluzione del caso appariva abbastanza vicina. Evidentemente, l'uomo era stato ucciso in quel covo di tagliagole che era la Stella d'Italia e sistemato bene in vista nell'Undicesima Strada affinché - secondo l'uso siciliano - coloro che dovevano intendere capissero qual era la sorte che attendeva «le spie» Su questa tesi, Petrosino non aveva il minimo dubbio. Conosceva troppo bene gli ambienti della malavita italiana dell'East Side. Sapeva anche che gli assassini ricorrevano a messinscene così granguignolesche solo quando intendevano dare un «avvertimento» Le vittime delle normali aggressioni preferivano gettarle nell'East River, con un blocco di cemento appeso ai piedi come zavorra. Occorreva adesso dare un nome all'«uomo del barile» Solo attraverso la sua identificazione sarebbe stato possibile individuare i colpevoli. Questa indagine preliminare impegnò Petrosino per alcuni giorni. Risulta dai verbali che centinaia di italiani furono fatti sfilare davanti al cadavere nella speranza che qualcuno lo riconoscesse. Ma Pagina 5 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt fu una fatica inutile. Soltanto un siciliano, di nome Michele Bongiorno, identificò la vittima per certo Antonino Quattrocchi, genero di un notissimo arruolatore di mano d'opera clandestina. Però [p. 14] Quattrocchi, vivo e vegeto, si presentò spontaneamente alla polizia quando la notizia della sua morte stava per essere comunicata in maniera ufficiale. Di questo incidente approfittarono subito i numerosi giornaletti italiani di New York, che non perdevano occasione per gettare discredito sull'opera degli investigatori (come avevano già fatto quando si era risaputo il particolare del crocifisso con la sigla misteriosa) Anche Petrosino fu preso di mira. Egli, infatti, godeva di buonissima stampa sui giornali americani, ma assai di meno su quelli in lingua italiana. L'errore di identificazione non frenò comunque l'opera del detective. Nel frattempo la sua indagine era andata a incrociarsi incidentalmente con un'altra inchiesta che veniva condotta dall'agente di polizia segreta William J. Flynn sul conto di una banda di falsari italiani che operava fra New Orleans, Pittsburgh e New York. Questa banda, infatti, era solita darsi convegno alla Stella d'Italia. Era dunque assai probabile che i due investigatori stessero dando la caccia alle medesime persone. Grazie anche alle informazioni di Flynn, Giuseppe Petrosino concentrò i propri sospetti su un gruppo di otto individui i cui nomi vanno tenuti a mente perché riemergeranno spesso nel corso di questa storia. Essi erano: Giuseppe Morello, originario di Corleone, che la voce pubblica indicava come il capo della Mano Nera di New York. Ignazio Lupo, detto «The Wolf», uomo di una certa istruzione (per qualche tempo aveva fatto anche il libraio), ma temuto per la sua violenza e dedito soprattutto al ricatto. Giuseppe Fontana, che in Italia era accusato di avere ucciso il barone Emanuele di Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia, per conto del «re della mafia» Raffaele Palizzolo, un deputato di Palermo. Tommaso Petto, detto «The Bull», il Toro, per l'eccezionale [p. 15] muscolatura che gli aveva fatto vincere molti concorsi di bellezza maschile. Petto, che diceva di fare lo stiratore, era in realtà un killer, un assassino di mestiere. Vito Cascio Ferro, un «uomo di rispetto» giunto da poco dalla Sicilia. E infine Giuseppe Favaro, Vito Lo Baido e Antonio Genova, noti per i loro precedenti burrascosi e per essere legati a Morello da un patto di sangue. Tutti costoro erano siciliani e implicati in un traffico di dollari falsi. Proseguendo le loro indagini, i due detective finirono per convincersi che anche l'«uomo del barile» doveva essere in qualche modo legato all'attività criminosa di Giuseppe Morello e soci. Ma come provarlo? Anche questa volta fu Flynn a indicare la pista giusta. Qualche tempo prima, l'agente segreto aveva arrestato a Pittsburgh un falsario di nome Giuseppe Di Primo, che ora stava scontando una condanna nel carcere di Sing Sing. «Di Primo» disse Flynn a Petrosino «lavorava per Morello e ora ce l'avrà a morte con i suoi complici che l'hanno lasciato nelle peste. Chissà, forse voi che parlate italiano potreste riuscire a cavarne qualcosa.» Il giorno seguente, Giuseppe Petrosino era a colloquio con Di Primo nel parlatorio di Sing Sing. «Conoscete quest'uomo?» gli chiese il detective mostrandogli la fotografia dell'ucciso. «Ma questo è Nitto!» esclamò subito Di Primo. «E' mio cognato Benedetto Madonnia, che vive a Buffalo con mia sorella. Ma nella fotografia ha l'aria di un morto! Che gli è successo? E' stato malato?» Petrosino non rispose alla domanda. «Sapreste dirmi quando e perché è venuto a New York?» «Fui io a mandarlo» disse Di Primo. «Lui era venuto a trovarmi e io Pagina 6 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt lo pregai di andare a ritirare certi miei beni personali dall'amico Giuseppe Morello. Ma per piacere» insistette «ditemi cosa gli è successo. E' malato?» «Non è malato. E' morto. Lo hanno ucciso» ribatté il detective [p. 16] pensando forse, con questa notizia improvvisa, di indurlo a parlare. Accadde invece il contrario. Di Primo non volle più rispondere ad alcuna domanda. «Questa è una faccenda che sbrigherò da solo appena sarò libero» si limitò a dire. Petrosino rientrò comunque alla centrale abbastanza soddisfatto. Evidentemente, Benedetto Madonnia era andato da Morello per chiedergli il denaro del cognato. Forse lo aveva anche minacciato, e Morello lo aveva fatto uccidere. Quella stessa sera, l'ispettore McCafferty fu incaricato di eseguire una retata alla Stella d'Italia. L'intera banda fu arrestata. Tranne Tommaso Petto, che cercò di reagire tanto che occorsero quattro agenti per immobilizzarlo, gli altri non opposero resistenza: la loro esperienza delle leggi americane li rendeva ottimisti. Accuratamente perquisiti dall'ispettore McCafferty, gli otto uomini risultarono tutti armati di pistola e di coltello. In tasca a Tommaso Petto fu anche rinvenuta la polizza di pegno di un orologio. Intanto, Giuseppe Morello e Vito Cascio Ferro, che sembravano essere i «cervelli» della banda, non avevano perduto tempo. Convocato il loro legale, l'avvocato Le Barbier, uno dei più noti penalisti di New York, chiesero di essere rilasciati su cauzione. La richiesta era legittima e il giudice dovette accoglierla a malincuore. Si limitò soltanto a fissare cifre molto alte, nella speranza che i gangster non riuscissero a mettere insieme il denaro necessario. Chiese infatti 5000 dollari per Morello, altri 5000 per Lupo, 3000 per Petto, 2000 per Favaro, 1000 per Cascio Ferro e 500 dollari a testa per gli altri. Totale circa 16.000 dollari; una somma enorme, per quei tempi. Le speranze del giudice furono però frustrate dall'efficienza della malavita siciliana. Il mattino seguente, l'avvocato Le Barbier andò da lui accompagnato da un barbiere di Mott Street, di nome Macaluso. Quest'ultimo [p. 17] portava, racchiusa in un grosso fazzoletto, la somma necessaria per la scarcerazione dell'intera banda. «Questo denaro» si affrettò a dichiarare il legale al giudice, onde evitare possibili indagini sulla sua provenienza «è il frutto di una colletta organizzata nel quartiere italiano.» Poche ore dopo Morello e compagni lasciavano la centrale di polizia, accolti con applausi e abbracci da una piccola folla composta da amici e parenti. Ancora fremente per lo scorno, il capo della polizia di New York, l'assessore McAdoo, convocò nel suo ufficio i suoi migliori detective per esaminare la situazione. Petrosino, che era fra questi, non perdette, com'era suo solito, l'occasione per inveire contro le stupide leggi americane che permettevano ai criminali di prendersi gioco della polizia. «Con i malviventi italiani bisogna applicare i sistemi italiani» concluse «altrimenti l'America continuerà a essere per loro il paese della cuccagna.» McAdoo lo calmò con un gesto della mano. «La nostra Costituzione è sacra. Noi dobbiamo difendere la nostra società con le nostre leggi.» Petrosino alzò le spalle con un gesto di stizza. «Datemi almeno una squadra di agenti italiani» riprese poi. «Con gli irlandesi e gli ebrei non caverete mai un ragno dal buco.» «Sapete benissimo che la vostra richiesta è all'esame del consiglio comunale» ribatté McAdoo. «Sì. Da due anni...» sbuffò Petrosino. «E intanto si continua a respingere le domande di arruolamento dei miei connazionali. Ma vi rendete conto» soggiunse alzando la voce «che in questa città, in cui vivono mezzo milione di italiani, gli agenti capaci di parlare la loro lingua sono soltanto undici, compreso il sottoscritto e l'agente Bonoil che, in realtà, è un francoirlandese?» «Avete ragione, Petrosino. Avete ragione» lo calmò McAdoo. «Io, lo sapete, sto facendo di tutto...» Pagina 7 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt «Lo so, lo so, signor assessore» convenne il detective. [p. 18] «Però così non si può andare avanti. Io passo la vita ad arrestare gente che poi, per una ragione o per l'altra, il magistrato rimette in libertà.» «Bene» disse McAdoo. «Torniamo al nostro argomento. L'indagine va ripresa dall'inizio. Occorrono altre prove per poter arrestare definitivamente quei gangster. Io sarei del parere che Petrosino andasse domani a Buffalo a parlare con la famiglia Madonnia. Forse potrà trovare qualche nuovo indizio.» Tutti approvarono, e Petrosino chiese a McCafferty di consegnargli l'orologio riscattato con la polizza di pegno trovata indosso a Tommaso Petto. «Anche questo potrebbe essere una prova» commentò, osservando il grosso «Roskoff» da poco prezzo consegnatogli dal collega. Il sospetto di Petrosino risultò esatto. L'orologio era effettivamente appartenuto a Benedetto Madonnia, e fu subito riconosciuto sia dalla moglie sia dal figlio della vittima. La donna spiegò anche di aver scritto lei stessa il biglietto trovato in tasca all'ucciso. Un amico le aveva segnalato che Nitto stava correndo serio pericolo a New York, e lei gli aveva scritto per indurlo a tornare a casa. Grazie alle indicazioni dei congiunti della vittima, Giuseppe Petrosino riuscì infine a ricostruire l'intero mosaico della vicenda. Dopo il suo arresto, Giuseppe Di Primo aveva mandato il cognato Benedetto Madonnia da Giuseppe Morello per reclamare la sua parte del ricavato dallo spaccio di una partita di dollari falsi. Morello aveva però rifiutato e Madonnia, dopo un'accesa discussione, aveva minacciato di rivolgersi alla polizia. Con ciò, l'uomo aveva firmato la propria condanna a morte. A ucciderlo era stato Tommaso Petto, il killer della banda. Di questo, Petrosino era certissimo. Oltre alla polizza di pegno trovata in suo possesso, il detective aveva appreso da alcuni avventori della Stella d'Italia che Madonnia e Petto erano usciti insieme dal locale la sera del delitto. [p. 19] Soddisfatto della propria missione a Buffalo, il poliziotto saltò sul primo treno in partenza per New York. Aveva fretta. Adesso che finalmente era in possesso della prova che avrebbe messo Tommaso Petto con le spalle al muro non voleva perdere tempo nel timore che la banda riuscisse a eclissarsi. Ma quando il detective giunse alla centrale ebbe l'amara sorpresa di apprendere che il «New York Evening Journal» era uscito poche ore prima con la notizia in esclusiva del riconoscimento dell'orologio da parte della famiglia Madonnia. «A quest'ora avranno preso il volo» commentò con rabbia Petrosino gettando via il giornale. Ma si sbagliava. Incredibilmente, quella sera gli agenti del Secondo distretto riuscirono a catturare i componenti dell'intera banda. Li trovarono seduti tranquilli alla Stella d'Italia a bere vino e a giocare a carte. Mancava soltanto Vito Cascio Ferro, che Schmittberger stabilì essere fuggito a New Orleans. Nel suo rapporto, lo stesso Schmittberger precisò che Tommaso Petto, contrariamente alle sue abitudini, si era lasciato arrestare senza opporre la minima resistenza. A questo punto va detto che il comportamento remissivo di Petto e dell'intera banda aveva una sua spiegazione. I gangster infatti, su consiglio di Vito Cascio Ferro, avevano sostituito Tommaso Petto con un altro individuo che, sia per il colore dei capelli e la piega dei baffi sia per l'eccezionale muscolatura, poteva corrispondere ai dati segnaletici del «Toro» Quest'uomo si chiamava Carlo Costantino, ma in America, dove era giunto pochi mesi prima, aveva cambiato il proprio nome in Giovanni Pecoraro. La sera della retata, agli agenti che lo scambiarono per Tommaso Petto, Costantino alias Pecoraro rifiutò di declinare le proprie generalità. «Io non sono Petto» si limitò a dire. Gli agenti, per niente convinti, gli frugarono nelle tasche e vi trovarono un documento intestato a Petto Tommaso, di anni ventiquattro. Pagina 8 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt [p. 20] «Cosicché voi non sareste Petto?» gli chiesero sventolandogli il documento sotto il naso. Il presunto Petto non rispose, e si lasciò portar via. L'incredibile imbroglio anagrafico escogitato dai banditi ebbe pieno successo. Due giorni dopo, quando, secondo il sistema giudiziario americano, gli imputati furono condotti davanti alla corte, nessuno aveva ancora avuto la possibilità di scoprire la sostituzione di persona. L'udienza iniziò alle 9 del mattino del 29 aprile 1903. Tommaso Petto era accusato di essere l'esecutore materiale del delitto, gli altri di averlo aiutato nell'impresa. E' inutile dire che il processo si trasformò in farsa fin dalle prime battute. Il presunto Tommaso Petto, servendosi dell'interprete, chiese di poter fare una dichiarazione. E quando ne fu autorizzato disse ad alta voce: «Io non sono Tommaso Petto!» La sua affermazione sollevò mormorii di sorpresa nell'aula. «E chi sareste, allora?» gli chiese stupito il presidente. «Io mi chiamo Giovanni Pecoraro. Posso provarlo.» Dalla sala, dove si assiepavano molti italiani, si levarono grida e risate. «Ma perché non lo avete detto prima?» chiese ancora il presidente. «Io dissi di non essere Petto agli agenti che mi arrestarono due sere fa» precisò Pecoraro dando tempo all'interprete di tradurre le sue parole. «Da allora» riprese «non ho più avuto modo di parlare con qualcuno che comprendesse la mia lingua.» A conclusione dell'udienza Giovanni Pecoraro fu scarcerato, mentre gli altri furono rinviati a giudizio con l'accusa di concorso in omicidio. Ma data la piega che avevano preso le cose, e col vero Tommaso Petto sempre latitante, l'accusa non poté essere sostenuta. Soltanto Giuseppe Morello e Ignazio Lupo dovettero subire un secondo processo per fabbricazione e spaccio di dollari falsi. Furono, in un primo tempo, condannati a [p. 21] venticinque anni di carcere, ma, in seguito, grazie all'abilità dei loro avvocati, riuscirono a ottenere la sospensione della pena. Giuseppe Di Primo, cognato di Benedetto Madonnia, uscì da Sing Sing due anni dopo. Petrosino fu subito informato che l'ex detenuto era stato visto alla Stella d'Italia, dove aveva insistentemente chiesto notizie dell'amico Tommaso Petto. «Lasciatelo fare, ma senza perderlo d'occhio» disse il detective ai suoi agenti. «Chissà che non ci aiuti a ritrovare il "Toro".» Giuseppe Di Primo riuscì invece a sfuggire alla sorveglianza. E circa un mese dopo, giunse alla centrale di polizia la segnalazione che a Wilkes-Barre, in Pennsylvania, Tommaso Petto, che nel frattempo aveva mutato il proprio nome in Tom Carrillo, era stato freddato sulla porta di casa da uno sconosciuto. «Di Primo è stato più bravo di noi» fu il commento di Petrosino. NOTE: (*) Più tardi, per questa ragione, il caso venne anche erroneamente definito come quello dell'«uomo tagliato a pezzi» [p. 23] II NEGLI aNNI a cAVALLO dEL sECOLO Negli anni a cavallo del secolo, New York era rapidamente diventata la «città italiana» più popolosa dopo Napoli. Un quarto dei suoi abitanti, oltre mezzo milione, risultava composto di italiani. Mentre un altro milione di nostri connazionali si era sparso nei vari stati dell'Unione. Questa gigantesca ondata migratoria, che proveniva dalle regioni più povere e più meridionali dell'Italia, si era riversata in America nel giro di pochi anni creando problemi spesso insolubili. Se infatti la giovane industria americana aveva estremo bisogno di braccia a buon mercato, il paese, dal canto suo, non era attrezzato per accogliere i nuovi ospiti. Di conseguenza, il primo impatto degli italiani col Nuovo Mondo fu estremamente duro. Privi di istruzione, resi ciechi, sordi e muti dall'incapacità di esprimersi nella lingua del paese, Pagina 9 Arrigo Petacco. joe petrosino, l'uomo che sfidò per primo la mafia siciliana.txt essi finirono per raggrupparsi dando vita in ogni città a ghetti le cui condizioni sono difficilmente descrivibili. A New York, per esempio, il mezzo milione di italiani che decise di fermarsi in questa città, si ammucchiò nei decrepiti edifici in legno dell'East Side, a ridosso del ponte di Brooklyn, che i newyorkesi avevano da tempo abbandonato per stabilirsi in zone residenziali più moderne. L'insediamento degli italiani nell'East Side fece naturalmente la fortuna degli speculatori e dei padroni di case, ma trasformò anche il quartiere in una sorta di formicaio umano dove la miseria, la delinquenza, l'ignoranza e la sporcizia erano gli elementi predominanti. [p. 24] I rapporti di osservatori autorevoli che studiarono in quel periodo le condizioni di vita del quartiere, offrono un quadro agghiacciante della situazione. Il commediografo italiano Giuseppe Giacosa, che lo visitò nel 1898, ha scritto: «E' impossibile dire il fango, il pattume, la lercia sudiceria, l'umidità fetente, l'ingombro, il disordine di quella zona.» Questo era il quartiere italiano di New York a cavallo del secolo. Un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni giorno si celebrava la festa di qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti italiani, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. Un formicaio in continuo movimento, dove i pedoni dovevano essere sempre pronti a scansare le docce di rifiuti che piovevano dalle finestre, dove oltre cinquemila carretti a mano si aggiravano per le strade vendendo di tutto, dai lacci da scarpe alle mortadelle. Questo era l'ambiente in cui centinaia di migliaia di nostri connazionali si erano trasferiti e ora lottavano per rifarsi una vita. Dimenticati dal loro governo che si limitava a rallegrarsi per il cospicuo reddito fornito dalla «politica dell'esportazione delle braccia»; snobbati dagli aristocratici diplomatici che quasi si vergognavano di rappresentare una siffatta schiera di connazionali, essi finirono ben presto per ritrovarsi, come al paese d'origine, alla mercé degli speculatori e dei malviventi. E' infatti inutile dire che l'affollatissimo quartiere italiano rappresentò quasi subito un grosso problema per la polizia. Centinaia di malviventi, approdati felicemente in America grazie all'allegro sistema della distribuzione dei passaporti instaurato dal governo italiano per liberarsi, oltre che degli affamati, anche delle «pecore nere», trovarono in questo quartiere il terreno adatto per trapiantarvi i propri sistemi mafiosi. Il detective Giuseppe Petrosino, che era allora l'italiano più famoso di New York, si batté strenuamente per arginare [p. 25] l'afflusso di criminali che minacciava di inquinare in modo irreparabile la colonia italiana che stava sorgendo. Ma i suoi sforzi risultarono vani. Le leggi e le tradizioni liberali americane non gli fornivano gli strumenti necessari per condurre a compimento una radicale opera di disinfestazione. Accadde così che, in un certo senso, le autorità americane finirono per rassegnarsi all'idea che Little Italy si trasformasse in un bubbone infetto. Ci si limitò soltanto a circondare simbolicamente il ghetto italiano con un cordone sanitario, lasciando in pratica liberi i pochi malviventi di taglieggiare la moltitudine dei loro connazionali. Che gli italiani, insomma, se la sbrigassero pure fra di loro, l'importante era impedirne lo sconfinamento nelle zone più progredite della città. Un sintomo di tale accettazione quasi fatalistica del problema italiano, lo si rileva in un rapporto dell'allora assessore alla polizia della città di New York, William McAdoo. Egli scrisse: «Considerando la spaventosa congestione della popolazione, il gran numero di famiglie che accoglie ogni edificio, le condizioni dei quartieri e la strettezza delle strade, il basso East Side dove vivono gli italiani presenta per la polizia un problema insolubile. La densità della popolazione in alcune zone ha dell'incredibile. E' semplicemente impossibile inscatolare degli esseri umani in questi alveari aperti sugli stretti canyon delle strade e pretendere poi di fare di loro dei cittadini rispettosi e ossequienti alla legge.» D'altra parte, la legge faceva di tutto per non farsi rispettare. Pagina 10

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.