Prima edizione 1957 Quarta edizione 1971 BERGSON Introduzione alla metafisica a cura di Vittorio Mathieu Editori Laterza Bari Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli, Bari, via Dante 51 CL 20-0075-X PREFAZIONE IL POSTO DELL’«INTRODUCTION» NEL BERGSONISMO Chi voglia trovare raccolto in poco spazio tutto l’essenziale della filosofia di Bergson non può rivolgersi a testo migliore dell’Introduction à la métaphysique. Questo breve saggio, preparato nel 1902 per la «Revue de métaphysique et de morale» del 1903 e ripreso poi, in forma di pochissimo mutata, nel volume del 1934 dal titolo La pensée et le mouvant, non solo contiene tutti i principali temi della speculazione bergsoniana, almeno del primo periodo, ma li presenta in una sintesi equilibrata, che rende più facile il porli in una giusta luce. Le tesi che nell’Essai sur les données immédiates de la conscience (1889) e in Matière et mémoire erano state presentate isolatamente, a proposito di problemi particolari, e in forma talora polemica, qui ricompaiono come rifuse in una intuizione unitaria, che a ciascuna assegna il suo posto e il suo giusto peso nell’insieme, correggendo quelle unilateralità che potevano fuorviare il lettore e che, anzi, — Bergson lo sapeva ormai — lo avevano in moltissimi casi fuorviato. La filosofia, sostenne sempre Bergson, deve sempre trattare, a volta a volta, un problema particolare, rimanere aderente ai fatti specifici considerati, fuggire la genericità; e le opere di Bergson sono tutte discussioni serrate di una questione ben determinata, condotte in base non a princìpi generali bensì a studi e a osservazioni strettamente attinenti all’argomento. Ma l’argomento specifico di cui tratta L’Introduction à la métaphysique è la stessa possibilità ed essenza della filosofia: per cui quelle questioni che nelle opere precedenti comparivano in qualche modo isolate, qui ricompaiono a titolo di esemplificazioni di un metodo, e su di esse si esercita una riflessione, per dir così, di secondo grado, la quale più facilmente le collega in una visione unitaria. Questo scritto ci aiuta, insomma, a trovare una sistematicità nella filosofia di Bergson: non una sistematicità preconcetta di cornici prefabbricate, ma una sistematicità funzionale, analoga a quella di un organismo vivente. Bergson insiste assai meno sull’aspetto sistematico della filosofia che su quello della specificità delle questioni trattate: ma, quando per sistema si intenda una concreta organicità, bisogna ammettere che per Bergson tale aspetto, anche se meno rilevato, non poteva in realtà andare disgiunto dall’altro. Bergson non ha soltanto raccomandato al filosofo di dire sempre, a volta a volta, una cosa determinata: ha anche sostenuto che un vero filosofo, attraverso tutti i suoi discorsi, non dice, in fondo, che una cosa 1 sola . Ora, la sistematicità o, se si preferisce, l’organicità della filosofia è precisamente ciò che permette di esprimere, in tutta la serie delle questioni trattate, quell’ unica cosa che il filosofo cerca di dire. Che, del resto, un ritorno di Bergson sulle ragioni del proprio filosofare fosse tutt’altro che superfluo, era dimostrato dalla scarsa comprensione a cui gli scritti precedenti del filosofo erano andati incontro. I suoi esaminatori all’esame di doctorat si erano dichiarati ammirati dalla tesi che Bergson aveva presentato (l’Essai sur les données immédiates de la conscience, scritto nel 1888): ma avevano confessato per primi di non intendere bene dove Bergson volesse andare a parare. In seguito, i lettori avevano scambiato l’Essai per una mera descrizione psicologica, condotta secondo uno stile impressionistico che in quel tempo cominciava, pur tra molti contrasti, a divenire di moda. Che Bergson volesse partire di là per sviluppare una filosofia tecnica, generalmente non si pensava; tanto che il suo secondo volume, Matière et mémoire (1896), che non poteva più lasciar dubbi in proposito, meravigliò al suo apparire. Ma Matière et mémoire era un libro tecnico a tal punto, che pochi ebbero la pazienza di ponderarne bene le tesi, anche se il nome del giovane filosofo cominciava ad essere conosciuto all’interno e all’esterno dell’ambiente universitario francese. La discussione su Il parallelismo psicofisico e la metafisica positiva (cioè sulle tesi fondamentali di Matière et mémoire) tenuta alla Société 2 française de philosophie il 2 maggio 1901 , documenta l’attenzione che Bergson, con i suoi due primi libri, aveva suscitata; ma documenta, altresì, la non troppo approfondita comprensione dei motivi che lo guidavano. Incomprensione tra i pur acuti oppositori, e incomprensione, forse, anche tra i più accesi sostenitori della nuova filosofia, sebbene Bergson, appunto perché si trattava di alleati, non potesse pubblicamente esprimersi con altrettanta franchezza nei loro riguardi. Ora, che cosa rendeva difficile capire Bergson? Non certo il dettato, sempre chiaro e perfetto, delle sue opere, e neppure una mancanza di nettezza nelle singole prese di posizione; Bergson dichiarava sempre molto esplicitamente il suo punto di vista. Ma, evidentemente, se si capiva molto bene ciò che Bergson voleva dire, non si capiva altrettanto bene perché Bergson lo dicesse; cioè, quale funzione avessero quelle sue affermazioni, come si connettessero tra loro, quale fosse quell’unica intuizione che, come Bergson dirà più tardi, doveva trovarsi nel loro fondo. Insomma, ciò che faceva difetto era precisamente l’evidenza dell’aspetto organico della filosofia di Bergson. Ciò spiega perché l’Introduction à la métaphysique, scritta poco dopo la citata discussione alla Société française de philosophie e con il proposito abbastanza scoperto di far capire quale fosse lo scopo che, nel far filosofia, Bergson aveva di mira, sia tanto utile a illuminarci sul lato sistematico della filosofia di Bergson. È un vantaggio che presentano anche gli altri scritti metodologici che costituiranno la raccolta di La pensée et le mouvant (particolarmente i due capitoli introduttivi, scritti nel 1922), ma che nella Introduction à la métaphysique — questa specie di Discorso sul metodo bergsoniano, steso dopo che il metodo aveva già dato taluni fra i suoi frutti migliori — appare in forma particolarmente evidente. Sarà utile, perciò, richiamati in breve gli elementi che entrano a far parte dell’Introduction, fermarsi soprattutto sul modo in cui la loro sintesi si configura. LA DURATA Il primo elemento che entra a costituire il materiale della Introduction è l’esperienza del durare interiore. Era stato, questo, il punto di partenza della speculazione di Bergson, a torto considerato da taluni come il suo punto d’arrivo. La durata è il «dato immediato» della coscienza: molto più genuinamente immediato dei dati di fatto su cui ostentavano di fondarsi i positivisti. Ma questo dato immediato non è presentato come fine a se stesso: perché su di esso Bergson intende piuttosto far leva per sollevarsi alla comprensione di molti, e forse di tutti i problemi che lo interessano. Nell’Essai la descrizione della durata era fatta con tanta efficacia, che molti ebbero l’impressione che Bergson, partito dall’immediato, nell’immediato intendesse rimanere; questo giudizio pesa ancor oggi su una parte dell’interpretazione del bergsonismo, secondo la quale — lo si dica a lode o a biasimo di Bergson — il bergsonismo sarebbe una filosofia del vago e dell’indistinto, un semplice cullarsi nelle sensazioni del proprio vivere: ciò che non corrisponde punto alla tensione intellettuale che si riscontra nelle pagine bergsoniane. Bergson aveva semplicemente osservato che la «durata», cioè la vita psichica interiore, non è fatta di elementi staccati, dai contorni ben netti, che si succedano l’uno all’altro, ma è un fluire continuo, in cui solo arbitrariamente posso segnare confini tra uno «stato» di coscienza e un altro: che è una successione indistinta di sfumature qualitative, a cui restano assolutamente estranee la misura e la spazialità. Vi sono, poi, nell’Essai, espressioni più spinte, secondo cui la durata non conterrebbe, se non per effetto di un’astrazione, una molteplicità di momenti. Bergson afferma che «è concepibile la successione senza la distinzione» tra un momento e l’altro (p. 75); che la durata è qualità pura, priva di quantità; che è un movimento puro, che «non ha nulla in comune» con lo spazio (p. 80), ecc. Il senso di queste espressioni outrées non appare, a tutta prima, molto chiaro: perché se manca ogni molteplicità, non si vede neppure come possa distinguersi un prima da un dopo; se non vi è distinzione tra un momento e l’altro, non si vede come i momenti possano succedersi, ecc.: tanto che in altri punti Bergson medesimo è costretto a parlare diversamente, e a dire non più che i momenti della durata non si distinguono, ma che «sfumano» l’uno nell’ altro come i colori dell’arcobaleno, che «si fondono» e si organizzano l’uno con l’altro, che si compenetrano senza contorni precisi (p. 98). Il valore di quelle espressioni enfatiche — e, al tempo stesso, di queste attenuate — diventa chiaro se si bada allo scopo che Bergson vuole conseguire: staccarci dal modo d’essere degli oggetti spaziali, ciascuno dei quali rimane fuori degli altri, li esclude da sé e può coesistere solo «accanto» ad essi, per portarci a considerare un modo d’essere diverso, una sfera d’esperienza in cui due cose possono coesistere anche senza essere l’una esterna all’altra, e può trovarsi raccolta una pluralità, anzi tutta una ricchezza di elementi e di aspetti, che pure non si lasciano contare e porre l’uno accanto all’altro come punti nello spazio. Se noi analizziamo un nostro stato d’animo anche apparentemente semplice, un sentimento momentaneo, ad esempio, o un’emozione fugace, è ben difficile che non vi troviamo una molteplicità, almeno virtuale, di componenti. In un sentimento di gioia troveremo in forma implicita, se soltanto vi facciamo attenzione, una quantità di rappresentazioni liete, spesso associate a una vena di tristezza, non senza un pizzico di ansietà, ecc. Ciascuna di queste componenti, se analizzata a sua volta, si rivela anch’essa composta, e così via indefinitamente. Sennonché, mentre l’analisi ha per effetto di trarre ognuna di queste