JOE R. LANSDALE IN FONDO ALLA PALUDE (The Bottoms, 2000) Questo libro è dedicato alla cara memoria di mia madre e mio padre, A.B. (Bud) Lansdale e O'Reta Lansdale, che hanno superato la Grande depressione, la recessione, il solito tran tran e i periodi diffìcili senza la- mentarsi. Ce ne dovrebbero essere di più, di persone come loro. Prologo Una volta le notizie non viaggiavano come adesso. Non a quei tempi. Né per radio né sui giornali funzionava così. Non nel Texas orientale. Le cose erano diverse. Ciò che succedeva negli altri posti erano affari loro. Le notizie provenienti dal resto del mondo ci interessavano, naturalmen- te, ma non dovevamo per forza sapere ogni dettaglio su cose che non ri- guardavano da vicino Bilgewater nell'Oregon, o El Paso dall'altra parte dello stato, o su verso gli stati del nord, in quel buco del culo di Amarillo. Al giorno d'oggi tutto ci aiuta a conoscere ogni più truculento dettaglio degli omicidi più eclatanti o di quelli da pagina interna, e te li ritrovi dap- pertutto, anche se si tratta di qualche commesso di drogheria ucciso nel Maine che non ci riguarda nemmeno di striscio. Negli anni Trenta poteva avvenire un assassinio a qualche contea di di- stanza e tu non ne avresti mai saputo niente, a meno di esserne direttamen- te coinvolto. E ciò perché, come ho detto, le notizie a quei tempi andavano meno veloci e i tutori della legge preferivano badare ai fatti loro. Certo, sarebbe stato meglio avere notizie trasmesse più velocemente, o almeno trasmesse e basta. Ciò che è stato è stato, però, e ancora adesso che sono sugli ottanta e vi- vo nell'ospizio dei vecchi, nella stanza che ha ormai lo stesso odore del mio corpo che sta andando in malora, in paziente attesa di un piatto di non- si-sa-cosa tagliato a dadi e senza alcun sapore, con un tubo infilato nei pol- moni, la televisione su qualche talk show da idioti, ho ben stampati nella mente gli avvenimenti di allora, quasi settant'anni fa, come se fossero ap- pena successi. Tutto accadde, ricordo, negli anni 1933 e '34. PARTE PRIMA 1 Credo che c'era anche allora gente coi soldi, ma non eravamo certo noi. Si era in piena Depressione. E se anche fossimo stati una di quelle famiglie coi soldi non ci sarebbe stato molto da comprare, a parte maiali, galline, verdura e roba da mangiare, e dato che i primi tre li allevavamo, ci arran- giavamo col baratto. Papà coltivava un campo, e dove stavamo noi non era così male per farci crescere della roba. Il vento aveva spazzato via tutta la parte nord- occidentale del Texas, come del resto anche l'Oklahoma, ma in tutto il Te- xas orientale abbondava il verde e il suolo era ricco e c'era abbastanza pioggia da far crescere presto e bene un sacco di roba. Anche durante i pe- riodi secchi il terreno manteneva abbastanza umidità, e se anche il grano non era buono come il solito, almeno cresceva. In effetti mentre il resto del Texas era stremato e ridotto in polvere, la parte est andava soggetta a tre- mendi temporali e inondazioni. Sarebbe stato più facile perdere un raccolto per le piogge che per la siccità. Papà portava avanti anche un negozio di barbiere, aperto tutti i giorni tranne domenica e lunedì. Svolgeva anche le funzioni di agente di polizia locale, ma solo perché nessun altro aveva accettato l'incarico. Per un certo periodo era stato persino giudice di pace. Ma alla fine decise che per lui era troppo, così fu rilevato da Jim Jack Formosa. Papà diceva sempre che per sposare la gente o dichiararla ufficialmente morta non c'era nessuno al mondo che poteva battere Jim Jack. Noi abitavamo giù ai grandi boschi vicino al fiume Sabine in una casa di tre stanze, bianca, che papà aveva costruito prima della nostra nascita. A- vevamo una perdita nel tetto, niente elettricità, una stufa a legna che faceva fumo, un fienile che stava in piedi per miracolo, un portico piuttosto picco- lo con una zanzariera rappezzata e una baracca in legno preda dei serpenti che era il gabinetto esterno. Usavamo lampade a kerosene, acqua pompata dal pozzo e andavamo sempre fuori a caccia e a pesca per rimpolpare la dispensa. Avevamo più o meno quattro acri di terra strappati al bosco e altri venticinque di bosco fit- to e pini. Coltivavamo i quattro acri di quella terra sabbiosa con l'aiuto di una mula chiamata Sally Redback. Avevamo anche un'auto, ma papà la usava più che altro per svolgere le sue funzioni di agente e per la funzione domenicale. Per il resto del tempo andavamo a piedi, oppure, specie io e mia sorella, cavalcavamo Sally Redback. I nostri boschi e quelle centinaia di acri che circondavano la nostra terra erano il territorio dei nostri giochi, delle pulci penetranti e delle zecche. A quei tempi nel Texas orientale i grandi boschi non erano ancora stati butta- ti giù dall'industria e non avevamo bisogno di un corpo forestale per inse- gnarci che le foreste avevano bisogno di aiuto per sopravvivere. Noi ave- vamo sempre pensato che siccome erano sopravvissute per secoli senza il nostro aiuto, probabilmente sarebbero andate avanti così. Non appartene- vano a nessuno, a quei tempi, anche se quella del legno era una grande in- dustria e andava crescendo di giorno in giorno. Ma c'erano ancora alberi poderosi e luoghi dimenticati nei boschi e lun- go gli argini ombreggiati dei fiumi che non erano ancora stati toccati da nessuno, a parte gli animali. C'erano cinghiali, scoiattoli, conigli, procioni, opossum, qualche arma- dillo, uccelli d'ogni genere e un mucchio di serpenti. A volte potevi vedere mocassini acquatici nuotare in gruppo lungo il fiume, i foro occhietti catti- vi che sporgevano come nodi in un ciocco. E guai se qualcuno ci cadeva dentro, e poveraccio quello che credeva di poterli fregare nuotando sott'ac- qua perché aveva sentito dire che così non potevano mordere. Quelli non solo possono farlo, ma lo fanno anche molto volentieri! C'erano anche un sacco di cervi che popolavano i boschi. Forse meno numerosi di oggi, poiché adesso la gente li alleva come il mais e poi li fal- cia da una comoda postazione con un fucile ad alta precisione in battute di caccia che durano tre giorni interi di bevute. Cacciano cervi che hanno nu- trito a granoturco e cresciuto come cagnolini da salotto, così da potergli sparare senza difficoltà, e sono capaci anche di sentirsi come eroi di un sa- fari. Gli viene a costare di più sparare ai cervi, scarrozzare i loro cadaveri con il pickup e fare un trofeo con la testa che andare al supermercato e comprare lo stesso peso in bistecche. Poi ci sono quelli che dopo la mat- tanza amano dipingersi la faccia con il sangue del cervo e scattare foto, come se tutto ciò facesse di loro dei veri guerrieri. Verrebbe da credere che quei figli di puttana di cervi siano delle bestie feroci e pericolose. Stavo dicendo in che modo si viveva. E stavo parlando di tutti i nostri giochi. E in aggiunta c'era anche l'Uomo-Capra. Metà capra e metà uomo, si aggirava dalle parti di quello che chiamavano Swinging Bridge, il ponte che balla. Prima del momento di cui vi sto parlando non l'avevo mai visto, ma qualche volta, di notte, mentre eravamo fuori a caccia di opossum, mi sembrava di sentirlo ululare e guaire vicino al ponte di cavi che stava ardi- tamente sospeso sul fiume e dondolava nel vento al chiaro di luna. Dicevano che rapiva animali e bambini e nonostante non avessi mai sa- puto di nessun bambino che fosse stato divorato, alcuni contadini sostene- vano che l'Uomo-Capra gli avesse rubato il bestiame e alcuni bambini che conoscevo affermavano che i loro cugini erano stati rapiti dall'Uomo- Capra e che non erano stati mai più rivisti. Si diceva che non si spingeva mai fino alla strada principale perché i predicatori battisti ci transitavano regolarmente a piedi o in auto durante i loro giri, e così facendo la santificavano. La chiamavamo Preachers' Road, la Strada dei predicatori. Si diceva anche che l'Uomo-Capra non usciva mai dai boschi e dalle ter- re basse che costituivano le paludi del fiume Sabine e che non poteva sop- portare le terre alte. Aveva bisogno di sentire quell'umida e spessa poltiglia sotto i piedi, che in realtà erano degli zoccoli. Papà invece sosteneva che non c'era nessun Uomo-Capra e che si tratta- va solo di una leggenda proveniente dagli stati del sud. Quello che si senti- va là fuori erano solo acqua e rumori di animali, ma ve lo posso giurare, quei suoni da accapponare la pelle facevano davvero pensare a una capra ferita. Cecil Chambers, che lavorava con papà nel negozio di barbiere, di- ceva che si trattava con ogni probabilità di un puma. Poteva capitare di ve- derne qualcuno, di tanto in tanto, nel profondo dei boschi, ed erano in gra- do di strillare come una donna, diceva. Io e mia sorella Tom (in realtà si chiamava Tomasina, ma preferivamo chiamarla Tom perché era più facile da ricordare) perlustravamo quei bo- schi dalla mattina alla sera. Era una cosa normale per i bambini, a quei tempi. Quei boschi erano come una seconda casa per noi. Avevamo un cane che era metà hound e metà terrier. Come cane da cac- cia Toby era un vero figlio di puttana. Ma nell'estate del '33, dalla quercia sulla quale s'inerpicava per abbaiare a uno scoiattolo che aveva scovato, si staccò un ramo e gli cadde proprio addosso, colpendolo talmente forte che non riusciva più a muovere spalle, zampe e coda. Lo portai a casa in brac- cio. Lui guaiva, Tom e io eravamo in lacrime. Papà era nei campi ad arare con Sally Redback e cercava di rimuovere con l'aratro un pezzo d'albero che era conficcato nel terreno. Ogni tanto ur- tava la base con una lama e faceva schizzare una scheggia, ma quello non cedeva. Interruppe il suo lavoro quando ci vide, si tolse le briglie dalle spalle, le gettò a terra e lasciò Sally Redback nel campo legata all'aratro. S'incammi- nò attraversando il campo e noi gli portammo Toby e lo adagiammo sul soffice terreno appena rivoltato. Lui cominciò a esaminarlo. Diversamente dalla maggior parte degli altri contadini, non indossava mai la tuta. Vestiva sempre pantaloni kaki, camicia e scarpe da lavoro, cappello di feltro marrone. La sua versione di vestito elegante era una ca- micia bianca pulita con una sottile cravatta nera. Questa volta si tolse il cappello sul quale il sudore aveva lasciato un anello scuro e s'accovacciò appoggiando il cappello su un ginocchio. Aveva capelli castani e alla luce del sole si poteva notare qualche capello grigio. Il viso era un po' affilato e gli occhi, d'un verde ghiaccio nonostante l'espressione dolce, ti passavano da parte a parte. Papà fece ruotare le zampe del cane e tentò di toccargli la schiena, ma Toby ringhiò forte. Dopo un momento, come passando in rassegna tutte le possibilità, disse a me e a Tom di andare a prendere il fucile per portare il povero Toby nei boschi e mettere fine alle sue sofferenze. — Vorrei che non fosse necessario — disse. — Ma è l'unica cosa da fa- re. — Sissignore — dissi, ma le parole mi si strascicarono fuori dalla gola a pezzi come la schiena di Toby. Al giorno d'oggi tutto ciò può sembrare crudele, ma allora non c'erano molti veterinari, e anche se avessimo voluto non avevamo i soldi per por- tarci un cane. Un'altra cosa diversa a quei tempi era che imparavi a conoscere cose come la morte quand'eri ancora molto giovane. Non c'era niente da fare. Si cresceva ammazzando galline e maiali, cacciando e pescando, perciò te la trovavi sempre davanti agli occhi, come in questo caso. E penso che noi avevamo più rispetto verso la vita di quanto molta gente dimostri di averne oggi, e non potevamo tollerare le sofferenze inutili. In casi come questo toccava a noi stessi intervenire, non era lecito passa- re la responsabilità a qualcun altro. Non era un codice scritto, ma era sot- tinteso che, essendo Toby il nostro cane, doveva essere nostra anche la re- sponsabilità. Ed essendo io il maggiore, toccava a me e non a Tom. Tom e io piangemmo un bel po', poi prendemmo una carriola e vi cari- cammo Toby. Avevo già la mia calibro 22 per gli scoiattoli, ma per quello che dovevo fare la cambiai con il fucile da caccia calibro 16 a colpo singo- lo per evitare ogni errore. I ragazzi a quei tempi crescevano a contatto del- le armi e gli veniva insegnato a rispettarle e a usarle in modo corretto. Le armi erano parte della vita di tutti i giorni come una zappa, un aratro o il bidone del burro. Che la responsabilità fosse nostra o no, io avevo circa dodici anni e Tom solo nove. Il pensiero di sparare a Toby spargendogli il cervello tutto in gi- ro non era certo una cosa che non vedevo l'ora di fare. Dissi a Tom che po- teva restare a casa, ma lei rispose che sarebbe venuta con me. Sapeva che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a essere forte. Devo ammettere che non insistetti per farle cambiare idea. Tom prese la pala per seppellire Toby e ci avviammo col vecchio Toby che guaì per un po' nella carriola, ma presto smise. Si limitava a stare steso mentre lo spingevamo con attenzione lungo il sentiero, con la schiena leg- germente ruotata e la testa alta ad annusare l'aria. Ben presto cominciò ad annusare con più forza: certamente aveva avver- tito uno scoiattolo. Aveva sempre avuto un modo speciale di voltare lo sguardo verso di me quando annusava uno scoiattolo, poi puntava la testa nella direzione dove voleva andare e partiva di corsa abbaiando come un matto con quel suo vocione. Papà diceva che era il suo modo per farci ca- pire da dove proveniva l'odore prima che sparisse dalla vista. Be', aveva la testa girata in quel modo e io sapevo cos'avrei dovuto fare, ma decisi di rimandare lasciandomi guidare da lui. Ben presto ci trovammo su uno stretto sentiero ingombrato da aghi di pino. Toby abbaiava che sembrava impazzito. Alla fine ci trovammo con la carriola davanti a un albero di noce americano. In cima fra i rami più alti due scoiattoli belli cicciottelli saltavano tutt'intorno come prendendosi gio- co di noi. Sparai a tutti e due e li gettai nella carriola accanto a Toby e, ro- ba da non crederci, lui cominciò a segnalare altri scoiattoli e ad abbaiare ancora. Era dura spingere quella benedetta carriola su quel terreno accidentato, ma lo facemmo, dimenticando tutto ciò che avremmo dovuto fare per Toby. Quando la finì di trovare scoiattoli era quasi notte e noi eravamo nel profondo dei boschi con sei scoiattoli ed eravamo stanchi morti. Toby era là, sciancato, ma non l'avevo mai visto lavorarsi gli alberi in quel modo. Era come se Toby sapesse che cosa stava per accadere e stesse cercando di rimandare le cose rintracciando scoiattoli. Ci sedemmo sotto un grande eucalipto e lasciammo Toby nella camola con le nostre prede. Il sole stava cadendo dietro gli alberi come una grossa susina matura che si sta spiaccicando. Le ombre si alzavano attorno a noi come omoni scuri e minacciosi. Non avevamo luci da caccia. C'era solo la luna, e non era ancora molto alta nel cielo. — Harry — disse Tom. — Cosa dici di Toby? — Non sembra avere nessun dolore — risposi. — E ha beccato sei scoiattoli. — Già. Ma la sua schiena è sempre rotta. — Così pare. — Forse possiamo nasconderlo qui e venire tutti i giorni a dargli da mangiare e da bere di nascosto. — Non credo che sia una buona idea. Pulci penetranti e zecche se lo mangerebbero vivo. — Avevo pensato a quello perché sentivo punture su tutto il corpo e sapevo che la notte avrei dovuto passare un sacco di tempo con lampada e pinzette a tirarle fuori da tutte le parti, a bagnarmi col kero- sene e a risciacquarmi. Durante l'estate io e Tom andava a finire che lo fa- cevamo quasi tutte le sere. Le pulci erano così fitte che si radunavano in cima alle erbacce aspettando la preda in certe pile che piegavano addirittu- ra i rami. C'era una marea di tafani nel bosco, specie se costeggiavi il fiu- me, e inoltre era pieno di zecche affamate. A volte nel tardo pomeriggio le zanzare s'alzavano in volo in una tale quantità che sembravano una nuvola nera. Per respingere zecche e pulci ci legavamo alle caviglie degli stracci im- bevuti di kerosene, ma non posso dire che funzionassero granché, a parte la zona immediatamente attorno agli stracci. Quelle bestie si facevano strada fra gli abiti e il corpo e prima di notte s'erano annidate belle comode nelle zone più intime e succhiavano il sangue. — Sta diventando buio — disse Tom. — Lo so. Guardai Toby. Si poteva a malapena distinguere un rigonfiamento, den- tro la carriola avvolta dal buio. Mentre stavo guardando sollevò la testa e la sua coda batté un paio di volte sul fondo di legno. — Non credo proprio che potrò farlo — dissi. — Penso che dovremmo riportarlo giù da papà e fargli vedere com'è migliorato. Avrà anche la schiena rotta, ma riesce a muovere la testa e anche la coda, e questo signi- fica che non tutto il corpo è morto. Non siamo costretti a ucciderlo. — Però papà potrebbe non essere d'accordo. — Può darsi di no, ma io non posso sparargli senza dargli un'ultima pos- sibilità. Cazzo, ha preso sei scoiattoli! Lo portiamo indietro e basta. Ci alzammo per metterci in marcia e fu in quel momento che ce ne ren- demmo conto. Ci eravamo persi. Eravamo così concentrati a cacciare que- gli scoiattoli sotto la guida di Toby che ci eravamo inoltrati troppo in pro- fondità nel bosco e non sapevamo più dov'eravamo. Non avevamo paura, naturalmente, o perlomeno non troppo. Battevamo quei boschi in conti- nuazione, ma era diventato scuro e quel posto lì in particolare non c'era familiare. Ci mettemmo in cammino spingendo la carriola, urtando contro le radici, i solchi del terreno e i rami caduti. Intorno a noi si sentivano i rumori della vita selvatica e mi tornava in mente quello che aveva detto Cecil sui puma. Pensai ai maiali selvatici e mi domandai se potevamo incrociarne uno in cerca di ghiande. Poi mi venne in mente che Cecil aveva anche detto che questo era un brutto anno per l'idrofobia e che c'erano in giro molti animali infetti, e il pensiero di tutto ciò mi rendeva nervoso abbastanza da frugarmi in tasca per contare le pallottole. Me ne erano rimaste tre. Mentre camminavamo, il movimento nei cespugli intorno a noi aumen- tava e dopo un po' compresi che qualunque cosa fosse ci stava seguendo. Quando noi rallentavamo l'andatura, rallentava anche lui. Se aumentava- mo, lui aumentava. E non come farebbe un animale o un serpente. Questo era più grande di un serpente. Stava seguendo le nostre tracce come un puma. O un uomo. Toby ringhiava mentre procedevamo, la testa alta, i peli sul retro del col- lo irti. Osservai Tom proprio nel momento in cui la luna spuntando dagli alberi illuminava il suo viso mostrandomi quanto era spaventata. Volevo urlare a qualunque cosa ci fosse tra i cespugli, ma temevo che potesse essere un se- gnale per farci aggredire. In precedenza avevo aperto il fucile per motivi di sicurezza, lo avevo la- sciato nella carriola e spingevo fucile, Toby, pala e scoiattoli tutti insieme. In quel momento mi fermai, presi il fucile, controllai che ci fosse dentro la pallottola, lo chiusi con uno strattone e misi l'indice sul grilletto. Toby aveva cominciato a fare rumore, passando dai grugniti ai latrati. Guardai Tom. Lei afferrò saldamente la carriola e cominciò a spingere. Mi accorsi che faceva fatica sul terreno molle, ma io dovevo tenere ben te- so il fucile, e non potevamo neppure mollare Toby, dopo quello che ave- vamo passato. Qualunque cosa ci fosse tra i cespugli rallentò per un attimo, spezzando appena appena qualche foglia, poi il silenzio. Aumentammo la velocità e non lo sentimmo più. E non avvertimmo più neppure la sua presenza. Alla fine mi sentii abbastanza coraggioso da aprire di nuovo il fucile, lasciarlo piegato nella carriola e riprendere a spingere. — Che cos'era? — chiese Tom. — Non lo so — risposi. — Sembrava grosso. — Già. — Era l'Uomo-Capra? — Papà dice che non esiste nessun Uomo-Capra. — D'accordo, ma qualche volta può sbagliare anche lui, o no? — Difficile. Andammo avanti per un po'. Trovammo un punto stretto del fiume e at- traversammo con grande difficoltà a causa della carriola. Non avremmo dovuto farlo, ma quello era un buon punto e io ero terrorizzato e volevo mettere più distanza possibile fra noi e quella cosa. Camminammo per un bel pezzo e ci trovammo di fronte una massa di rovi che si aggrappavano attorno agli alberi e sui cespugli tra i rampicanti, formando un muro di spine. Era un muro fatto da cespugli di rose selvati- che. Alcuni rampicanti erano spessi come gomene, le spine come unghie e i fiori nel vento notturno avevano un odore forte e dolce come lo sciroppo di sorgo quando bolle. La macchia di rovi si estendeva in entrambe le direzioni e ci chiudeva da ogni lato. Avevamo girovagato in un labirinto di spine troppo grosso e fitto per girarci attorno, troppo alto e pieno di rovi per poterlo scalare; erano le- gati insieme coi rami più bassi formando un soffitto di rovi sopra di noi. Frugai in tasca e trovai un fiammifero lasciato da quella volta che io e Tom avevamo tentato di fumare qualche sigaretta fatta con le pannocchie e la graspa d'uva, lo accesi con l'unghia del pollice muovendolo lentamente e vidi un largo spazio libero che era stato ricavato fra i rovi. Mi piegai te- nendo il fiammifero davanti a me. I rovi formavano una specie di tunnel alto circa un metro e ottanta e largo altrettanto. Non potrei dire per quanto si estendeva, ma doveva essere un bel pezzo. Scossi il fiammifero e lo gettai via prima che mi bruciasse le dita. — Possiamo tornare indietro oppure attraversiamo questo tunnel — dissi. Tom osservò i rovi attentamente. — Io non voglio tornare indietro da quella cosa. E non voglio neanche infilarmi in quel tunnel. Lì saremo in trappola come topi. Magari quella cosa là sapeva che saremmo rimasti in- castrati, così adesso ci aspetta dall'altra parte, come quella storia che ci ha letto papà. Di quella cosa metà uomo e metà mucca. — Metà uomo e metà toro — la corressi. — Il Minotauro. — Sì. Forse sta aspettando proprio noi, Harry. Naturalmente avevo già pensato a quella storia. — Credo che ci conven- ga infilarci nel tunnel. Così non ci può saltare addosso da tutte le parti. Deve per forza prenderci davanti o dietro. — E se ci sono altri tunnel? A questo non avevo pensato. Ci potevano essere aperture dappertutto. E se conosceva bene il posto tutto quello che una persona, un animale o un Minotauro doveva fare era saltar fuori e azzannarci. — Prendo il fucile — dissi. — Se ce la fai a spingere la carriola, Toby può fare da guardia avvisandoci se salta fuori qualcosa. E io la taglio in due. Presi il fucile e lo preparai. Tom afferrò i manici della carriola e s'avviò traballando attraverso lo spazio fra i rovi. E così ci inoltrammo all'interno. 2 L'odore delle rose era così spesso e forte che quasi stordiva. Mi faceva star male. A volte le spine erano così attaccate ai rampicanti che nel buio non si riusciva a vedere assolutamente niente. Mi strapparono la vecchia maglietta e mi graffiarono le braccia e la faccia. Sentivo Tom dietro di me imprecare tra i denti. Il tunnel di rovi andava avanti per un bel pezzo, poi sentii un rumore di acqua, il tunnel si allargò e sbucammo fuori sul rumoroso fiume Sabine. C'erano dei vuoti fra gli alberi in alto e la luce della luna filtrava e cadeva su ogni cosa come il latte quando ingiallisce e diventa acido. Qualunque cosa ci avesse seguito sembrava essersene andata fuori dai piedi. Guardai la luna e pensai al fiume. — Siamo finiti un bel po' fuori strada. Ma ho capito cosa dobbiamo fare. Seguiremo il fiume per un pezzetto, an- che se non è la direzione giusta, ma credo che non ci sia molto da qui allo Swinging Bridge. Lo attraversiamo, raggiungiamo la strada principale e camminiamo fino a casa. — Pensi che mamma e papà siano in pensiero? — Puoi scommetterci. Spero solo che a vedere tutti quegli scoiattoli gli passi. — E per Toby? — Non ci resta che aspettare e vedere cosa succede. L'argine scendeva leggermente e un sentierino correva lungo il bordo del fiume.