Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) in Antropologia Culturale, Etnologia ed Etnolinguistica Tesi di Laurea Magistrale L’ordine delle cose: la sintassi degli oggetti nelle stanze della malattia. Etnografia di Comunità Residenziali Psichiatriche dell’Alto Vicentino. Relatore Prof. Gianluca Ligi Correlatore Prof.ssa Donatella Cozzi Correlatore Prof.ssa Maria Turchetto Laureando Stefano Fanchin Matricola 845527 Anno Accademico 2015-2016 Lo so del mondo e anche del resto lo so che tutto va in rovina ma di mattina quando la gente dorme col suo normale malumore mi può bastare un niente forse un piccolo bagliore un'aria già vissuta un paesaggio o che ne so. E sto bene Io sto bene come uno quando sogna non lo so se mi conviene ma sto bene, che vergogna. (G. Gaber, Illogica allegria) 2 INDICE INTRODUZIONE. 7 Un unico splendido soggetto. 20 “Che cosa fa l’etnografo? Scrive”. 23 1 - SPECIE DI CASE. 37 CONTESTO DI RICERCA. 37 1. La Comunità Alloggio “Mure”. 42 2. La Comunità Alloggio “La Terra”. 44 3. La Comunità Terapeutica Residenziale Protetta “Col Roigo”. 47 4. I Gruppi Appartamento “Borgo Giara” e “Nove”, il Gruppo “Campobase”. 52 5. La Casa di Salute. 54 VOCABOLARIO DI CASA: COMPENDIO MINIMO. 60 2 - LA CASA DI SALUTE: PERCORSO STORICO ANTROPOLOGICO. 91 1. Eterotopie. 95 2. Perimetri, confini ed altre periferie. 104 3. Con la valigia in mano 109 4. Una casa per la vita. 125 5. Distanze, nomi ed altri segni di presenza. 144 6. La densità del menù. 159 3 7. Venti di Riforma. 166 8. Esiti e destini. 176 3 - NAUFRAGHI DELLO SPAZIO. DERIVE, APPRODI, ANCORAGGI. 188 Dall’ambiente immaginato allo spazio personale. 188 1. Ricorrenze, viaggi ed altri ritorni. 190 2. Soglie. 200 Dallo spazio al territorio: la personalizzazione degli ambienti 210 1. Camere. 211 2. Oggetti di affezione. 219 3. Vuoto e pieno. 228 4. Rifugi. 237 5. Lo spazio del corpo. 242 6. Énclaves. 245 7. Custodie e riserve. 252 Lo spazio comune, fra luoghi ricreati e centri di attrazione 259 1. Luoghi d’attesa. 267 2. Luoghi di controllo. 271 3. Spazi di sperimentazione. 276 4. Oltre la tirannia del luogo e del tempo. 280 4 5. Centri di gravità. 284 L’orizzonte degli oggetti 290 1. Feticci. 293 2. Documenti. 298 3. Cose d’altri. 302 4. Cose costruite ed altre abilità. 305 5. Doni. 309 4 – DAL GESTO ALLA PAROLA: INTERVISTE SUL CAMPO 320 1. Intervista a Fiorenzo (mM73Mu01). Mure 13.04.2016. “Gli operatori non sono gli stessi”. 323 2. Intervista a Valentina (fF66Mu02). Mure 28.01.2016. “Non condivido lo spazio, non ho dialogo con queste persone”. 330 3. Intervista a Riccardo (mR54Mu03). Mure 25.01.2016. “Mi son fatto l’angolo del galeotto”. 337 4. Intervista a Giulio (mG81Mu15). Mure 28.01.2016. “Condivido la camera con un estraneo”. 346 5. Intervista a Marco (mM63Mu05). Mure 10.02.2016. “La chiamo come casa mia, non voglio chiamarla comunità”. 355 6. Intervista a Renata (fR59Mu14). Mure 28.01.2016. “Con i vestiti addosso e un cambio”. 363 5 7. Intervista a Beppe (mB45Mu23). Mure 13.04.2016. “(Un vestito) che sia all’altezza”. 367 8. Intervista a Claudio (mC78Mt26). Breganze 10.02.2016. “Ho iniziato subito a fare i piatti”. 372 9. Intervista a Moreno (mM75Mt28). Breganze 10.02.2016. “Vorrei fabbricare una casetta di carta”. 376 10. Intervista a Giovanni (mJ88Mt08). Breganze 10.02.2016. “Se non avessi avuto i libri”. 383 11. Intervista a Carla (fC97CRo07). Mussolente 10.02.2016. “Non può mancare un libro”. 390 12. Intervista a Valeriano (mV83Te04). Marostica 28.01.2016. “Un mondo a parte nell’armadio”. 396 13. Intervista a Bianca (fE55Te20). Marostica 28.01.2016. “Nó ṡé bèo ṅdàr fóra da sói”. 405 14. Intervista a Dino (mD57BG10) e Fabio (interlocutore mF67BG11). Marostica 28.01.2016. “Non go chél tempo lì”. 411 15. Intervista a Mariano (mM92Mt13). Marostica 11.05.2016. “Ma io quello non lo chiamo casa”. 420 CONCLUSIONI 427 APPENDICE 446 BIBLIOGRAFIA 448 RINGRAZIAMENTI 454 6 “Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male” S. Sontag INTRODUZIONE Il tema della tesi riflette sicuramente le competenze personali più recenti, maturate nell’ambito del corso di Laurea Magistrale in Antropologia, ma nel contempo richiama anche sensibilità sedimentate in un tempo più lungo che, forse, vanno persino al di là degli studi geografici pregressi o dell’esperienza professionale nel welfare, tuttora in corso, vissuti questi che pur trovano congrua ed ovvia rappresentazione nelle pagine che seguono. Il vero motivo trasversale di questa indagine è un abitare altro, figlio di un’emergenza o di congiunture sfavorevoli nella vita, che sfiora inevitabilmente anche la riflessione, più generale, sulle residenze temporanee di necessità, laddove queste si impongano agli individui, per i più disparati motivi, quale soluzione sociale senza apparente via d’uscita, relegandoli, così, ad una condizione subalterna e di perdurante sospensione1. Questa provvisorietà, passibile di erranza, vincolata nondimeno ad una stabile aspettativa di cambiamento, si esprime in un penalizzante deficit di complessità. La situazione di collasso del quotidiano, connessa alla perdita dell’abitazione abituale, presenta non poche analogie con l’esito di un 1 Mutuo il termine “sospensione” dalle interviste, somministrate ai terremotati di L’Aquila, alloggiati nel Piano CASE, esposte in sede del convegno annuale Anuac a Bolzano, nel Novembre del 2015, dalla Relatrice Dr. Zizzani Sara. La riproduzione audio è a cura e nelle disponibilità dell’Autore. 7 disastro, evocandone, almeno in un momento iniziale, lo scenario di spaesamento ed angoscia territoriale, del quale mutua soprattutto l’impossibilità di agire, se non all’interno di un ristretto quadro di disposizioni eteronome. Personalmente sono sempre stato affascinato dal calore espresso da certi ambienti domestici ed ho spesso riflettuto sullo statuto reale degli oggetti, disinteressandomi, talvolta, della loro più immediata e fruibile natura funzionale, tradendo, in questo, le intenzioni e la logica del progettista e dei costruttori, attratto piuttosto dal richiamo di impreviste affordances2. Cercandone l’essenza più profonda mi sono certamente mancate, nei loro confronti, la meticolosa pazienza, l’ordine mentale e la continuità del collezionista3. Non ho avuto l’occhio selettivo dell’intenditore, la mano sapiente dell’artigiano né il rigore creativo dell’architetto espresso nella coppia antinomica nascondere/mostrare4. 2 “Invito” secondo la definizione di J. Gibson, novero di azioni che un oggetto invita a compiere su di sé. Non si tratta soltanto di intuirne le modalità di utilizzo bensì dell’instaurarsi di una relazione fra l’attore e l’oggetto stesso. 3 Trovo assolutamente necessario, un preliminare distinguo fra raccoglitore e collezionista riabilitando, se ve ne fosse bisogno, anche la seconda figura. Nonostante i non pochi punti di contatto, riassunti dalla generica idea di possesso, W. Benjamin sostiene che decisivo nel concetto di collezionismo sia il divorzio dell’oggetto dalla propria funzione originaria, quel carattere di affinità indispensabile «per entrare nel rapporto più stretto possibile con oggetti a lui simili» La raccolta trasferisce, invece, le attenzioni da un carattere storico o morfologico alla sfera del significato personale, l’intimo legame, unico reale principio ordinatore, «allucinata visione alchemica», secondo la definizione di M. Vitta, tesa a ricercare nella eterogeneità degli oggetti se non l’unità del mondo quanto meno quella di un microcosmo. Al collezionista G. Starace ascrive «un rapporto profondo di conoscenza ed intimità con un mondo per molti sconosciuto», al cui ingresso è subordinata una importante dose di creatività. Di raccolte o collezioni, di oggetti intimi, limitatamente all’ambito del tema qui trattato, tornerò ancora nel corso della tesi. 4 «Ciò che non si può nascondere si fa vedere» è una regola generale sostenuta da un amico progettista. 8 Ma ho sempre trattato la loro accoglienza nel milieu di vita personale5 o, per converso, la rinuncia ad essi, lo scarto, il loro definitivo abbandono, connotando ogni mia scelta attraverso precise dinamiche selettive, perfettamente aderenti alla mia identità, tanto nella sua componente già strutturata - ricordi, valori, esperienze - quanto in quella in fieri, con i suoi tratti proiettati verso il futuro. In questa complessa rappresentazione, congiuntamente spaziale e diacronica, si cela una parte consistente delle mie legittime pretese di abitare il mondo, di partecipare alla sua territorializzazione, di manifestare la mia originalità, di esprimere un netto e costante rifiuto all’appiattimento e all’omologazione della mia personalità. Abitare significa, inevitabilmente, lasciare delle tracce ed avere a che fare con l’impronta altrui. Sono consapevole che tutto ciò si è reso possibile anche grazie alla esorbitante disponibilità di cose che il benessere economico, familiare e sociale mi hanno concesso e con le quali l’esperire quotidiano mi mette tuttora a contatto; nonché dall’opportunità di gestire, oggi come ieri, un piccolo luogo, sottoposto (quasi) interamente al mio controllo ed alla mia progettazione: un ambiente, cioè, appassionatamente vissuto. 5 L’attuale dimora personale che mio padre definisce scherzosamente horror vacui, mentre altri amici si limitano a più velate analogie con i musei, ospita disparati oggetti, appesi od esposti in ogni stanza, con un ordine per il quale ben si addice la metafora del «museo delle cianfrusaglie» coniata dalle sorelle Agazzi. Proprio il fatto che oggetti di svariata natura e apparentemente di nessuna importanza, raccolti in giardino dai bambini, vengano ritenuti importanti per lo sviluppo cognitivo dei fanciulli e conservati per finalità educative (anche la pedagogia montessoriana riprenderà ampiamente il concetto) dimostra che l’oggetto comunica in modo indipendente dalla propria funzione originaria e con carattere di selezione assolutamente soggettivo. Identico principio caratterizzò il decoro delle abitazioni in stile vittoriano. 9 L’odierna società occidentale è organizzata, in senso spaziale, proprio attraverso questa fitta parcellizzazione in unità territoriali minori ed ancora tramite la loro ulteriore scomposizione in minute e multiformi tessere a gestione individuale che probabilmente costituiscono la cifra, almeno in senso quantitativo, della domesticità. Eppure esistono luoghi, come quelli finalizzati alla cura, nei quali lo spazio intimo e gli oggetti di affezione, in cui si cristallizza la narrazione individuale, subiscono, invece, una obbligata contrazione quantitativa, qualitativa e funzionale, opponendo all’opulenza del preteso benessere dei più una stridente condizione di povertà6, talvolta destinata a perdurare nel tempo. Non posso trascurare, pertanto, nelle riflessioni che seguono, il fatto di essere sempre stato bene, di aver potuto utilizzare, cioè, per la mia cittadinanza nel mondo, quel «passaporto buono» (Sontag 1979: 1) che mi ha preservato sino ad ora dal vivere «il lato notturno della vita» (Sontag 1979: 1), se non nella facilitante veste di spettatore, ovvero il versante certamente privilegiato e gratificante del curante. 6 C. Lunghi e M.A. Trasforini (2010) ben evidenziano come la povertà moderna sia una condizione sempre meno uniforme e legata all’indigenza economica e più affine, invece, all’esclusione sociale, una condizione anonima, di opacità all’interno della quale sia preclusa anche «la possibilità di scegliere e personalizzare le cose: dagli oggetti quotidiani, agli abiti, ai media». L’affermazione riprende in parte il relativismo di Abel-Smith e P. Towsend (1965) sul concetto di povertà, ma ne smonta anche la visione strettamente materialistica come già avevano sottolineato Douglas e Isherwood (1984). 10
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