Giuseppe Conte Il sonno degli Dei La fine dei tempi nei miti delle grandi civiltà © 1999 RCS Libri S.p.A., Milano Edizione Mondolibri S.p.A., Milano su licenza RCS Libri S.p.A., Milano NOTE DI COPERTINA Divorata da un dio giaguaro o da una dea leonessa, sferzata da uragani, sepolta da un diluvio di acque o di fuoco, scossa da terremoti, dissolta nell‘indistinto Caos primordiale, percorsa dalle armate del Bene e del Male impegnate nella lotta estrema: così finirà la terra secondo i miti elaborati dalle grandi civiltà, dal Sumeri agli Egizi, dagli Indù ai Celti, dagli Aztechi alle grandi religioni monoteiste. Il sonno degli dèi è un‘«enciclopedia dell‘apocalisse», per un millennio che si chiude con l‘usuale contorno di attese e presagi, e insieme uno straordinario racconto, che mette il lettore davanti alle visioni, alle immagini, alle domande fondamentali che accompagnano l‘uomo fin dalla sua comparsa sulla terra, e alle risposte che nel corso del tempo è riuscito a fornire il mito, la più potente e universale delle forme di narrazione e di spiegazione del mondo. Nelle pagine di Giuseppe Conte, lo scrittore italiano che più di ogni altro ha riconosciuto nel mito la sua principale fonte d‘ispirazione, la fine del mondo non è solo il cataclisma cosmico profetizzato dai testi religiosi, ma anche la fine – storica – di un mondo: apocalissi reali avvolte in un alone mitico, come il crollo dell‘impero azteco davanti all‘assalto dei quattrocento soldati di Cortés, la catastrofe delle bombe atomiche sul Giappone gli ultimi giorni del Terzo Reich, con i bagliori da Crepuscolo degli dèi che si levano dal bunker di Hitler. Quale sorte attende ogni uomo, la terra, l‘universo? La fine e poi il nulla? Un Giudizio e una vita eterna, delle anime, dei corpi, dell‘anima del mondo? O una serie incessante di reincarnazioni, «universi che esplodono, implodono e tornano a esplodere; dèi che sognano – e il loro sogno siamo noi e l‘universo -, che dormono – e il loro sonno è l‘azzeramento, il dissolversi, il nulla – e che tornano a risvegliarsi, senza fine»? Se le risposte della scienza ci lasciano freddi e perplessi, le immagini del mito infiammeranno la nostra fantasia. GIUSEPPE CONTE, nato a Imperia nel 1945, è poeta, saggista e romanziere. Tra le sue opere più recenti, Fedeli d’amore (1993), L’impero e l’incanto (1995), Canti d’Oriente e d’Occidente (1997) e II ragazzo che parla col sole (1997). Indice Premessa Introduzione Le apocalissi e l’idea del tempo Aztechi La fiamma sacra di Aldebaran Maya La piramide delle tenebre e dei giaguari Indiani d‘America La Danza degli Spettri Giapponesi «Grande e augusta Kami che brilla nel Cielo» Sumeri, Assiri, Babilonesi Un flagello più terribile del diluvio Egizi Rà comincia a invecchiare Indù La notte di Brahma Persiani Il seme di Zoroastro Greci e Romani «Della morte non parlarmi, glorioso Odisseo» Germani Quale crepuscolo per gli dei? Celti «Re Artù non è morto» Ebrei e cristiani «E’ caduta la grande Babilonia» Musulmani Il Dodicesimo Imam Epilogo Ringraziamenti PREMESSA Il lettore troverà in questo libro i racconti della distruzione del mondo e della fine dei tempi come ci vengono conservati dai miti e dalle religioni delle grandi civiltà. Ho preso in considerazione le civiltà degli Aztechi, dei Maya, degli Indiani d‘America, dei Giapponesi, dei Sumeri, Assiri e Babilonesi, degli Egizi, degli Indù, dei Persiani, dei Greci e Romani, dei Germani, dei Celti, degli Ebrei e dei cristiani, dell‘Islam. Naturalmente, un conto è occuparsi di religioni estinte come quelle degli Aztechi, dei Sumeri, dei Greci, dei Celti, che nessuno si offende a sentire definire mitologie. Un conto è occuparsi dell‘ebraismo, del cristianesimo, dell‘Islam, dell‘induismo, che contano miliardi di fedeli nel mondo. Per loro le dottrine escatologiche delle rispettive religioni sono oggetto di fede. Non c‘è niente, dal mio punto di vista, che meriti più rispetto della fede; dunque se il sottotitolo del libro parla di «miti», è perché «mito» in questo caso significa soprattutto «racconto sacro», «racconto delle cose prime e ultime», e non c‘è nessuna intenzione denigratoria nell‘applicare il termine in questa accezione all‘Apocalisse di Giovanni o a certe Sure del Corano o a certe pagine delle Upanisad. Non ho avuto nessuna pretesa di esaustività. Così come, pur essendo il libro frutto di una documentazione precisa e appassionata, non ho avuto nessuna pretesa di scientificità: non sono uno studioso di professione, ma soltanto uno scrittore di libri in versi e in prosa che ormai da decenni lavora sui temi del mito. Il mito, per la sua natura aurorale, per il senso delle origini che lo pervade, ha sempre puntato più sul momento della creazione che su quello della distruzione. Così si trovano tanti libri sui «miti della creazione» negli scaffali dei settori di mitologia e antropologia delle librerie, ma nessuno che abbracci l‘insieme dei «miti della distruzione e della fine dei tempi». Le ricerche ad esempio di Damian Thompson (La fine del tempo, 1996) o di Graham Hancock (Impronte degli dèi, 1995) o di Alfred Weysen (Le Tempie du secret et l’Apocalypse, 1990) toccano questi temi ma non sistematicamente e hanno punti di vista particolari o ardite tesi da dimostrare. Così posso dire che scrivendo ho accettato un duplice invito: prima di tutto quello del mio editore, e poi quello del libraio di Nizza che un giorno mi ha chiesto perché non mi facevo io stesso quel libro sulla fine dei tempi nei miti delle grandi civiltà che non riusciva proprio a trovarmi, anche dopo tante ricerche. INTRODUZIONE LE APOCALISSI E L‘IDEA DEL TEMPO «Nel destino di ogni uomo può esserci una fine del mondo fatta solo per lui.» Così scrive Victor Hugo, nel‘ Uomo che ride. La fine del nostro mondo individuale, la «apocalisse personale» è la prima con la quale ciascuno di noi deve fare i conti. Già affrontare un‘anestesia totale o subire un gravissimo incidente d‘auto sono esperienze che ci fanno intravedere il modo in cui la catena delle nostre esperienze stesse può spezzarsi in un momento e lasciar subentrare il silenzio. Niente forse dà il senso del confine, della sospensione tra vita e morte meglio di quel terribile istante di silenzio che sta tra il rimbombo disumano delle lamiere e i primi gridi dei feriti, in uno scontro. Anche veder crollare tutto quello che si è costruito, veder finire nella polvere sogni, ideali, progetti è una «fine del mondo», per le anime generose. Sin dai primordi, l‘uomo ha dedicato il massimo delle sue attenzioni impaurite e profonde alla morte. Nel regno vegetale, gli organismi nascono, crescono, muoiono e rinascono: un ramo rigoglioso di fiori in primavera e di frutti l‘estate comincia a deperire in autunno ed è secco come un cadavere in inverno; ma alle prime brezze di marzo eccolo tutto vibrante di nuovi germogli. Nel mondo animale, invece, la fine è una e irrimediabile. Si nasce, si cresce, ci si sviluppa, si declina e si muore. Questo vale per il cane e il gregge del pastore come per il pastore. Ma l‘uomo ha la coscienza e il linguaggio, per cui non si limita a sentire, a fiutare la morte, comincia anzi dall‘inizio dei tempi a interrogarsi su di essa, a indagarla, visitarla, popolarla di ombre. E le domande continuano anche oggi, in un‘epoca che sembra per un verso voler respingere la morte fuori dalle proprie mura, ignorandola e occultandola, e per un altro si mostra invece ossessionata da ogni immagine, anche atroce, di distruzione e di decomposizione. Morire è ritornare al niente, come sembrano credere molti, o significa ridiventare il Dio unico, come per quegli scienziati di Prince ton e Piadena che concepiscono la scienza più moderna come via per lo Spirito e la Salvezza e che vengono chiamati neo gnostici? Siamo uomini-macchina, come sostenne il lucido, spietato estremismo illuministico (La Metrite, Ade), o siamo «idee divine», sogni di Brahma? Nel primo caso, la morte è una semplice operazione di smontaggio. Nel secondo, è un transito: noi siamo un sogno di Dio, un sogno che sta in una sua sfera chiusa e autonoma, individualizzata e calata nel tempo; con la morte torniamo al Sognatore divino, che ci riassorbe in sé, nell‘unità senza tempo e spazio della sua coscienza unica. In ogni caso, però, l‘idea della morte è insopportabile per l‘uomo, e gli istinti e l‘inconscio stesso vi si ribellano in tutti i modi. Racconta il dottor Acquese Donnas – uno dei partecipanti al Quinto Colloquio dell'antonelliana Mondiale dea Religioni sulle apocalissi, cui dovremo in seguito riferirci spesso – che certi suoi pazienti afflitti da frequenti sogni di distruzione finale e catastrofica del pianeta proiettavano in essi premonizioni della propria fine personale, perché l‘inconscio riteneva così di evadere da quelle premonizioni, di scongiurarle pantografandole. Spesso la cronaca ci offre spunti tragici per riflettere su quelle che vorrei chiamare «apocalissi famigliari»: membri della stessa famiglia, marito e moglie, fratelli, madri e figli, che si tolgono con violenza la vita insieme, nell‘intento di cancellare ogni traccia del proprio sangue dalla faccia della terra. Il caso emblematico di Angelo D.R mi ha toccato particolarmente da vicino. Uomo coltissimo, ingenuo, mite, generoso, ex dirigente delle Ferrovie e in seguito professore di scienze, Angelo D.P. viveva con la madre e la sorella una vita solitaria, chiusissima e austera, agitata però da frustrazioni nell‘ambito scolastico che si erano trasformate man mano in una vera e propria mania di persecuzione. In grado di scrivere lettere in greco antico, autore di una serie di Haiti sulla morte, Angelo D.P., che in giovinezza aveva trovato un equilibrio nell‘umanesimo comunista, fu portato sempre più dalla sua mania di persecuzione verso un nichilismo sprezzante, disperato e livellatore. Un giorno – e nessuna cronaca ricostruirà mai più perché e come – uccise con una lunga arma da taglio la madre e la sorella, appiccò il fuoco a delle banconote e all‘appartamento dove viveva, poi si affacciò al balcone e mentre accorrevano a sirene spiegate i camion dei vigili del fuoco si trafisse la gola. La sua apocalisse si era abbattuta così sul nucleo famigliare, che non solo distrusse con un‘arma, ma che attaccò persino con il fuoco, uno degli elementi e dei simboli più ricorrenti in qualunque apocalisse. Un altro tipo di apocalisse, di cui spesso e anche di recente le cronache hanno dovuto occuparsi, è quella che chiamerei «di gruppo». E‘ quando gruppi di affiliati a qualche setta esoterica decidono di darsi la morte collettivamente, in macabri rituali. E‘ accaduto con l‘Ordine del Tempio Solare, rinato negli anni Ottanta e diffuso soprattutto in Svizzera e in Canada. Nella sua prima fase, la setta fondata dal dottor Lu Uretra esprime sentimenti condivisi da larghi strati della sensibilità contemporanea: il timore del disastro ecologico, il desiderio che emerga un nuovo tipo d‘uomo, la constatazione del collasso del materialismo e del bisogno di unificare le varie religioni. Ma presto emergono visioni ben più ambigue e cupe: il fuoco apocalittico serve per purificare gli eletti, i Cavalieri templari reincarnati avrebbero intrapreso un viaggio verso Siro e lì sarebbero diventati esseri solari simili a Cristo. L‘inizio della fine è un omicidio rituale commesso in Canada. Una coppia di adepti, Nickel e Antonio Duttile, hanno avuto un bimbo e, contravvenendo agli ordini di Aposepala Di Lambro, guru della setta, lo hanno chiamato Emmanuela. Quel nome doveva restare prerogativa della figlia di Di Lambro, E rama-nuelle, ritenuta un‘incarnazione divina. Il piccolo Duttile è dichiarato l‘Anticristo e due membri dell‘Ordine vanno dalla Svizzera al Canada per ucciderlo, insieme al padre e alla madre. Per ragioni mai chiarite, questa esecuzione diventa il preludio dell‘apocalisse all‘interno dell‘Ordine stesso. I due assassini, compiuta l‘opera, prendono dei calmanti e si bruciano vivi. Quattro ore più tardi, una fattoria si incendia vicino a Chieri, in Svizzera. La polizia scopre nei sotterranei una cappella adorna di drappi e sul pavimento ventidue corpi disposti a raggiera intorno a un altare con un calice d‘oro. A diciannove di essi è stato sparato un colpo alla testa, gli altri si sono soffocati con sacchi neri di plastica. Tre ore dopo l‘incendio di Chieri, esplodono delle bombe in due chalet di proprietà dell‘Ordine, in un villaggio a centosessanta chilometri di distanza. Lì vengono trovati i resti carbonizzati di venticinque membri dell‘Ordine, tra cui Aposepala Di Lambro e Lu Uretra. In questa, come in altre apocalissi di gruppo, sembra che il bisogno più sentito sia quello di accelerare il «transito al futuro», un futuro considerato infinitamente migliore del presente sulla terra. In questo senso, le apocalissi di gruppo di alcune sette poggiano su un ceppo biblico e cristiano, pur nella loro interpretazione distorta e visionaria dell‘idea di fine dei tempi e di passaggio alla gloria dell‘eternità. Altre volte il termine «apocalisse» può riferirsi all‘esito di vicende storiche di particolare intensità tragica. Esemplare è il caso degli Aztechi: il loro interesse ossessivo per presagi e profezie di distruzione finì per favorire la rovina precipitosa e totale del loro impero, della loro religione e della loro cosmogonia, dopo l‘arrivo in Messico di Cortés e del suo pugno di uomini, in groppa a cavalli e muniti di armi da fuoco. Ma anche il nostro secolo ha visto bagliori di apocalissi storiche, soprattutto alla fine della seconda guerra mondiale. Accenni precisi all‘annientamento della nazione giapponese, e all‘estinzione della civiltà umana, sono presenti nel discorso radiofonico con cui l‘imperatore Hiroshima annunciò la resa del Giappone. E tutti i maggiori simboli apocalittici compaiono nella disfatta del Terzo Reich, nel suicidio di Hitler nel bunker di Berlino. In senso proprio, la parola «apocalisse» è entrata e si è radicata nella nostra cultura attraverso il titolo del libro profetico di Giovanni; deriva direttamente nelle lingue moderne da un termine greco che si traduce in latino con revelatio, e significa dunque «svelamento», in particolare svelamento degli accadimenti finali e dell‘avvento del regno di Dio e dell‘eternità. Come tale, la parola andrebbe riservata all‘escatologia ebraica, cristiana e islamica, e forse a quella iranica, zoroastriana, che per certi studiosi è alle fonti delle prime tre. Ma anche i popoli che non hanno una religione monoteistica né dualistica – quelli delle antiche concezioni pagane, che sono rimasti fedeli all‘arcaico scenario cosmico, o che credono nell‘eterno ciclo delle reincarnazioni – hanno immaginato la fine dei tempi, la rovina, la distruzione totale, parziale, ricorrente, tentata, rinviata o sospesa dell‘umanità da parte degli dèi. E‘ grazie al mito, questo formidabile strumento di conoscenza, che noi sappiamo ciò che l‘umanità ha intravisto delle proprie origini e della propria fine, la sua memoria preistorica, la sua profezia di futuro. Il mito, nel corso del Novecento, è stato ridotto a fondi di magazzino per l‘inconscio dal neofreudismo, a una sottospecie di oppio dei popoli dal marxismo, a un codice neutro senza messaggio dallo strutturalismo, cioè ha subito gli attacchi delle correnti di pensiero che intrecciandosi hanno definito egemonica mente, per gran parte del secolo, la modernità. Se oggi il mito è tornato sulla scena con tutta la sua energia, nonostante le lunghe e quasi canoniche esercitazioni dissacranti e demitizzanti di tanta parte della cultura novecentesca, è grazie alla crisi dell‘atteggiamento positivistico e del materialismo dogmatico, e alle nuove esigenze di riscoperta delle radici primordiali, dei legami spirituali tra popoli diversi, delle varie forme del sacro; e naturalmente grazie al lungo lavoro di scavo di studiosi, tra gli altri, come Kàroly Kerényi e Cari Gustav Jung, James Hillman e Mircea Eliade, Georges Dumézil e Jean-Pierre Vernant, Elémire Zolla e Joseph Campiello. Il mito ci parla della nostra anima individuale e dell‘anima del mondo, ci guida verso i primi «perché», ci descrive i processi con i quali è cominciato l‘universo divino e umano, ed è stata creata la terra; e ci descrive anche i modi in cui l‘umanità è già stata distrutta e, in certi casi persino insieme agli dèi, lo sarà ancora. L‘uomo ha sempre cercato di dare forma al viaggio dell‘anima dopo la morte: gli Aztechi immaginano un viaggio sacro di quattro giorni in cui il defunto deve superare una serie di ostacoli formidabili, tra cui una tempesta di pietre e di lame taglienti di ossidiana, per raggiungere il loro Ade, chiamato Micella. Gli Egizi affidano il defunto con i suoi tre principi spirituali, l'Alaska, il Ba e il A, ad Nubi, il dio delle necropoli che presiede ai riti funebri e ai processi di mummificazione; questi lo scorta sino al tribunale di Osiride, dove avverrà la «psicostasia», ovvero la pesatura dell‘anima per deciderne la sorte ultraterrena. Per i Persiani, esiste il ponte Cintato, che stabilisce allargandosi o restringendosi sino a ridursi a una lama se l‘anima del defunto può accedere alle meraviglie del Paradiso o deve inabissarsi tra i tormenti e le pene. Allo stesso modo l‘uomo ha sempre immaginato esseri viventi che si avventurano nel regno delle ombre, e che poi ne tornano per descriverlo ai loro simili. Il mito, il racconto mitico, gli è sempre servito anche a quello. Tra i Greci, i meno attratti fra gli uomini dalla morte e dalla distruzione, in tanti arrivano a varcare la porta dell‘Ade restando in vita. Odisseo, che vi incontra le ombre della madre, di Tiresia e di Achille; Orfeo, che va a cercarvi la moglie Euridice tentando di riportarla alla luce; Eracle, che deve catturare Cerbero, il cane a tre teste custode delle ombre; Teseo e Piritico, che vogliono liberare Perseguitone prigioniera del Re degli Inferi. Virgilio immagina il viaggio di Enea verso il padre Banchise nell‘Ade, dove apprende la teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime. Tra i Sumeri, sia Gamellino il re- eroe, sia Istallar, dea dell‘amore e della bellezza, intraprendono il cammino verso l‘Aldilà. Per i Giapponesi è il dio delle origini Izano che si spinge agli Inferi per riavere l‘amatissima moglie Izano. Per i Celti il bardo Roisan e il navigatore magico Bra Macerabile varcano la porta della nostra realtà attingendo quella dell‘Altro Mondo. Miniamma, il Profeta dell‘Islam, compie un viaggio notturno sino alle vette del Paradiso guidato dall‘angelo Gabriele, che gli appare con il volto più bianco del latte e della neve e i capelli più rossi del più rosso corallo, come è raccontato nel Libro della Scala. Dante concepisce tutta la sua Commedia come un percorso che, dal basso in alto, dal male al bene, dalla disperazione alla gioia, dalla tenebra alla luce, dalla sapienza antica di Virgilio sino a quella teologica e cristiana di Beatrice lo conduca attraverso i tre regni di Inferno, Purgatorio e Paradiso sino a Dio. I poeti hanno continuato a essere i protagonisti di tutti i più vorticosi viaggi nel dopo morte, lo strumento di tutte le più lancinanti interrogazioni dello spirito vitale sulla sua ultima destinazione. Ancora nel secolo scorso, Alt Whitman, nelle sezioni conclusive del suo Foglie d’erba, invoca l‘anima che lascia il corpo e ne segue l‘itinerario: Oseresti ora tu, o anima, uscire con me verso quella regione sconosciuta, dove non c‘è terreno che i piedi possano calcare, né un sentiero da seguire? (…) Sino a quando i lacci si sciolgono, tutti fuorché quelli eterni, Tempo e Spazio, e né buio, né gravità, né senso, né altri legami ci legheranno più. Allora scoppieremo come germogli, fluttueremo nel Tempo e nello Spazio, anima, pronti per loro, eguali, equipaggiati alla fine (O gioia! o gioia di tutto) per compierli in noi, anima. A Victor Hugo, in quel poema dalla immensa potenza profetico-visionaria che è La leggenda dei secoli, appare Dante che una voce risveglia dal sonno oscuro del sepolcro perché porti a termine la sua opera nell‘anno 1853. Quello che Dante riferisce è una visione apocalittica: «Giovanni a Patos, Manu che sogna sui Veda / non hanno visto nulla di simile a ciò che io racconto»; un‘apocalisse contemporanea che consta di una dura, violenta, faziosa requisitoria laica e sociale in cui le anime di tutti i poveri, i reietti, i perseguitati, i vinti del mondo portano davanti all‘Arcangelo della Giustizia i loro carnefici. Gli umili accusano della loro rovina e di tutta la sofferenza mortale della terra i soldati, i soldati ribaltano le responsabilità sui loro capitani, i capitani sui giudici, i giudici sui re, i re infine sul papa, e su papa Masai in particolare, il Pio IX che condannerà il liberalismo nel Sillabo e proclamerà il dogma dell‘Infallibilità, e che qui, diventato decrepito in un istante, è sottoposto a un Giudizio anticipato per lui solo dai sette angeli «sognatori» e dalla voce di Dio, («cane pastore del gregge, fosti un lupo come gli altri»), in un crescendo fosco e abbagliante. Come esiste presso tutti i popoli un‘escatologia personale, ne esiste una universale, che riguarda la loro società, la loro civiltà, la loro visione del cosmo, e che è stata consegnata a libri sacri e a un insieme di leggende e di miti. L‘umanità ha sempre tentato di immaginare la propria distruzione collocandola in un lontano passato, da cui è rinata, o in un futuro da intravedere attraverso i bagliori cupi della profezia. La distruzione finale può avvenire per acqua o per fuoco: questi sono i due elementi a cui più spesso è deputato lo sconvolgimento degli equilibri naturali. La catastrofe è infatti identificata nella rottura dell‘equilibrio faticosamente uscito nei primordi dal caos originario e nel sopravvento che un elemento prende sugli altri. L‘acqua di piogge, maree e inondazioni, l‘invasione dei ghiacci da un lato. Le fiamme, le eruzioni, il calore bruciante, l‘aridità totale dall‘altro. Elementi che per eccellenza recano vita e luce debordano e cambiano di segno, danno ora morte e tenebra; come un falò dà chiarore e fumo, come una pioggia può provocare fertilità in un campo o frane sui pendii di una collina. Per questo il rogo finale è previsto per esempio sia dalla fantasia rude e accesa dei Germani sia dal pacato pensiero filosofico degli stoici greci, e per questo il Diluvio compare a quasi tutte le latitudini, presso gli Aztechi come presso i Greci, presso i Sumeri come presso gli Indù e gli Ebrei. La distruzione può anche dipendere dagli altri due elementi: dalla terra per via dei terremoti, dall‘aria per avvelenamento, contagio, pestilenza. Ma la distruzione può anche avvenire per una serie diversissima di piaghe, può dipendere dalla siccità, da un‘invasione di locuste, dalla carestia, dallo scatenamento di animali feroci come i giaguari, dall‘attacco di guerrieri che montano cavalli dalla testa di leone, da flagelli bizzarri e impensabili come quelli che colpiscono gli «uomini di legno» dei Maya, cui persino gli utensili domestici si ribellano e, acquistando la parola, infliggono rimproveri e supplizi. Distinguere con troppa nettezza tra le culture che hanno una visione del tempo «lineare» e quelle che ne hanno una «ciclica» può destare qualche perplessità, come suggerisce Damian Thompson nella sua Fine del tempo; ma tra le due visioni una differenza almeno è chiarissima: quella «lineare» presuppone una fine definitiva; quella «ciclica», invece, una fine che definitiva non è mai. La concezione del tempo «lineare» appartiene innanzi tutto ai tre grandi monoteismi, quello ebraico, quello cristiano e quello islamico. Secondo queste religioni, il tempo è iniziato con la creazione e finirà con la distruzione. Adamo, il «figlio della terra», è il primo uomo, il mondo è stato distrutto dal Diluvio 1656 anni dopo la sua nascita, Noè è il nuovo progenitore dell‘umanità, da lui discenderanno Abramo, Davide, Gesù, sino al ritorno di Gesù nella Parusia, nel Secondo Avvento, quando vi saranno la Resurrezione dei morti e il Giudizio Universale. A quel punto il tempo finirà di scorrere, e si apriranno i cancelli dell‘eternità. Il ritorno di Gesù alla fine dei tempi è previsto anche dall‘islamismo sciita: Cristo ritornerà per combattere il Dajjàl, l‘Anticristo, sarà tra i 313 buoni che aiuteranno il Mahdi, il Dodicesimo Imam che vive occultato da più di un millennio e che verrà a riportare bene e giustizia e a chiudere la storia. Anche l‘Islam ha come oggetto di fede la Resurrezione della carne e il Giudizio di Dio. Il tempo «lineare» è stato inventato: perché prima di esso esisteva soltanto quello arcaico, legato ai corsi e ricorsi della natura e del cosmo, che abbiamo chiamato «ciclico». Se l‘abbia inventato Mosè, come molti credono, o Zoroastro, come sembrano preferire certi studiosi, è un problema aperto. Anche presso gli zoroastriani, che credono nel dualismo tra Aura Magda, il dio del bene e della luce, e Arimanno, il dio del male e delle tenebre, esiste un tempo che si colloca su una linea retta e che dura per l‘esattezza dodicimila anni: da Guardato, il primo uomo, a Zoroastro il profeta, sino a Sacrosanto il Salvatore che, uscito dalla stirpe di Zoroastro, verrà alla fine a combattere l‘ultima battaglia contro le forze del male. Dopo, Aura Magda avrà trionfato, e il suo trionfo e la sua luce saranno eterni. Secondo Aposepala Campiello, il grande studioso americano di mitologia comparata, l‘Occidente inizia proprio in Iran tra il secondo e il primo millennio avanti Cristo quando attraverso la sua visione dualistica Zoroastro sviluppa una protesta etica radicale, di enorme influenza sul futuro, contro ogni sottomissione acritica della volontà umana alla natura, implicita in una visione cosmica della vita. Zoroastro è il primo a porre una divisione netta e assoluta tra bene e male. Siamo intorno al 1200 avanti Cristo; sei o sette secoli dopo, gli Ebrei durante la cattività babilonese potrebbero essersi annessi schemi del pensiero zoroastriano, e averne ereditato proprio la formidabile ansia apocalittica. Nel tempo «ciclico», arcaico e legato alle stagioni, alle fioriture e ai raccolti, all‘osservazione del movimento degli astri nella volta notturna, ai rituali di rinascita, l‘uomo sentiva la corrispondenza di sé come microcosmo con il macrocosmo dell‘universo. Così accadeva nell‘animismo pellerossa, nel politeismo greco, nelle sottili intuizioni del taoismo, o nella teoria indù del d'arma, cioè della legge sociale, del mondo come dovrebbe essere. Conformandosi al proprio d'arma, come fanno gli animali e le piante, il sole e le stelle, ciascuno collabora a suo modo a sostenere l‘universo e ne è sostenuto, e vive in accordo con l‘ordine naturale. E‘ Aposepala Campiello che ci parla di due «movimenti a orologeria» apparentemente irrelati esistenti nell‘universo. Uno è quello dovuto alla «precessione degli equinozi», che è il più grande orologio dello spazio esteriore, l‘altro è il ritmo del battito cardiaco, che appartiene allo spazio interiore di ciascuno di noi. Per il fenomeno detto della «precessione degli equinozi», il sole si trova ogni 2000 anni circa all‘equinozio di primavera in una nuova costellazione dello Zodiaco. Per completare muovendo verso occidente un giro intero di tutti i dodici segni il sole impiega 25.920 anni, un «anno grande» o «anno platonico». Se si prova a dividere 25.920 per 60 – l‘antico sous mesopotamico, cioè l‘unità di misurazione astronomica a base sessagesimale – il quoziente risulta 432. Ricordiamoci di questo numero, che potremmo definire magico, e che ricorre in tante misurazioni dei cicli cosmici, presso