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Il primo libro di antropologia PDF

192 Pages·2008·1.22 MB·Italian
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LDB MARCO AIME IL MIO PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA Einaudi Introduzione «Quando parti?», «Quanto hai fatto di terreno?», «Non c’è, è ancora sul campo», sono frasi che ricorrono spesso (o perlomeno ricorrevano) nei dipartimenti di Antropologia di tutto il mondo. «Andare sul campo», è questo che caratterizza il mestiere dell’antropologo, sia nella tradizione della sua disciplina sia nell’immaginario di chi antropologo non è. Se c’è una cifra che identifica l’antropologo è l’essere stato «là», dove il «là» è spesso un posto esotico, magari difficile da vivere, ma quasi sempre dispensatore di esperienze ed emozioni. Dagli antropologi, infatti, ci si aspetta che raccontino aneddoti gustosi sulle stranezze dei «loro» popoli o sulle disavventure in cui sono incappati nel corso del lavoro sul terreno. Lo descrive con malcelata ironia Nigel Barley nel suo Appunti da una capanna di fango: Era difficile stabilire se, come il servizio militare, il lavoro sul campo fosse uno di quegli spiacevoli obblighi che bisognava sopportare in silenzio, o se invece fosse uno dei benefici della mia professione, di cui dovevo essere riconoscente. Le opinioni dei colleghi non erano di grande aiuto. Quasi tutti avevano avuto tutto il tempo di avvolgere le proprie esperienze in un alone dorato di romantica avventura. Per molti, un’esperienza di lavoro sul campo significa la libertà di seccare il prossimo. Parenti e amici si mostrano un tantino delusi se ogni conversazione, su qualsiasi argomento, dal bucato alla cura del raffreddore, non viene condita con qualche reminiscenza etnografica. Agli occhi degli altri, l’antropologo appare talvolta come una sorta di Indiana Jones, avvezzo a esperienze estranee alla gente comune. Non è proprio cosí, i tempi eroici dell’antropologia – ammesso che si possa considerare eroico vivere per qualche mese nelle stesse condizioni in cui i locali trascorrono una vita – sono finiti. Di popoli sconosciuti da studiare ce ne sono sempre meno, i confini tra l’Occidente e il cosiddetto Sud del mondo sono via via piú permeabili, i paradigmi positivisti del secolo scorso e la ricerca di una legittimazione scientifica sono stati messi in crisi, e l’antropologo si trova ogni volta ad affrontare problematiche metodologiche e teoriche nuove. Le prospettive si sono moltiplicate e incrociate: l’antropologia non è piú solo uno sguardo dell’Occidente sugli altri; oggi ci sono antropologi che provengono da quelle realtà che in passato erano oggetto di studio, e il loro sguardo si rivolge non soltanto ai loro contesti d’origine, ma anche verso di noi. Perfino i terreni di ricerca sono mutati, e spesso l’antropologia è tornata a casa, occupandosi non solo di realtà lontane, ma anche di eventi culturali vicini. Oltre un secolo di studi etnografici ha fornito agli antropologi di oggi un bagaglio di casi, esempi, modelli e teorie che li hanno resi in grado di volgere lo sguardo, un tempo orientato in direzione di orizzonti lontani, verso la nostra società, su di noi. Un po’ bifronte l’antropologia lo è sempre stata, ma da qualche tempo ha fatto una sorta di outing, per utilizzare un termine di moda, spostando in molti casi i propri obiettivi in direzione della critica culturale. Nel fare ciò si è spesso contaminata con altri saperi, favorita in questo dal fatto di essere essa stessa disciplina di frontiera, avvalendosi e arricchendosi di esperienze diverse. La purezza, cosí come l’oggettività, non sono piú virtú. Nemmeno i confini della disciplina sono cosí chiari. Se chiedete a una persona di media cultura cos’è l’antropologia culturale, è probabile che vi dia una risposta abbastanza sensata. Se lo chiedete a un antropologo, preparatevi ad ascoltare una trattazione lunga e complessa, ed è molto probabile che ne uscirete con le idee meno chiare di prima. Contaminato finché si vuole, l’antropologo non ha però perso la propria specificità. Si è magari confuso nell’interdisciplinarità, ma continua a muoversi «sul terreno», sebbene questo sia a volte assai diverso da quello dei suoi avi fondatori. L’antropologia, come tutte le scienze umane, ha come oggetto donne e uomini, o meglio, come disse la grande antropologa americana Margaret Mead, «è lo studio dell’uomo che abbraccia le donne», cosí come donne e uomini sono i ricercatori. Ciò che, forse, la contraddistingue è però la prolungata e ripetuta frequentazione degli uni con gli altri. L’antropologo è spesso un ospite, non invitato, che si ferma a lungo e che, inevitabilmente, stabilisce legami con le persone che abitano e costituiscono il suo campo di ricerca. L’antropologia si fonda sulle relazioni, vive di relazioni tra osservatore e osservati, e non esiste relazione che, in bene o in male, non finisca per coinvolgere, a livello umano ed esperienziale, un individuo. Cosí gli antropologi si sono trovati a fare i conti con questa realtà viva e vissuta, che segna in modo specifico l’esperienza di terreno. È anche per la sua dimensione relazionale che l’antropologia culturale, come disciplina, è molto «umana» e, pertanto, influenzata dalla variabilità e soggettività delle relazioni interpersonali e dall’estrema varietà del suo teatro d’azione, motivo per cui ha sempre denunciato una certa carenza di metodo. L’antropologia è una disciplina indisciplinata. Basta scorrere i manuali per capire come le «istruzioni per l’uso» degli strumenti antropologici si limitino spesso a enunciati di massima come «osservazione partecipante», «visione olistica», «metodo induttivo», senza mai arrivare a codificare un eventuale comportamento corretto dell’antropologo sul campo. Basta rileggere le parole, tra lo sconsolato e il divertito, di Edward Evan Evans- Pritchard: Quando ero un giovane studente serio a Londra tentai, prima di partire per l’Africa centrale, di ottenere qualche consiglio pratico da parte di ricercatori sperimentati. Cercai dapprima di avere un consiglio da Westermarck. Tutto quello che ottenni da lui fu un «non parlare con un informatore per piú di venti minuti, perché se non ti sei ancora annoiato a quel punto lo sarà lui». Ottimo consiglio, ma alquanto inadeguato. Cercai poi aiuto da Haddon, un uomo tra i piú esperti nella ricerca sul terreno. Mi disse che in realtà era tutto molto semplice; bastava comportarsi da gentiluomo. Anche questo era un ottimo consiglio. Seligman, il mio maestro, mi disse di prendere dieci pasticche di chinino ogni sera e di tenermi lontano dalle donne. Il famoso egittologo Sir Flanders Petrie mi disse di non preoccuparmi se bevevo acqua sporca, perché presto mi sarei immunizzato. Per ultimo chiesi a Malinowski: mi disse di non fare l’idiota. Recandosi sul terreno l’antropologo osserva, guarda, ascolta, assaggia, tocca, annusa. Il suo sapere si costruisce innanzitutto su basi sensoriali, prima di arrivare a tradursi in teorie, modelli, paradigmi. Sul terreno, qualunque esso sia, il ricercatore non vede strutture, società, politica, economia. Vede gente che si incontra, parla, combatte, si scambia oggetti, produce, costruisce, mangia, si organizza, prega, vive. Perciò questo libro ha una scansione percettiva: parte da quello che può essere osservato per poi arrivare a dare vita a costrutti teorici. Chi vuole avvicinarsi all’antropologia culturale, sia egli uno studente del primo anno o un curioso appassionato, potrà trovare nelle pagine che seguono una serie di spunti per comprendere l’orizzonte, per quanto ampio e frastagliato possa essere, di questa pratica. È la ragione per cui si è scelto di proporre, per ogni tema affrontato, una breve bibliografia basata su testi di facile reperimento. Se da un lato tale scelta può apparire limitata e limitativa, possiede però il pregio di rendere accessibili a chiunque, senza sforzi particolari, eventuali approfondimenti. Un grazie di cuore a Cristiana Natali per la paziente revisione del testo e per i preziosi suggerimenti. Grazie anche a Luciano Ferrai per gli interessanti spunti fornitimi sulle nuove oralità, espresse nella sua tesi di laurea Dal testo all’ipertesto: la nuova oralità elettronica, discussa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia. A docenti, colleghi e amici come Vanessa A. Maher, Francesco Remotti, Paolo Sibilla, Pier Paolo Viazzo, Stefano Allovio, Elisa Bellato, Adriano Favole, Piermaria Mazzola e altri che forse colpevolmente dimentico, vanno i miei ringraziamenti piú sentiti. Anche se non hanno partecipato direttamente a questo lavoro, i loro insegnamenti, i confronti continui, le discussioni hanno contribuito al nascere del libro, con la speranza che sia degno della loro amicizia. IL PRIMO LIBRO DI ANTROPOLOGIA Capitolo 1 La valigetta dell’antropologo Nonostante non si sia mai redatto un vero e proprio codice di comportamento, nel corso degli anni gli antropologi si sono dotati di una valigetta di attrezzi teorici e metodologici che sono loro propri. Attrezzi forgiati nel tempo, affinati, a volte accantonati da alcuni o volutamente non utilizzati. Non si tratta di un kit sempre ben ordinato: in genere lascia spazio alla personalizzazione della scelta e dell’uso, ma si nota una certa aria di famiglia. Soprattutto nell’utilizzo di certe chiavi di lettura dei fenomeni sociali e culturali, perché sono appunto queste a caratterizzare lo sguardo antropologico rispetto a quello di altre discipline consimili e a tracciarne i confini. 1. Attrezzi vari. Letteralmente antropologia significa «studio dell’uomo». Una definizione che potrebbe apparire un po’ supponente: anche la filosofia, la psicologia, la storia, la medicina studiano l’uomo, quale diritto avrebbe allora l’antropologia di arrogarsi il primato? Sarebbe piú corretto dire che l’antropologia non studia l’uomo, ma gli uomini. Non è l’individuo a interessare l’antropologo, quanto il suo essere parte di un gruppo di individui con cui intrattiene relazioni di vario genere: affettive, parentali, sessuali, di vicinato, commerciali, politiche e via dicendo. Sono tali relazioni, unite a quelle che gli individui instaurano con il loro ambiente, a diventare oggetto di studio per l’antropologia, quelle che nel loro insieme chiamiamo «cultura». Ogni gesto, ogni parola, ogni regola vengono compresi da un determinato gruppo di persone in quanto condivisi. Non esiste manuale di antropologia che si rispetti che non riporti la celebre definizione che Sir Edward Tylor coniò nel 1871: La cultura […], presa nel suo significato etnografico piú ampio, è quell’insieme che include conoscenze, credenze, arte, morale, legge, costume e ogni altra capacità e usanza acquisita dall’uomo come appartenente a una società. Una definizione che è stata successivamente accusata di essere un po’ troppo rigida e statica, ma le cui sintesi e chiarezza fanno sí che regga al trascorrere del tempo. Ancor piú sintetica e altrettanto efficace la definizione dell’antropologa americana Ruth Benedict: «La cultura è ciò che tiene insieme gli uomini». Ogni relazione umana, se ben analizzata, si rivela molto piú complessa di quanto possa apparire nella sua espressione piú immediata e visibile. Religione, economia, parentela, arte, appaiono categorie a sé stanti, solo dopo essere state create e definite per poi essere classificate da un osservatore esterno, ma nella mente degli individui, a livello piú o meno conscio, tali espressioni sono spesso inevitabilmente connesse a qualche livello. Sarebbe possibile studiare l’arte medioevale ignorando il ruolo della Chiesa? Ma non è soltanto la religione a essere connessa con la produzione di capolavori, lo erano anche i mecenati, la cui storia si intreccia con l’economia. La Divina commedia è impregnata di politica e di filosofia oltre a essere un’opera d’arte letteraria. Come comprendere alcuni dibattiti anche attuali relativi alla scienza senza tenere conto dei principî religiosi e dell’etica? Lo stesso si può dire a proposito dell’economia: anche se lo facciamo senza pensarci, ogni volta che prendiamo in mano una moneta o una banconota per pagare, non stiamo compiendo una semplice operazione commerciale, ma stiamo mettendo in gioco una serie di segni e simboli che rimandano a un immaginario condiviso. Quel pezzo di carta rettangolare e azzurro non vale venti euro di per sé: è solamente un portatore di valore, un segno, che funziona perché condiviso, almeno nell’area dell’euro. I diversi modi di organizzare la società, la vita quotidiana, le differenti cognizioni del mondo circostante che l’inventario antropologico ci offre, rispondono di volta in volta a esigenze e processi storici particolari, che rimandano e dànno vita a loro volta a una rete di simboli. Quella rete che, come ebbe a dire Max Weber, l’uomo crea per poi rimanervi impigliato. Sebbene il metodo antropologico privilegi ambiti di studio ristretti, piú simili a un laboratorio, una rete non può essere percepita osservandone solo una maglia. Lo sguardo antropologico deve essere necessariamente olistico, totalizzante, deve tener conto dei vari elementi di una società e di una cultura per poterne analizzare anche uno solo. Si parte quindi da un nodo della rete per comprenderne l’intera struttura, per poi tornare ad analizzare quel nodo alla luce del tutto. Un procedimento che Jean-Loup Amselle ha messo bene in luce utilizzando una metafora informatica, quella delle connessioni: ogni particolare si definisce connettendosi a significanti globali. L’antropologo, quindi, cerca regole nell’insieme di pratiche – spesso strane e di difficile comprensione a uno sguardo esterno – che un gruppo umano mette in atto. Tenta di dare ordine alle azioni che ognuno di noi compie quotidianamente, in maniera spesso meccanica, conformista, senza sentire la necessità di ricondurle a un determinato concetto di cultura. Fin qui una delle caratteristiche dell’antropologia culturale: partire dall’osservazione particolare per giungere a una comprensione globale. Se la filosofia si occupa dell’uomo – inteso come essere universale –, l’antropologia si occupa degli uomini, in relazione al contesto culturale, storico e ambientale in cui essi vivono. Per l’antropologo ogni gruppo umano è un caso a sé, che come tale va analizzato. Per questo l’approccio relativista è uno dei pilastri fondanti delle discipline antropologiche, uno degli attrezzi che non possono mancare nella valigetta dell’antropologo. Per relativismo si intende un atteggiamento secondo il quale ogni espressione culturale deve essere spiegata all’interno del quadro simbolico della società che la produce. Infatti, quelle che chiamiamo culture sono degli insiemi di comportamenti e regole che vengono appresi vivendo in un determinato contesto sociale. Come sostiene Claude Lévi-Strauss a proposito dei diritti universali, le grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo hanno la forza e la debolezza di enunciare un ideale troppo

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Che cos'è l'antropologia culturale? Marco Aime prova a spiegare chi è e cosa fa un antropologo oggi, rovesciando gli approcci teorici tradizionali. In effetti la natura dell'antropologia non è più così definita: di popoli sconosciuti da studiare ce ne sono sempre meno, i confini tra l'Occidente
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