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IL PENSIERO DEL BUDDHISMO ANTICO Massimo Paradiso PDF

61 Pages·2014·0.26 MB·Italian
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IL PENSIERO DEL BUDDHISMO ANTICO Massimo Paradiso 2.1. La prima nobile verità 2.1.1. Dukkha 2.1.2. Abhidhamma 2.1.3. Anicca 2.1.4. Anattā 2.1.5. I cinque khandha 2.2. La seconda nobile verità 2.2.1. I tre akusalamula (le radici del male) 2.2.2. Upādāna 2.2.3. a a a ppāda 2.3. La terza nobile verità 2.3.1. Il n bbāna 2.4. La quarta nobile verità 2.4.1. Il nobile ottuplice sentiero, la via 2.4.2. La meditazione buddhista 2.1. Il Buddha: la vita e l’illuminazione. La tradizione buddhista data il raggiungimento dell’illuminazione da parte del Buddha nell’anno 520 a.C., evento accaduto sotto l’albero della bodhi (ficus religiosa) nel villaggio di BodhGaya, nella pianura gangetica, nel nord-est dell’India. Il contesto storico in cui il Buddha nacque e conseguì il “risveglio” è di grande importanza per capirne lo spessore e il pensiero, sia come figura storica che come maestro di una nuova dottrina. Le monarchie assolute, grazie alla spinta di un periodo di ricchezza e prosperità, rimodellarono i centri urbani in forme più complesse, mentre una nuova classe emergente si affermava definitivamente, quella dei mercanti. Questi fattori permisero lo sviluppo di un’economia monetaria e, mentre le repubbliche agrarie rette da élite aristocratico-religiose si avviavano verso il tramonto cominciarono a circolare, soprattutto tra i nuovi soggetti sociali, idee nuove, alcune iconoclaste, su riti, religione, e senso della vita1. Il nord dell’India, già nel primo millennio a.C. possedeva ingegni e conoscenze capaci di calcolare i cicli astronomici dei pianeti, e in base a questi calcoli il tempo fu diviso in vertiginosi e smisurati cicli che si ripetono, denominati eoni. La vita dell’universo fu scandita da questi cicli dalla durata incalcolabile che influenzarono la cosmogonia indiana e plasmarono la concezione terrena e ultraterrena della vita dell’essere umano. Come risultato questi eoni che si ripetono portarono a concepire un universo caratterizzato da movimenti di espansione e contrazione ma non di annichilimento totale, e questa metafora temporale si riversò a sua volta nel tempestoso torrente della vita umana scandita da nascita, morte e reincarnazione. La reiterazione di nascita, morte e reincarnazione permetteva tuttavia di “imparare” dagli errori compiuti nelle vite passate, dando un forte 1 cfr. Robinson H.R., Johnson W.L., the buddhist religion: a historical introduction, Wadsworth Publishing Company, Belmont CA 1997. (trad. it.: la religione buddista: un’introduzione storica, Ubaldini Editore, Roma 1998, p.19). 2 colore di causalità ai fini della salvezza ultima, intesa, a questo punto, come libertà dall’eterno migrare delle anime2. In questo periodo di eccezionale fermento sociale e culturale, nascono molte scuole di pensiero che sviluppano diversi metodi di liberazione dal ciclo delle rinascite, e una di queste fu il buddhismo. Nei testi buddhisti apprendiamo che all’epoca c’erano due grandi gruppi dediti alle pratiche religiose, quello dei brāhmaṇa e quello dei śramaṇā (pali samaṇā). I brāhmaṇa erano gli officianti dei rituali delle religioni di villaggio, e quindi il loro ruolo era quello di mantenere o ripristinare l’armonia sociale e la prosperità del territorio e del mondo ultraterreno. Questa figura religiosa maturò dall’esperienza rituale e religiosa degli Arya, codificata, oralmente, nel Ṛg Veda3. Dalla venuta degli Arya in India alla nascita del Buddha, le scritture vediche si arricchirono di altre tre raccolte: il Sāma, lo Yajur e l’Athara Veda. Le quattro raccolte vediche erano divise in sezioni in versi (saṃithā), manuali del rito (brāhmaṇa ), i cosiddetti testi della foresta (āraṇyaka) e le Upaniṣad. E’ in questo intervallo di tempo che si andò plasmando la dottrina della rinascita: infatti, l’idea della reincarnazione è probabilmente postuma rispetto alla prima fase vedica4. Difficilmente si possono trovare tracce che ci dicano dove e quando quest’idea nacque, ma sappiamo che pervase profondamente la spiritualità indiana al punto che un riformatore come il Buddha, che rifiutò il principio di autorità in generale, e nello specifico, l’autorità religiosa dei brāhmaṇa e dei Veda5, la accettò nel suo insegnamento, anche se ne sviluppò una personalissima via di salvezza. L’altra figura dedita alla ricerca della liberazione spirituale era lo samaṇā, un escluso, contrapposto al brāhmaṇa ; era un rinunciante che abbandonata la casa e il ruolo di capofamiglia, errava per cercare la verità liberante: il Buddha era uno samaṇā. Il complesso rituale del brahmaneismo fu oggetto di critica di questi nuovi 2 ibid, p. 21. 3 cfr. Williams P., Buddhist thought: a complete introduction to the indian tradition, Routledge, London 2000 (trad. it. Il buddhismo dell’India: un’introduzione completa alla tradizione indiana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 2002, p.17). 4 ibid, pp. 17. 5 ibid, pp. 17,19. 3 religiosi, sostenitori di una verità ultima accessibile a individui di qualsiasi casta attraverso lo sforzo, la riflessione e la meditazione. Il termine samaṇā, infatti, letteralmente significa “coloro che compiono sforzi”6. V’è, dunque, uno spostamento considerevole dal rito compiuto correttamente al giusto sforzo, dalla virtù intesa come conoscenza tecnico-rituale e ottenuta per appartenenza a un preciso status sociale, alla virtù acquisita per merito attraverso la morale e la conoscenza diretta dell’esperienza fenomenica. Colui che ha deposto la collera, che è fedele ai voti, che è virtuoso, privo di attaccamenti, che è domo, che ha ricevuto il suo ultimo corpo, costui io chiamo brahmana.7 Il buddhismo si contraddistingue per il primato della pratica sulla fede che è sempre soggetta a revisioni e verifiche per attestarne l’aderenza a un vero percorso liberante. La fede, dunque, non ha valore senza la pratica, e questa pratica consiste nella visione penetrante delle cose così come sono. Dal momento che per questa tradizione spirituale il mondo è un mondo di fenomeni e la mente è la chiave di accesso della realtà fenomenica, il buddhismo per liberare i suoi fedeli dalla morsa della sofferenza auspica una trasformazione della mente. La mente deve essere addestrata affinché possa penetrare l’esperienza fenomenica: una mente non addestrata è stretta nella morsa del dolore, una mente perfettamente addestrata è una mente liberata dal dolore8. Della biografia del Buddha esistono diverse versioni, ma tutte presentano una uniformità episodica o quanto meno uno schema abbastanza fisso. Tutte le versioni agiografiche sono postume alla morte di Gotama di quattrocento anni e sono state elaborate tenendo come spunto e punto di partenza del materiale biografico antecedente i primi sūtra, grazie al quale furono riempiti i vuoti biografici presenti nei testi canonici. In queste biografie è difficile separare la realtà dei fatti dal lavoro propagandistico e celebrativo tipico dei fedeli 6 cfr. Robinson H.R., Johnson W.L., op.cit., p. 20. 7 (a cura di) FIlippani Ronconi P., Canone buddhista: discorsi brevi, UTET, Torino 1994, p.146. 8 cfr. Williams, op. cit., p. 12. 4 di una dottrina quando sono chiamati a ricostruire la vita del loro maestro. Possiamo, tuttavia, ricostruire la tensione morale e il grande spessore umano del fondatore di questa religione dal fatto che il saṅgha, la comunità buddista, seguisse l’esempio del maestro e ne incarnasse lo spirito: la comunità che ha conservato l’immagine del maestro era il frutto stesso dell’opera del Buddha. Il saṇgha fu infatti fondato e plasmato dal Buddha con lo scopo di preservare il suo insegnamento, e con tutta probabilità le biografie del Buddha più che avere valore storico, sono una metafora dell’insegnamento e contengono tutti gli aspetti fondamentali della dottrina.9 Se la pratica dei fedeli riesce a conservare ancora il valore spirituale del fondatore, la ricostruzione storica è, tuttavia, molto complessa e nonostante una certa uniformità tra le diverse biografie, non ne esiste una comunemente accettata dalle diverse scuole. Alcune sono delle vere agiografie con tutto il corredo di miracoli e gesta sovraumane, altre conservano toni meno stupefacenti e narrano della vita di un semplice uomo che riuscì a liberarsi dal dolore e dal ciclo delle rinascite solo con le sue qualità, facilitando la possibilità di imitare il suo sforzo e il suo percorso. Il Buddha Sakyamuni era il figlio di un ministro del consiglio della repubblica agraria degli Sakya, Sakyamuni infatti significa “saggio degli Sakya”. Il territorio di questa repubblica si trovava nel nord-est, ai piedi delle colline himalayane, tra l’attuale Nepal e l’India. Il suo clan portava un nome, Gotama, appartenente alla classe dei brāhmaṇa . La tradizione data la nascita di Siddhatta Gotama intorno al 624 a.C., ma nuove ricerche spostano tale avvenimento nel 566 o nel 448 a.C.10 Lo schema comune delle diverse biografie è il seguente: Asita, un vecchio profeta, per volere del padre, Śuddhodhana, scruta il possibile futuro del neonato Siddhatta e prevede due possibilità contrastanti, quella che lo vedrà divenire un Buddha e quella in cui diverrà un monarca universale che dominerà l’intero subcontinente indiano. Il padre per evitare la 9 cfr. Williams, op. cit., p. 35-38. 10 cfr. ibid., p.23. 5 rinuncia del potere da parte del figlio, cerca di tenerlo lontano dalla sofferenza, dalla vecchiezza e dalla morte isolandolo in un sfarzoso palazzo e circondadolo di ricchezze e di giovani donne, ma un giorno il giovane principe, volendo vedere il mondo fuori dal suo palazzo, incontra un vecchio, un malato, e un cadavere. Profondamente scosso, si interroga sulla validità di una vita basata sul piacere dei sensi, quando lo spettro della morte e la morsa del dolore esistenziale sono presenze costanti. Decide di abbandonare la famiglia e una vita di privilegi per abbracciare la vita ascetica. In un primo momento la sua condizione di asceta è caratterizzata da una perniciosa rinuncia che lo vede praticare forme di punizioni corporali, poi si accorge di aver intrapreso un percorso che rafforza l’ego in un esaltante compiacimento per l’estrema austerità e decide di abbandonarle. Si affranca da queste forme di rinuncia estreme in favore di quella che la tradizione ricorderà come la via di mezzo: un percorso spirituale scevro tanto dal lassismo e l’autocompiacimento così come dall’autopunizione e dalla mortificazione della carne. La via dell’austerità estrema come quella dei profondi stati di assorbimento mentale appresi presso asceti avanzati incontrati nel suo percorso spirituale non conducevano alla liberazione. Il Sublime risponde a Nigrodha, dedito alla macerazione del corpo: “ Ed io, o Nigrodha, invece dico che più di un’impurità si mescola in questa completa scrupolosa macerazione […] un penitente si applica ad una macerazione. Ed egli, per questa macerazione, e per la macerazione si compiace ed è intento alla sua gloria, ciò, o Nigrodha, è impurità […] per questa macerazione esalta se stesso e disprezza gli altri, ciò, o Nigrodha, è impurità […] per questa macerazione, diviene esaltato, infatuato, negligente […] ciò, o Nigrodha, è impurità […] con tutta questa macerazione si procura acquisto di onorata fama, e per il procurato acquisto di onorata fama si compiace ed è intento alla sua gloria […]ciò, o Nigrodha, è impurità […] per il procurato acquisto di onorata fama, esalta se stesso e disprezza gli altri […] acquista delicatezza di gusto: ciò mi piace, ciò non mi piace. Egli respinge 6 sdegnosamente ciò che non gli piace, e diviene avido e goloso di ciò che gli piace e ne gode […]ciò, o Nigrodha, è impurità […]”.11 Con queste nuove conoscenze acquisite nella pratica e con una maggiore determinazione maturata dalla comprensione degli errori commessi, si assise ai piedi di un albero, ficus religiosa, in seguito chiamato albero della bodhi, e decise di non alzarsi fino a quando non avesse raggiunto il suo scopo. Secondo la tradizione buddista nell’anno 520 a.C., il Buddha raggiunse il risveglio, l’illuminazione. Altre fonti riportano come data il 531 a.C.,12 risveglio che, sempre secondo la tradizione, avvenne nel plenilunio del mese di Vesakha (aprile-maggio). La sera di questo storico plenilunio, seduto ai piedi dell’albero della bodhi, il risvegliato si immerse negli stadi meditativi, dove conseguì, con la prima veglia – dal crepuscolo alle 21.00 – la prima conoscenza, inerente alle sue vite precedenti. Nella seconda veglia – dalle 22.00 alle 02.00 – raggiunse la comprensione e la visione del destino di tutte le creature: vita, morte e rinascita. Con la terza veglia – dalle 02.00 all’alba – acquisì la conoscenza liberante, il sapere connesso all’eliminazione degli āsava (āsrava) (gli inquinanti: ignoranza, sensualità, visione speculativa) e comprese la causa della sofferenza e il meccanismo che alimenta vecchiezza, morte e rinascita, un processo noto nella cultura buddhista col nome di paṭiccasamuppāda (pratītyasamutpāda), la produzione condizionata. Il Risvegliato, dunque, risalì il processo fenomenico universale partendo dalla propria esperienza individuale: con la prima veglia conobbe le proprie vite precedenti, con la seconda il meccanismo universale, cioè di tutti gli esseri viventi, della rinascita (kamma), nella terza vigilia lo studio del meccanismo della legge del kamma lo portò ad afferrare il processo che produce e alimenta la sofferenza e, quindi, a trovare la strada che conduce alla fine della sofferenza. Le conoscenze acquisite nelle prime due veglie rientrano in un 11 Frola E. (a cura di), Canone buddhista: discorsi lunghi, UTET, 1967, pp. 660-661. 12 cfr. Gnoli R. (a cura di), La rivelazione del Buddha: vol.1- i testi antichi, Mondatori, Milano 2001, p. XV. 7 percorso conoscitivo tipicamente prebuddhista e sono di tipo sciamanico, l’elemento nuovo introdotto dal buddhismo, testimoniato con la conoscenza ottenuta nella terza veglia, è il legame tra kamma e etica.13 Le forme di sapere inerenti alla comprensione della causalità dei processi dell’esperienza, rientrano in una metodologia conoscitiva che la civiltà contemporanea chiama fenomenologia. L’eco delle teorie husserliane risuona tra queste parole, e se la fenomenologia indaga l’esperienza e rintraccia le sue caratteristiche principali attraverso il diretto studio dei fenomeni, fenomeni sempre influenzati dal personale punto di vista di chi ne fa esperienza, possiamo riscontrare la presenza di un approccio gnoseologico di tipo fenomenologico durante la terza veglia del risveglio. E questo fu un evento epocale: in un periodo nel quale le architetture mentali dell’uomo edificarono complessi riti e forme di sacralità, una suddivisione sociale articolata e vincolante, e una etica ancora soffocata da alcune caste ritenute sacre, il Risvegliato superò i limiti conoscitivi del suo tempo e approntò un percorso spirituale oltre le sovrastrutture della società a cui apparteneva, ponendo al centro del suo insegnamento l’etica e rifiutando il rito e l’ortoprassi sacrificale brahmanica. Ora il bene e il male non sono qualità dell’azione, ma dell’intenzione, è sulla base dell’intenzionalità di un atto che si apre la porta di accesso a una determinata futura rinascita, le azioni non intenzionali non sono più carburante karmico ed hanno solo conseguenze di causa ed effetto nella vita presente. Vediamo quale importanza ha per la dottrina dell’Illuminato la mente, una posizione centrale che in altre religioni è occupata da una forma di divinità. La mente edifica le sovrastrutture mentali che imprigionano l’uomo, è la porta d’accesso per la sofferenza e allo stesso tempo genera altra sofferenza, ma è anche capace di afferrare la natura delle cose così come sono, comprendere la sofferenza ed eliminarla. Siddhatta, dunque, mise in moto la ruota del Dhamma: 13 cfr. Robinson H.R., Johnson W.L., op.cit., p. 32. 8 2.2. La prima nobile verità. I racconti biografici asseriscono che il Risvegliato rimase a Bodghaya, sotto l’albero della bodhi, per sette settimane circa. In un primo momento, era molto sfiduciato sulla possibilità di poter insegnare una dottrina così difficile da comprendere, allora, il dio Brahma lo convinse a promulgare il Dhamma. Gotama pensò di cercare i suoi maestri spirituali e provare a esporre la dottrina a loro che erano più avanzati spiritualmente della gente comune, ma una divinità lo mise a conoscenza della morte dei suoi vecchi maestri. La cosa migliore forse sarebbe stata trovare i cinque mendicanti con cui avevo condiviso il percorso delle pratiche ascetiche estreme, e con questo proposito si mise in viaggio alla volta di Benares. Lungo la strada incontrò un mendicante, al quale provò ad esporre le sue nuove conoscenze, ma questi non credette in lui come uomo liberato dalla sofferenza e dal ciclo delle rinascite. A Benares, trovò e convinse i cinque compagni di ascesi e riuscì a convertirli, probabilmente perché a differenza del mendicante scettico conoscevano le sue qualità e la sua buona fede. Questo primo discorso è conosciuto come il Dhammacakkappavattanasutta, Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma. Per questo nella tradizione si dice che Siddhatta mise in moto la ruota del Dhamma: “O monaci, coloro che hanno abbandonato la vita mondana non devono indulgere ai due estremi. Quali sono questi due estremi? Un estremo è il dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali: questo comportamento è infimo, villano, volgare, ignobile e vano. L’altro estremo è il dedicarsi alla mortificazione di se stessi: questo comportamento è doloroso, ignobile e vano. Evitando i due estremi, o monaci, il Tathāgata ha realizzato il “sentiero di mezzo” (majjihimā pañipadā) che produce la visione e la conoscenza, e che guida alla calma, alla perfetta conoscenza, al perfetto risveglio, al nibbāna.”14 14 Gnoli R. (a cura di), La rivelazione del Buddha: vol.1- i testi antichi, Mondadori, Milano 2001, p. 7 9 Il cuore del primo discorso è l’esposizione delle Quattro Nobili Verità (cattāri ariyasaccāni), che rappresentano lo sforzo della tradizione buddhista di comprendere la realtà fenomenica e non sono da intendere come elementi di dogmatica religiosa ai quali credere perché affermati dall’autorità religiosa. Buddha scorge la sofferenza, dukkha, essere implicita all’esistenza umana, ma al tempo stesso rappresentare la chiave d’accesso al sentiero che conduce alla liberazione. Le Quattro Nobili Verità sono l’esposizione della realtà una volta vinta la sovrastruttura metafisica di ciò che chiamiamo “io”. Le Quattro Nobili Verità sono: 1. Dukkha, la sofferenza 2. Samudaya, l’origine della sofferenza 3. Nirodha, la cessazione della sofferenza 4. Magga (sanscrito Mārga), il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza. 2.2.1. Dukkha. Secondo la speculazione buddhista esistono tre segni che caratterizzano l’esistenza: anicca (sanscrito anitya) l’impermanenza, dukkha (sanscrito duḥkha) la sofferenza e anattā (sanscrito anātman) la mancanza di esistenza intrinseca del sé o non egoità. Essi individuano anche lo stato di sofferenza causato dalla transitorietà e dall’impermanenza dei fenomeni. Interessante come Alfonso Verdu affronti anicca e anattā quali aspetti polari, perché l’uno esprime il carattere “oggettivo” della mancanza di esistenza intrinseca, mentre l’altro quello “soggettivo”.15 Anicca e anattā esprimono cioè l’impermanenza e l’insostanzialità di tutti i fenomeni, sebbene anicca rappresenta il carattere universale dell’impermanenza fenomenica, mentre anattā riguarda l’insostanzialità dell’ego. In un certo senso, anattā può essere visto come un’appendice di 15 Verdu A., Early Buddhist Philosophy: in the light of the noble truths, Motilal Banarsidass Publisjers Private Limited, Delhi, 1985, p.11. 10

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