Johann Chapoutot Il nazismo e l’antichità Indice delle illustrazioni 1. Ex septentrione lux: mutamento dei paradigmi e nuova visione della storia. Dietrich Klagges, Geschichtsunterricht als nationalpolitische Erziehung, Moritz Diesterweg Verlag, Frankfurt-am-Main 1937, p. 442. 2. Il carro di Pallade Atena nelle strade di Monaco durante la Giornata dell’arte tedesca, 15 ottobre 1933. «Die Kunst im Dritten Reich», 1937. 3. Riproduzione di stendardi romani (vexillarius, aquilifer, signifer) e stendardo della Nsdap. University of South Florida e Organisationsbuch der Nsdap, Franz Eher Verlag, Zentralverlag der Nsdap, München, 6º ed. 1940, tavola 30. 4. Progetto dell’Adolf-Hitler-Platz a Dresda. «Die Kunst im Deutschen Reich», 1939. 5. Schizzo per un viadotto autostradale di Friedrich Tamms, 1941. «Das Bauen im neuen Reich», 1941. 6. Le colonne d’Ercole all’ingresso del Reich: progetto di Albert Speer per un accesso autostradale alla frontiera tedesca, Salzburg (prima dell’Anschluss). «Die Kunst im Dritten Reich», 1938. 7. Tribuna dello Zeppelinfeld, ispirata all’altare di Pergamo. «Die Kunst im Dritten Reich», 1938. 8. Albert Speer, il progetto del Grande Stadio a Norimberga. «Das Bauen im neuen Reich», 1939. 9. Thingstätten e teatro greco: la Dietrich-Eckhart-Bühne a Berlino-Grünewald, dietro lo stadio olimpico. «Das Bauen im neuen Reich», 1938. 10.Confronto tra un SS e un antico romano. Blut und Boden-Lichtbildvortrag. Erster Teil: Das Blut, seine Bedeutung, Reinerhaltung und Verbesserung, Reichsführer-SS, Chef des Rasse-und Siedlungshauptamtes, Berlin s.d., pp. 18 e 25, BABL/NSD 41/87. 11.Gli intarsi dello scrittoio di Hitler: Marte, il dio romano della guerra, con sfondo di spada sguainata e giavellotto. «Die Kunst im Deutschen Reich», 1939. 12.L’umanità nordica assediata: «Il guardiano» (Der Wächter) di Arno Breker, un guerriero nudo sincretico munito di una spada romana e di uno scudo greco. «Die Kunst im Deutschen Reich», 1940. Il nazismo e l’Antichità A Élise Rocchi, nel ricordo fedele Introduzione Questo studio è nato da uno stupore: alcune ricerche sui movimenti giovanili e l’idea di Europa mi avevano condotto a leggere dei discorsi in cui Alfred Rosenberg affermava che i greci erano un popolo del Nord. Si può documentare che questo curioso oggetto testuale non faceva che seguire l’opera canonica della dottrina nazionalsocialista: Hitler scrive nel Mein Kampf che esiste una «unità di razza» tra greci, romani e germani, e che questi tre popoli sono uniti in una stessa lotta millenaria. Per dare un senso a queste affermazioni sconcertanti, si può addurre l’argomento che i contemporanei parodiavano i secoli e la leggenda dei secoli e che, se c’è uno spettro che assilla l’Europa dei potenti, è proprio quello dell’Antichità. Per lo meno a partire dal Rinascimento, un edificio di stile romano sorretto da colonne con capitelli corinzi permette di richiamare il grandioso ricordo della potenza romana, di una sovranità fondata sulle armi e il diritto, e incline all’universalismo. Sappiamo che il ricorso al precedente romano è banale in un Occidente che è in grado di esprimere il potere supremo solo attraverso vocaboli latini: imperatore proviene da Imperator, e Kaiser, cosí come Zar, per altro, da Caesar. Da Carlomagno in poi, tutti i candidati al dominio universale si sono ornati con i paramenti del defunto Imperium romanum, e gli imperatori romani germanici, austriaci, francesi, britannici, russi, tedeschi hanno tutti sognato la restauratio imperii. Anche la Grecia non è mai stata dimenticata, piú per le parole che non per le armi. Viene evocata per il supplemento d’anima, la nobiltà del suo profilo, il sublime della filosofia. Ci vorrebbe proprio una glittoteca per associare alla forza la bellezza della statuaria antica. Una conferma viene anche dalla Germania filellenica di Federico II di Prussia, della Weimarer Klassik e di Luigi I di Baviera che celebra inoltre, con la Grecia di Missolungi, il principio nazionale. Lo storico sa infine che, al di là del riferimento antico, la strumentalizzazione della storia, il ricorso all’arringa o al paradigma storico da parte di un potere politico è un fenomeno frequente, tanto piú quando si tratta di regimi totalitari che aspirano ad ancorare piú efficacemente nel profondo di una normalità storica l’oggetto politico sconosciuto che promuovono. Stalin ordina ad Ėjzenštejn un Aleksandr Nevskij per rivendicare la resistenza russa all’imperialismo germanico, e in seguito un Ivan il Terribile che, calandosi nel pieno del XV secolo, mostra un Cremlino in lotta contro i boiari. Tutto questo è ben noto: Mussolini vuole ricostituire un imperium di cui fa esibire le mappe lungo la Via dei Fori imperiali. L’utilizzazione del riferimento antico da parte del fascismo italiano è stata oggetto di ampie ricerche, per quanto è immediata e spettacolare. Tuttavia, questo rapporto con l’antico per lo piú non è altro che messa in scena e semplice parata. La pregnanza del passato sembra, al contrario, rivestire un’importanza piú profonda per il nazionalsocialismo. Il fascismo italiano, come attesta la sua politica artistica, è aperto alla novità, mentre il nazismo coltiva e venera il passato, luogo sacro dell’origine. Il rapporto del nazionalsocialismo con il mondo antico non ha tuttavia suscitato alcun interesse tra gli storici: se si ammette facilmente che i nazisti abbiano potuto mobilitare un’autentica e indubitabile germanità, ci si rifiuta invece di associare nazionalsocialismo e Antichità greco-romana. E tuttavia la incontriamo dovunque: nei nudi neogreci di Breker e di Thorak, nell’architettura neodorica di Troost, negli edifici neoromani di Speer, mentre i manuali scolastici presentano una visione sorprendente dell’Antichità mediterranea, e le ricerche universitarie svolte durante il Terzo Reich includono studi di valore imperituro su argomenti quali I capelli biondi tra i popoli indogermanici del mondo antico, oppure articoli, infarciti di accenti ideologici, su L’ebreo nell’Antichità greco-romana. Dunque, essa ha suscitato un interesse particolare sotto il Terzo Reich, e questo fino alle ultime ore dell’aprile 1945 quando il «Völkischer Beobachter» e il giornale «Das Reich» pubblicano testi sulla seconda guerra punica e il rovescio di fortuna di Roma contro Annibale- Stalin. Lo stupore, a questo punto, è totale: quale strana mania ha potuto spingere, nel cuore del XX secolo, i dignitari del regime nazista a parlare, e a parlare tanto, dei greci e dei romani? a richiedere opere d’arte neo-antiche e articoli di stampa sulla Roma dei Fabii? a sottoporre l’età antica, attraverso ricerche universitarie e riforme di programmi scolastici, a un aggiornamento ideologico coerente con tale impostazione? Noi conosciamo e consideriamo il nazionalsocialismo come l’espressione piú compiuta del razzismo in idee e in atti. Ora, parlando di razzismo si parla di esclusivismo: il razzismo è una contrapposizione amico/nemico fondata su un rigido determinismo biologico che arriva a giustificare un’inquietante selezione dei vivi e dei morti, dei contemporanei come degli antenati. La trasmissione dei caratteri biologici della razza esclude ogni possibilità di avventurarsi lungo una linea extra-ereditaria, esclude ogni digressione genealogica, ed esige, al contrario, una grande severità patrilineare, una rigorosa linea di discendenza. I rami dell’albero razziale possono essere molteplici, ma l’unità e la purezza del ceppo debbono essere attestati storicamente: in linea diretta si succedono dunque i germani, annidati nelle remote contrade della paleontologia e dell’Urwald, i Portaspada e i Teutoni, Federico II e Bismarck, Hindenburg e Hitler, sigillo dei profeti e culmine del lignaggio. Il fatto che, nel razzismo, l’ideologia si confonda in parte con la genealogia chiarisce totalmente l’affinità che esiste tra nazismo e tempo passato, tra la razza e la caccia all’uomo, tra la formulazione dell’identità e la ricerca dell’origine: le SS esigono, per concedere i permessi di matrimonio, certificati di arianità risalenti al 1750, ossia 15 quarti di nobiltà razziale. Dopo che, nel 1943, due ufficiali SS scoprirono di avere un antenato comune ebreo, nato nel 1685, Himmler decise che, dopo la guerra, l’acribia dovesse spingersi fino al 1650, vale a dire piú di venti quarti1. Questa mania della purezza genealogica colpisce gli individui misurati, classificati e inquadrati nel presente, sondati nel passato, ma anche la razza stessa: le SS e i loro battaglioni di archeologi del Deutsches Ahnenerbe frugano in Sassonia, nello Schleswig, in Lorena, in Polonia, ma anche, benché sia piú strano, a Olimpia. Ora Ahnenerbe significa eredità degli antenati: ci sarebbero dunque antenati provenienti da Olimpia? Un razzismo cosí ossessivo quale è il nazismo sembrerebbe escludere a priori ogni riferimento che non fosse quello a una germanità rigorosamente definita e accuratamente circoscritta: cosa c’entrano qui i greci, oltre a tutti i romani, le statue e i discorsi evocati sopra? Che bisogno c’è di ricorrere all’Antichità greco- romana? C’è forse un’insufficienza intrinseca, un difetto inerente al solo riferimento germanico, al precedente dei germani. Ora, se si tratta di allestire un discorso di fierezza nazionale e un’emulazione per i contemporanei, il deposito di riferimenti propri della storia tedesca presenta tutta l’abbondanza e la ridondanza necessarie. Il nazismo può attingere in misura adeguata modelli e archetipi nella storia della Prussia, del Sacro Romano Impero e del Drang nach Osten dei cavalieri teutonici. Ogni fase di questa storia offre una profusione di tipi che esaltano un tratto caratteristico del soldato politico che il nazismo intende magnificare: l’esercito prussiano è un modello di disciplina, di organizzazione e di addestramento. Il vecchio Fritz offre a volontà l’immagine della tenacia incoronata dal destino, il Sacro Romano Impero lusinga l’inclinazione egemonica dell’imperialismo nazista, l’epopea teutonica illustra lo spirito di conquista che anima una razza alla ricerca di uno spazio vitale. Basterebbe un trittico composto da Hermann il Cherusco, Enrico il Leone e Federico II di Prussia per illustrare ampiamente tutti gli aspetti dell’ethos nazista cosí come viene promosso dalla propaganda del partito e del regime. Andare a cercare da qualche altra parte sarebbe indelicato per l’orgoglio nazionale: la cultura tedesca può essere propriamente germanica, sui generis. L’ascesa dei nazionalsocialisti al potere suscita per altro una legittima speranza tra i nazionalisti culturali, in particolare gli studiosi della preistoria, che pensano di poter finalmente fare tabula rasa e cattedra vuota del latino e del greco, a vantaggio delle antichità germaniche. Perché ricorrere al mondo antico e offrirgli sacrifici riverenti, malgrado il numero e la fecondità degli exempla propriamente germanici? I nazisti vi troverebbero forse qualcosa di piú? Gli exempla germanici illustrano un ethos, quello del soldato politico, una morale del coraggio, della tenacia e del sacrificio alla comunità: equivalenti transalpini dei personaggi di Tito Livio e del De Viris Illustribus di Lhomond, i vari Camillo, Regolo e Cincinnato che non mancano in alcuno dei discorsi memoriali nazionali nati da una sottile alchimia di scienza, di folklore e ovviamente di interesse politico, dalle nozze tra Grimm e Lavisse. Ma un ethos non è un ghenos, un’etica non è una genealogia. Il riferimento antico trasposto in termini razziali offre ai nazisti l’opportunità di affabulare un discorso delle origini, la biografia di un Urvolk nobilitato dal prestigio di Augusto e di Pericle. Il riferimento propriamente e puramente germanico è infatti troppo brutale. Gli archetipi di questa storia soffrono di un vizio incorreggibile: la palese mancanza di prestigio culturale di cui la logora germanità delle origini è alquanto sprovvista. Sulla scala di civiltà della cultura umanistica occidentale, la rudezza germanica manca di urbanità storica. Ora, lo scopo ribadito da Hitler era di ritemprare la fierezza di una nazione umiliata dal Diktat di Versailles. Questa terapia nazionale non passava solo attraverso il riarmo e una politica architettonica megalomane, o attraverso le avvisaglie di guerra nella Saar, in Austria o in Moravia: la geografia dell’Europa doveva certamente avvertire la forza del Führer, ma anche la sua storia. Il presente e lo spazio non bastavano: anche il passato e il tempo dovevano contribuire a risollevare una fierezza umiliata nel 1918 e 1919. L’annessione del passato antico, delle sue opere, dei suoi Stati, rivestiva pertanto un’importanza ideologica cruciale. Colette Beaune2 e Claude Nicolet3 ci hanno iniziati alle genealogie fantasiose delle nazioni medievali: i monarchi francesi esibivano tra i loro ascendenti l’ebreo Davide e il troiano Francus, mentre i re inglesi invocavano devotamente la memoria di un Bruto, compagno di Enea. La nobiltà ha avuto i suoi franchi, il terzo stato e successivamente la Repubblica hanno avuto i loro galli, in una contesa tra due razze che, in Francia, è sorta nel XVI secolo. Ma in questo caso non si tratta solo di inventarsi una genealogia. Quando Rosenberg e Hitler parlano dei greci come di un «popolo nordico», non intendono stabilire una filiazione ma affermare una paternità, fatto che costituisce una significativa inversione dello schema tradizionale: e se tutto venisse dalla Germania? Questa captazione del mito ariano, che apparteneva ad alcuni cenacoli di linguisti e di storici del XIX secolo tedesco, in cui ci si compiaceva di immaginare che i dori di Sparta venissero dal Nord, è stata sistematizzata e razzializzata dai nazisti, che volevano accreditare l’idea secondo cui la Germania era necessariamente grande, in quanto aveva dato nascita a civiltà prestigiose. Pertanto, afferma Rosenberg, imitare l’Antichità non ha piú nulla «di vergognoso o di incompatibile con la dignità nazionale», poiché si tratta di una semplice e legittima riappropriazione del patrimonio indogermanico. Malgrado la pregnanza e la presenza dei riferimenti all’Antichità greco- romana sotto il Terzo Reich, la questione del rapporto nazionalsocialista all’antico ha attirato solo in forma molto circoscritta l’attenzione degli storici, i quali s’interessano soprattutto al mito germanico e al ruolo che gli viene riservato nell’ideologia nazista. Alcuni storici hanno studiato in modo piú specifico la sorte della Geschichtswissenschaft sotto il Terzo Reich, come ad esempio Otto Gerhard Œxle4 e Peter Schöttler5, che la definiscono come una «scienza di legittimazione» dell’ideologia. La presenza dell’Antichità tra i nazisti e la sorte della storiografia antica sotto il Terzo Reich sembrano preoccupare piú gli storici del mondo antico che riflettono sull’etica e sui metodi della propria disciplina che non i contemporaneisti. Gli storici dell’arte sono stati piú coinvolti dalla questione: un’opera di Alexander Scobie6 è ad esempio dedicata al rapporto fra architettura nazista e mondo antico. Non esiste un quadro globale, sintetico, di questi riferimenti al mondo antico sotto il Terzo Reich, della molteplicità dei loro vettori, e delle funzioni attribuite al loro uso. È appunto un tale quadro d’insieme quello che vorremmo proporre,
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