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Il montaggio. Ediz. illustrata PDF

338 Pages·2001·11.268 MB·Italian
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Sergej M. Ejzenstejn IL MONTAGGIO a cura di Pietro Montani Con un saggio di Jacques Aumont Marsilio © 1986 BY MARSILIO EDITORI S.P.A. IN VENEZIA Titoli originali Izbrannye proizvedenija v sesti tomach (Opere scelte in sei volumi), Mosca, Iskusstvo, 1963-1970, vol. n (I titoli originali dei singoli saggi sono riportati nelle note ai testi) Traduzioni dal russo di Giorgio Kraiski, Federica Lamperini, Antonella Summa Traduzione dal tedesco di Giovanni Spagnoletti ISBN 88-317-4932-3 Prima edizione: novembre 1986 Seconda edizione: aprile 1992 INDICE Rileggere Ejzenstejn: il teorico, lo scrittore di Jacques Aumont IX IL MONTAGGIO 3 Fuori campo 19 Drammaturgia della forma cinematografica 36 Appunti per le integrazioni all’articolo di Stoccarda 53 La quarta dimensione nel cinema 71 L’errore di Georges Méliès 75 «Eh!» la purezza del linguaggio cinematografico 89 Montaggio 1938 129 Il montaggio verticale APPENDICE 219 Il montaggio delle attrazioni 219 La linea teatrale del Proletkul’t 220 II montaggio delle attrazioni 227 Il montaggio delle attrazioni cinematografiche 239 Premessa principale 251 Indice dei nomi RILEGGERE EJZENSTEJN: IL TEORICO, LO SCRITTORE La storia si ripete, com’è noto (almeno dopo Marx). La Storia si ripete e le storie ritornano. Ritorna, per esempio, la storia di questo cineasta - così tanto celebre e così poco conosciuto - che bisogna continuamente riscoprire, continuamente sottrarre all’oblio e a un vago senso di noia. La storia di un cineasta che non riusciva a fare film, o i cui film, appena finiti, venivano distrutti, o rifatti, o imboscati; la storia di un cineasta di cui nessuno guarda più i film, perché sono stati troppo visti (ma da chi?). E - altra ripetizione della Storia - la sventura di uno scrittore travestito da cineasta: uno scrittore prolisso, autodidatta come il cineasta, capace di inventare in modo selvaggio e di ripetersi ossessiva­ mente: insomma, uno scrittore che fa di tutto per non essere letto e che, una volta letto, fa di tutto per non essere capito. Esiste, ancor oggi, un caso Ejzenstejn. Ciascuno è convinto di sapere qual è il vero Ejzenstejn: l’autore, di fronte all’eternità, del Potemkin (o di Ivan il Terribile, a seconda dei casi); il teorico confusionario ma-che- straordinario-insegnante-doveva-essere; e, ultimo cliché in ordine di tempo, il servile officiante della religione staliniana. Ciascuno ha il suo Ejzenstejn, e tutti si sbagliano. Certo, Ejzenstejn è stato tutto questo - come negarlo, e perché, poi? -, ma è stato anche altro, e molto di più: uno scrittore. Ecco, allora, la principale utilità di un’impresa editoriale come que­ sta: ritrovare, al di là di ogni riesumazione pietosa, al di là di ogni pignoleria di archivista, la traccia difficile e frammentaria di uno scrittore perduto. Non è passato troppo tempo da quando un eminente critico poteva farsi beffe della sua mentalità «dogmatica» e «apodittica», dire spiritosaggini a proposito del suo «confusionario hegelismo da motoci­ clista», e malignare a proposito delle sue «civetterie culturali che rivela­ no, oltre a qualche ampiezza di curiosità da avido autodidatta, anche i limiti modesti della sua comprensione di quanto andava precipitosamen­ X Jacques Aumont te leggiucchiando»*. Si poteva, si può sempre essere spiritosi o maligni sulla pelle di Ejzenstejn scrittore: quanto a me, dirò subito che è stato un errore, un errore che oggi è diventato imperdonabile. Non mi pronuncerò sul suo stile: uno stile aspro, tagliente e aggirante al tempo stesso. Lo stile di uno che non ha mai voluto imparare - o che disprezza - il «bello stile». Uno stile che si inventa via via che va inventando il suo proprio discorso, che adatta i suoi ritmi irregolari a un senso un po’ morboso della velocità, che modella la lunghezza quasi proustiana delle sue digressioni su un interminabile saltar di palo in frasca. Uno stile, se si vuole, un po’ terrorista: insomma, una scrittura. C’è, soprattutto, un movimento ininterrotto: una mira, uno sguardo puntato. È una scrittura di cui sentiamo che non potrà mai fermarsi, che dovrà sempre procedere e spostarsi, perché l’affermazione più netta non è mai definitiva, perché ogni cosa, anche le teorie, anche i concetti, anche i dogmi (soprattutto quei dogmi che Ejzenstejn sembra voler maggior­ mente rispettare per poterli poi meglio negare), tutto sarà di nuovo messo in gioco, e con un nuovo rilancio. Una pubblicazione come questa offre la migliore testimonianza di un tale movimento: l’apparente limita­ zione tematica non fa che porre meglio in risalto il gusto (anzi, non il gusto: la necessità) dello spostamento, quella bulimia che, in qualche modo, spinge a passare dovunque anche se dovunque non si può, appun­ to, che passare. Non insisterò oltre su questo punto. Si tratta, in fondo, di ricordarsi solo del fatto che una teoria del cinema, o un’estetica, o una storia dell’arte (è la triplice impresa di Ejzenstejn) non si producono al di fuori di una scrittura. Che la sistematicità perseguita dalle teorie che hanno ambizioni scientifiche si raggiunge altrettanto bene, o addirittura meglio, nel gioco ossessivo. Che uno sguardo analitico, clinico sull’opera d’arte, uno sguardo che non sappia condividere in qualche misura la passione di quest’opera, mancherebbe il suo bersaglio. E questa, ad evidenza, la prima lezione del cineasta-scrittore. Ed è una lezione che non si capisce bene come potrebbe essere «superata» (mentre è vero che oggi si può, si deve lasciarla riformulare liberamente: vedi Godard, vedi Duras). Al cospetto di questa lezione essenziale, tutto il resto impallidisce, si fa contingente: l’erudizione (comunque stupefa­ cente), la volubilità, l’immaginazione, perfino l’ostinato rigore che Ejzen­ stejn si impegnava a far proprio, guardando al suo idolo, Leonardo. Non dovremo mai cercare, in lui, la teoria conclusa, e men che mai la teoria 1 U. Barbaro, in «Bianco e Nero», xn, n. 6, giugno 1951. Rileggere Ejzenstejn XI applicabile: solo il movimento, incessante come il lavoro, della teoria che si fa e si mette alla prova e si sposta, perché a ogni possibile approfondi­ mento di una teoria, com’è noto, Ejzenstejn preferiva sempre l’invenzio­ ne di una teoria nuova, foss’anche in contraddizione con la precedente. Così la coerenza, la stessa continuità, non vanno cercate nella costanza dei concetti: essenzialmente labili, i concetti elaborati da Ejzenstejn vivono sotto la minaccia perenne di essere eclissati da altri concetti che, per qualche ragione, apparissero d’improvviso provvisti di una maggiore utilizzabilità. Come qualcuno ha detto a proposito di Freud1 2, anche le nozioni ejzenstejniane non sono «poste», ma «camminano», «slittano», prese nel moto del pensiero e della scrittura. Se c’è, tuttavia, un termine che attraversa, senza alterazioni apparen­ ti, l’intero corpo dell’opera di Ejzenstejn, questo è, senza dubbio, il termine montaggio e, nella sostanza, è l’unico (perfino l’altro tema maggiore, quello del «conflitto» tende a scomparire dal vocabolario dell’Ejzenstejn della maturità, o a presentarsi sotto vesti diverse). Sembra, così, di essere ricaduti nella disputa dei luoghi comuni: a favore di un Ejzenstejn inventore del montaggio breve, del montaggio produttivo (la famosa formula sul montaggio di due inquadrature corri­ spondente, più che alla loro somma, al loro prodotto) e di una indifendi­ bile teoria del cinema «sonoro», o contro l’uomo delle infinite manipola­ zioni inflitte alla realtà (in nome del postulato baziniano che assimila montare e mentire}, e l’opportunista che abbandona una forma rivoluzio­ naria per glorificare, con un sol colpo, gli zar, Stalin e il cinema narrativo coprendo l’intera operazione con 1’«ombrello del montaggio». Insom- ma, ci troveremmo all’idea passe-partout di Ejzenstejn come «il cineasta per il quale il cinema è il montaggio». Dobbiamo allora precisare subito un punto: è piuttosto semplice «estrarre» dall’opera di Ejzenstejn delle teorizzazioni del montaggio (egli stesso non si nega il diritto di segnalarle, talvolta anche di etichettarle); le difficoltà cominciano quando ci si vede costretti a constatare che queste teorizzazioni non nascono da una pratica di cui sarebbero la razionalizza­ zione e, d’altra parte, che non possono interpretarsi come semplici varianti di uno stesso sistema. Ciò che il testo ejzenstejniano ci offre non è un’elaborazione di metodi di montaggio (non c’è nulla di meno applicabi­ le in concreto della nozione di montaggio armonico avanzata nel saggio 1 C. Metz, Le signifiant imaginaire, Paris, uge, 1977, pp. 282-283 (tr. it. Cinema e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980).

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