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Il mondo contemporaneo. Dal 1848 a oggi PDF

764 Pages·2008·3.224 MB·Italian
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Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto Il mondo contemporaneo Dal 1848 a oggi Premessa Questo volume nasce innanzitutto con l'intento di offrire agli studenti e ai docenti universitari, ma anche ai lettori in generale, una opzione ulteriore e diversa rispetto a quella proposta tre anni fa con i due volumi di Storia contemporanea (L'Ottocento e Il Novecento), che hanno peraltro ottenuto un lusinghiero successo anche fuori dal circuito universitario e che continueranno comunque a essere presenti in libreria. Si è pensato in questo caso di adottare una diversa periodizzazione, fra le molte possibili per segnare il problematico termine a quo della storia contemporanea, e di partire dall'ondata rivoluzionaria del 1848 - evento senza dubbio epocale a livello europeo, e avvertito come tale anche dai contemporanei - per raccogliere in un unico volume l'intera materia che comunemente viene ricompresa in questa disciplina. È una scelta opinabile come tutte le altre, dal momento che ogni periodizzazione è per sua natura arbitraria e convenzionale. Ma, rispetto ad altre altrettanto legittime (come quelle che fanno riferimento alle grandi rivoluzioni di fine Settecento, al congresso di Vienna o all'unificazione tedesca), presenta alcuni indubbi vantaggi: consente, infatti, di includere in un'unica e organica trattazione, senza procedere per tagli troppo sbrigativi, problemi ed eventi imprescindibili per la comprensione del mondo contemporaneo, a cominciare da quelli relativi alla realizzazione dell'unità italiana. G.S. V.V. 1. Le rivoluzioni del 1848. 1.1. Una rivoluzione europea. La crisi economica del '46-47 - La tradizione rivoluzionaria - La partecipazione popolare. Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria di ampiezza e di intensità eccezionali. Non a caso l'espressione "quarantotto" è diventata da allora sinonimo di "sconvolgimento improvviso e radicale". Eccezionale fu innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata dalle agitazioni. Ma eccezionale fu anche la rapidità con cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l'Europa continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico e alla Confederazione germanica. Fra le potenze europee, solo la Russia (dove l'arretratezza della società civile e l'efficienza dell'apparato repressivo impedivano l'emergere dei fermenti democratici) e la Gran Bretagna (dove al contrario il sistema politico si dimostrava più adatto a recepire le spinte della società) non furono toccate dall'ondata delle rivoluzioni. Un moto così ampio, esploso quasi simultaneamente in paesi molto diversi fra loro per assetto politico e condizioni sociali, non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da alcuni fattori comuni, presenti nell'intera società europea. Un primo elemento comune era dato dalla situazione economica: nel biennio 1846-47 l'Europa aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito prima il settore agricolo, poi quello industriale e commerciale, provocando carestie, miseria, disoccupazione e creando dovunque un clima di acuto malessere. Il disagio economico e l'inquietudine sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una crisi di così vaste proporzioni se su di essi non si fosse inserita l'azione consapevole svolta dai democratici di tutta Europa, in particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione comune che affondava le sue origini nella rivoluzione francese. Questa tradizione nel '48 era ancora viva; e viva era l'attesa di un nuovo grande sommovimento che avrebbe dovuto ridare slancio al moto di emancipazione politica - ma anche nazionale - cominciato alla fine del 700 e solo provvisoriamente interrotto dalla Restaurazione. In questo senso i moti del '48 si collegano a quelli del 1820- 21 e del 1830. Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente intrecciata - in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico - alla spinta verso l'emancipazione nazionale. Simile fu anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti secondo lo schema delle "giornate rivoluzionarie": cominciarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle capitali, sfociate poi in scontri armati. Se per un verso il 1848 chiude simbolicamente un'epoca - quella delle rivoluzioni liberali e democratiche legate all'iniziativa della borghesia e alle grandi sommosse urbane - per un altro verso ne apre una nuova, caratterizzata essenzialmente all'intervento delle masse popolari e dall'emergere degli obiettivi sociali accanto a quelli politici. Un altro tratto comune delle rivoluzioni del '48 fu rappresentato dalla massiccia partecipazione dei ceti popolari urbani. A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle sommosse. A Parigi, la componente popolare e operaia si mosse in relativa autonomia, e spesso in contrasto, rispetto alle forze democraticoborghesi e cercò di imporre propri specifici obiettivi di lotta. Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio dei moti, era stato scritto il Manifesto dei comunisti di Marx ed Engels, destinato a diventare il testobase della rivoluzione proletaria. Questa coincidenza di date ci aiuta a capire come mai il 1848 sia stato spesso considerato l'anno ufficiale di nascita del movimento operaio e addirittura sia stato scelto come una delle date più indicative per segnare il problematico confine che divide l'età moderna dall'età contemporanea. 1.2. La rivoluzione di febbraio in Francia. Contraddizioni e crisi della "monarchia liberale", La lotta per la riforma elettorale, L'insurrezione di febbraio e la proclamazione della repubblica, Il governo provvisorio, L'entusiasmo rivoluzionario, Le prime riforme, Il diritto al lavoro e gli "ateliers nationaux", Le elezioni di aprile e la sconfitta dell'ala radicale, L'insurrezione operaia di giugno, Il riflusso conservatore, La nuova costituzione, Le elezioni presidenziali e la vittoria di Luigi Napoleone Bonaparte. Come già era accaduto nel 1830, il moto rivoluzionario ebbe il suo centro di irradiazione in Francia. La "monarchia liberale" di Luigi Filippo d'Orléans era certamente uno dei regimi europei meno oppressivi. Ma la stessa maturazione economica, civile e culturale della società francese, favorita dal regime liberale, faceva apparire sempre meno tollerabili i limiti oligarchici di quel regime e la politica ultramoderata praticata da Luigi Filippo e dal suo primo ministro Guizot. Si andò così coalizzando un vasto fronte di opposizione che andava dai liberali progressisti ai democratici, dai bonapartisti ai socialisti, senza escludere alcune frange di opinione pubblica cattolica e legittimista. Per i democratici, in particolare, l'obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi senza distinzione di reddito o di condizione sociale. Il suffragio universale era visto non solo come l'attuazione pratica del principio della sovranità popolare, ma anche come il mezzo più sicuro per realizzare gli ideali di giustizia sociale, dando voce agli autentici rappresentanti del popolo e spezzando il monopolio del privilegio economico. Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici cercarono di trasferire la loro protesta nel "paese reale". Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei banchetti: riunioni svolte in forma privata che aggiravano i divieti governativi e consentivano ai capi dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in contatto e di far propaganda per la riforma elettorale. Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il 22 febbraio a Parigi, a innescare la crisi rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini, già mobilitati da giorni, organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale, il corpo volontario di cittadini armati che era stato istituito nel 1789 ed era rinato dopo l'insurrezione del luglio 1830. Espressione della borghesia cittadina, la Guardia nazionale era stata impiegata più volte per reprimere agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata a difendere un governo largamente impopolare, finì col fare causa comune con i dimostranti. Il successivo intervento dell'esercito radicalizzò la situazione e rese impossibile qualsiasi soluzione di compromesso. Dopo due giorni di barricate e di violenti scontri, che provocarono più di trecentocinquanta morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio, dopo un vano tentativo di placare la piazza con la destituzione di Guizot, Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa all’Hotel de Ville (il municipio parigino, naturale punto di riferimento di tutte le rivoluzioni) veniva costituito un governo che si pronunciava decisamente a favore della repubblica e annunciava la prossima convocazione di un'Assemblea costituente da eleggere a suffragio universale. Nel governo figuravano tutti i capi dell'opposizione democraticorepubblicana (il leader più in vista, l'avvocato parigino Alexandre LedruRollin, ebbe la responsabilità degli Interni, mentre gli Esteri furono affidati al poeta Alphonse de Lamartine) ed erano presenti anche due socialisti: Louis Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert. L'inclusione nel governo di due rappresentanti dei lavoratori - un fatto nuovo e sconvolgente nella storia europea - rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle giornate di febbraio, e riaffermava la vocazione "sociale" della neonata repubblica. I primi passi della Seconda Repubblica francese si svolsero in un clima di generale entusiasmo e furono caratterizzati da una ripresa in grande stile del dibattito politico. Fu abrogata ogni limitazione alla libertà di riunione. Sorsero nuovi giornali e si moltiplicarono, come già era avvenuto nell'89, i club e le associazioni d'ogni colore. In generale, i primi atti del governo repubblicano furono improntati a una certa moderazione. Fu abolita la pena di morte per i reati politici (veniva così implicitamente ripudiata la tradizione della repubblica giacobina, sulla cui immagine aveva a lungo pesato il ricordo del Terrore). Fu rifiutata la proposta di sostituire al tricolore la bandiera rossa, simbolo della rivoluzione sociale. La Repubblica si impegnava inoltre a rispettare l'equilibrio europeo rinunciando così a "esportare" la rivoluzione oltre i suoi confini. Questa moderazione scontentava però le correnti più accese del fronte repubblicano, che chiedevano da un lato un appoggio deciso ai movimenti rivoluzionari di tutta Europa e premevano dall'altro per l'adozione di misure radicali in materia di politica economica e sociale. Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva stabilito in un dici ore la durata massima della giornata lavorativa e - cosa ancora più importante - aveva affermato il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo fondamentale dell'economia capitalistica, quello del pieno impiego, Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: opifici, o officine, nazionali). Il nome faceva pensare a quegli ateliers sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato, nel suo libro del 1839 su L'organizzazione del lavoro, come vere e proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata com'era alla necessità immediata di aiutare i lavoratori colpiti dalla disoccupazione. Gli operai degli ateliers furono infatti adibiti a lavori di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e posti alle dipendenze del ministero dei Lavori pubblici. Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di profondo contrasto in seno allo schieramento repubblicano, la cui ala moderata considerava pericoloso - e incompatibile con i princìpi del liberismo economico - un intervento diretto dello Stato nel mercato della manodopera. Una prima secca sconfitta per le correnti di estrema sinistra venne dalle elezioni per l'Assemblea costituente, che si tennero il 23 aprile 1848. Il suffragio universale - applicato per la prima volta dopo gli anni della "grande rivoluzione" e dopo i plebisciti napoleonici - portò infatti alle urne un elettorato rurale, i cui orientamenti erano assai più conservatori di quelli prevalenti nella capitale. Su novecento eletti, i conservatori dichiarati e i nostalgici della monarchia non erano più di un centinaio; ma un insuccesso ancora più netto toccò ai socialisti e all'ala più radicale dello schieramento democratico. I veri vincitori furono i repubblicani moderati: furono loro a costituire l'ossatura del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti Blanc e Albert. Invano il popolo parigino tentò di riprendere l'iniziativa sul terreno delle manifestazioni di piazza. Il 15 maggio, una grande dimostrazione conclusasi con l'invasione dell'Assemblea costituente fu prontamente repressa dalla Guardia nazionale e molti leader della sinistra rivoluzionaria furono arrestati. Un mese dopo, il governo emanò un decreto con cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux e si obbligavano i disoccupati più giovani ad arruolarsi nell'esercito. La reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea. Il 23 giugno, oltre cinquantamila persone (fra cui molti ex dipendenti degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri popolari ricomparvero le barricate. In risposta, l'Assemblea costituente concesse pieni poteri al ministro della Guerra, il generale Louis Eugène Cavaignac, per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni successivi con spietata durezza. Migliaia di insorti trovarono la morte sulle barricate o nelle esecuzioni sommarie che seguirono gli scontri. Le tragiche giornate di giugno segnarono una svolta decisiva non solo nella breve storia della Seconda Repubblica. Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei lavoratori parigini (apparsa a Marx come il primo vero scontro di classe che vedesse schierati su opposti fronti proletariato e borghesia) dava corpo all'incubo della rivoluzione sociale, allo "spettro del comunismo". Tutta la società francese, dalla borghesia urbana, al clero, ai contadini irritati per l'aumento delle tasse, fu attraversata da un'ondata di riflusso conservatore. Nei mesi successivi alle giornate di giugno, la situazione rimase tuttavia sotto il controllo dei repubblicani moderati. In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande maggioranza una costituzione democratica, ispirata al modello statunitense, che prevedeva un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a suffragio universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i repubblicani si presentarono divisi (l'ala moderata appoggiò Cavaignac, quella progressista si schierò con LedruRollin), mentre i conservatori di ogni gradazione fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore (quel Luigi Bonaparte che aveva occupato il trono olandese). Nonostante avesse un passato da cospiratore - era sfuggito al carcere due volte, dopo altrettanti tentativi falliti di rovesciare Luigi Filippo - l'allora quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie garanzie alla destra conservatrice e clericale, che non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se si fosse presentata isolata. Bonaparte assicurava, al contrario, per la sola forza del suo nome, una sicura presa su vasti strati di elettorato popolare. Il calcolo si rivelò esatto. Una vera e propria valanga di suffragi si riversò sul Bonaparte, che ottenne 5.400.000 voti, contro il milione e mezzo scarso di Cavaignac e i 400.000 di LedruRollin. Si chiudeva così la fase democratica della Seconda Repubblica. La Francia cessava di essere il centro di irradiazione della rivoluzione europea. 1.3. La rivoluzione nell'Europa centrale. Il contagio rivoluzionario, L'insurrezione di Vienna, L'incendio si propaga, La rivoluzione in Ungheria, La sollevazione dei popoli slavi, Il "Reichstag" e i contrasti fra le nazionalità, I croati contro i magiari, La sconfitta della rivoluzione a Vienna, L'insurrezione di Berlino, L'Assemblea di Francoforte, La sconfitta della rivoluzione in Prussia, "Grandi tedeschi" e "piccoli tedeschi", La fine della Costituente. Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di febbraio si propagò nel giro di poche settimane a gran parte dell'Europa. Nell'impero asburgico, negli Stati italiani e nella Confederazione germanica gli echi degli avvenimenti parigini fecero esplodere una situazione già tesa: il malcontento suscitato dalla crisi economica si univa alla protesta contro la gestione autoritaria del potere e si mescolava alle tensioni provocate dalle numerose "questioni nazionali" che il congresso di Vienna aveva lasciato irrisolte. Diversamente da quanto era accaduto in Francia, la componente "sociale" rimase in secondo piano e lo scontro principale fu combattuto fra la borghesia liberale (con l'appoggio di consistenti settori delle classi popolari) e le strutture politiche dell'assolutismo. Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a Vienna, il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu data da una grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti, gli ambienti di corte (regnava allora l'imperatore Ferdinando I, seminfermo di mente) furono costretti a sacrificare il cancelliere Metternich: l'uomosimbolo dell'età della Restaurazione dovette abbandonare il potere, che deteneva ininterrottamente da quasi quarant’anni, e rifugiarsi all'estero. Le notizie dell'insurrezione di Vienna e della fuga di Metternich fecero precipitare la situazione nelle già irrequiete province dell'Impero asburgico e nella vicina Confederazione germanica. Il 15 marzo vi furono tumulti a Budapest. Il 17 e il 18si sollevavano Venezia e Milano (negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a Berlino, capitale della Prussia). Il 19 i cittadini di Praga inviavano una petizione all'imperatore chiedendo autonomia e libertà politiche per i cechi. Nella primavera del '48 il grande impero plurinazionale sembrava sull'orlo del collasso. In maggio l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere la convocazione di un Parlamento dell'Impero (Reichstag) eletto a suffragio universale. In Ungheria le promesse del governo imperiale di concedere ai magiari una propria costituzione e un proprio parlamento non bastarono a fermare l'agitazione autonomistica. Sotto la spinta dell'ala democraticoradicale, che faceva capo a Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi in cui versava il potere centrale per creare un governo nazionale e per agire in totale autonomia da Vienna. Fu decretata la fine dei rapporti feudali nelle campagne, una misura che certo contribuì ad assicurare l'appoggio dei contadini alla causa nazionale. Fu eletto un nuovo Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine, Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale, primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva ormai l'obiettivo finale degli insorti. Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento liberale, non mettevano in discussione il vincolo con la monarchia asburgica, ma si limitavano a chiedere più ampie autonomie per tutte le popolazioni slave dell'Impero. Ai primi di giugno si riunì a Praga un congresso cui parteciparono delegati di tutti i territori slavi soggetti alla corona asburgica: sia di quelli settentrionali (Boemia, Slovacchia, Galizia, Rutenia), sia di quelli meridionali (Croazia e Slovenia). Ma il 12 giugno, pochi giorni dopo l'apertura del congresso, alcuni incidenti scoppiati fra la popolazione e l'esercito fornirono alle truppe imperiali il pretesto per un intervento. La capitale boema fu assediata e bombardata. Il congresso slavo fu disperso e il governo ceco sciolto d'autorità. La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per il traballante potere imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la fedeltà dell'esercito, tradizionale pilastro della monarchia asburgica, non erano state intaccate dagli ultimi rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la svolta si consolidò. Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse nazionalità (l'unica sua decisione di portata storica fu l'abolizione della servitù della gleba in tutti i territori dell'Impero in cui era ancora in vigore), il governo centrale riprendeva gradualmente il controllo della situazione. In luglio - come vedremo più avanti - il maresciallo Radetzky sconfiggeva i piemontesi e ristabiliva il dominio austriaco in Lombardia. In agosto, sotto la protezione dell'esercito, l'imperatore rientrava a Vienna. A questo punto il governo si sentì abbastanza forte per affrontare lo scontro con i separatisti ungheresi che ormai rifiutavano ogni compromesso con la monarchia. Per venire a capo della secessione, il potere imperiale si servì abilmente delle profonde rivalità che dividevano gli slavi dai magiari. Questi ultimi infatti inseguivano il sogno di una "grande Ungheria" che comprendesse tutti i territori slavi già appartenenti all'antico regno magiaro. Gli slavi del Sud - in particolare i croati - furono così indotti ad appoggiarsi alla monarchia asburgica che offriva loro maggiori garanzie di conservare la propria identità nazionale. Un capo del movimento autonomista, Josip Jelacic, fu nominato in luglio governatore della Croazia. In settembre, un esercito comandato dallo stesso Jelacic entrò in Ungheria per unirsi alle truppe imperiali. Almeno per il momento, però, l'Ungheria fu salvata grazie a una nuova insurrezione scoppiata a Vienna ai primi d'ottobre. Studenti e lavoratori della capitale austriaca si sollevarono per impedire la partenza di nuove truppe per il fronte. I reparti già impegnati in Ungheria furono allora richiamati per schiacciare la rivolta. Alla fine di ottobre Vienna fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi combattimenti che costarono agli insorti circa duemila morti. La rivoluzione nell'Impero asburgico veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava in favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d'autorità il Reichstag e promulgò una costituzione "moderata", che prevedeva un Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri molto limitati e ribadiva al tempo stesso la struttura centralistica dell'Impero. Un corso per molti aspetti simile ebbero gli avvenimenti in Germania. Le grandi manifestazioni popolari iniziate a Berlino il 18 marzo 1848, dopo le prime notizie dei fatti di Vienna, costrinsero il re Federico Guglielmo IV di Prussia a concedere la libertà di stampa e a convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Ma intanto agitazioni e sommosse erano scoppiate in molti degli Stati e staterelli che componevano la Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria compresa. Un "preparlamento" riunitosi all'inizio di aprile stabilì che la

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