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Il mito profanato. Dall’epifania del divino alla favola mediatica PDF

29 Pages·2017·0.147 MB·Italian
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Fulvio Carmagnola Il mito profanato Dall’epifania del divino alla favola mediatica Con un saggio su Walter Benjamin di Stefano Marchesoni MELTEMI Meltemi editore www.meltemieditore.it [email protected] Collana: Biblioteca / Estetica e culture visuali, n. 5 Isbn: 9788883537677 © 2017 – MelteMi preSS Srl Sede legale: via Ruggero Boscovich, 31 – 20124 Milano Sede operativa: via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 22471892 / 22472232 Indice Proposito 9 Introduzione È ancora possibile la profanazione? 15 Praxis 19 Droog 26 Capitolo primo Il mito trascinato nel tempo 29 Forma simbolica 35 Intrico 39 Sirene 49 Capitolo secondo Gli dèi e la macchina 53 Gli dèi sono fuggiti 53 Bere la pura acqua della sorgente 59 La macchina mitologica 79 Lighea 65 Indicibile 73 Dissidio 80 Belva 92 Capitolo terzo Tutte le versioni appartengono al mito 95 Connessioni archetipiche 95 Morfologia e struttura 103 Metalinguaggio 112 Significante 99 Bandjoun 105 Simbolo 118 Regimi 129 Capitolo quarto Materia estetica 133 “Il profano scaccia il sacro” 133 Illuminismo sarcastico 139 Archetipi e guerre stellari 156 Sceneggiature: la macchina in funzione 171 Kitsch 135 Connotazione 148 Mitologema 159 Odino 172 Credere 186 Bibliografia 191 Appendici L’italicità come mito. Appunti per un progetto di ricerca 201 Walter Benjamin e l’interruzione del mito 221 di Stefano Marchesoni Ripresa “Il mito è un mito”. Una conversazione Fulvio Carmagnola e Stefano Marchesoni 247 Walter Benjamin e l’interruzione del mito di Stefano Marchesoni L’humanité sera en proie à une angoisse mythi- que tant que la fantasmagorie y occupera une place. Walter Benjamin 1. Il mondo mitico tra colpa e destino Il saggio di Walter Benjamin Le affinità elettive di Goethe (pubblicato tra il 1924 e il 1925, ma ultimato già nel 1922)1 si articola in tre parti che, stando agli appunti preparatori, si intitolano rispettivamente “Il mitico come tesi”, “La reden- zione come antitesi” e “La speranza come sintesi”. Benjamin adotta una scansione triadica apparentemente dialettica, ma la lettura del testo costringe a relativizzare questa impres- sione: non vi è alcun “superamento” (Aufhebung) necessario del mito, Benjamin non delinea una filosofia della storia in- centrata su una processualità che permetterebbe alla ragione illuministica di lasciarsi alle spalle il mito come uno stadio arcaico della coscienza e soprattutto la “sintesi” finale di fatto non c’è. Ma allora come va intesa questa tripartizione, una volta scartata l’interpretazione più banale e ovvia? Per rispondere a questa domanda è necessario anzitutto chiari- re, almeno per sommi capi, che cosa intenda Benjamin per “mito” o “il mitico”. 1 W. Benjamin, Le Affinità elettive di Goethe, in Id., Opere complete, I. Scritti 1906-1922, a c. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 523-589. Cfr. la versione originale in Id., Gesammelte Schriften, vol. I, a c. di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt am Main, pp. 123-201. D’ora in poi adotterò la sigla OC per le Opere complete (edite da Einaudi tra il 2000 e il 2014), e la sigla GS per le Gesammelte Schriften, edite da Suhrkamp tra il 1974 e il 1989 (seguite da numero del volume e numero di pagina). 222 IL MITO PROFANATO Ebbene, l’aspetto che forse maggiormente ci colpisce nella concezione benjaminiana del mito – e sul quale vale la pena di soffermarsi preliminarmente – è la sua clamorosa inattualità: Benjamin propone una visione del mito molto lontana da quella oggi dominante. Del mito abbiamo infat- ti una visione fortemente edulcorata, che tende a ridurlo a una narrazione tutto sommato ornamentale, quasi a mero intrattenimento letterario. La nostra concezione estetizzante del mito tende a metterne in secondo piano le implicazioni etico-politiche. Il mito è un mito, si potrebbe dire prendendo spunto da Jean-Luc Nancy, nel senso che il “mito” di cui si parla nel linguaggio comune non è altro che una proiezione immaginaria, un mito immaginarizzato, e cioè appiattito uni- lateralmente sulla dimensione immaginaria, mutilato del suo spessore simbolico, per adottare il gergo lacaniano. Si po- trebbe rincarare la dose suggerendo che l’attuale moda dello storytelling ha contribuito non solo a banalizzare il mito, ma anche a diffondere una sorta di mito del mito2. Dal marke- ting alle campagne elettorali, dalle serie tv ai romanzi fantasy, si assiste oggi a una mitizzazione del mito che fa di quest’ul- timo l’oggetto di un desiderio spesso declinato nostalgica- mente. Pare insomma che nell’epoca della liquidazione delle identità (o delle identità liquide, come ha suggerito qualcu- no) solo la riscoperta del mito – o la fabbricazione incessante di miti prêt-à-porter – possa offrire dei punti di riferimento e dare un equilibrio a soggetti sempre più precari. A fronte dell’evaporazione del simbolico i processi di soggettivazione sono appesi a idoli, icone e narrazioni che fluttuano nell’im- maginario. Di riflesso, il mito non sarebbe che repertorio di immagini idealizzate a cui attingere arbitrariamente, secondo il gusto o il capriccio del momento. In questo senso, per fare un esempio, David Bowie è uno dei miti del nostro tempo, forse uno dei più rappresentativi. Quale enorme influenza possa avere sulla vita di un adolescente un’icona di questo tipo è stato mostrato recentemente da Simon Critchley nel 2 Cfr. Salmon 2007. WALTER BENJAMIN E L’INTERRUzIONE DEL MITO 223 suo On Bowie (2016). Tra le altre cose Critchley osserva come Bowie sia stato “l’essere che ha permesso una potente connessione emotiva” a innumerevoli individui, consenten- do loro di “diventare un altro tipo di sé” (Critchley 2016, 17). Come se nella figura idolatrata di Bowie convergessero almeno tre delle quattro funzioni assegnate al mito da Joseph Campbell: quella pedagogica (Bowie mi educa a diventare altro da me), quella sociologica (Bowie rende possibile una “potente connessione emotiva” tra i suoi fan) e quella mistica (grazie a Bowie è possibile accedere a una realtà ulteriore, capace di trascendere la routine quotidiana). Ora, Benjamin ha il merito di avere chiaramente diagno- sticato questa deriva del mito nel saggio sulla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, in particolare con la distinzione tra “valore di culto” e “valore di esposizione”. Ma l’inattualità della sua prospettiva consiste essenzialmente nell’avere po- sto al centro delle sue considerazioni la funzione simbolica del mito. Come ha scritto Malinowski, il mito “as it exists in a savage community, that is, in its living primitive form, is not merely a story told but a reality lived” (Malinowski 1948, 78)3. Si tratta dunque di situare il mito non sul piano della narrazione, bensì su quello della “realtà vissuta”, quindi del- la vita. Da questo punto di vista, la posta in gioco del mito restituito al suo significato è la vita stessa. Se prendiamo in esame i saggi scritti da Benjamin tra il 1919 e il 1922, notiamo subito come il concetto di mito – si badi, mai univocamente definito – sia connotato in maniera inequivocabilmente, persino ossessivamente negativa. Quel- lo mitico è un mondo in cui il vivente è inchiodato alla colpa (Schuld), è in balìa di potenze demoniche, è condannato a un 3 Aggiunge poi Malinowski che il mito – “né mera narrazione, né una for- ma di scienza, né una branca dell’arte o della storia, né racconto esplicativo” – svolge “una funzione sui generis, strettamente connessa con la natura della tradizione e la continuità della cultura, con la relazione tra le generazioni e con l’atteggiamento umano nei confronti del passato. La funzione del mito, in breve, è di rafforzare la tradizione e di conferirle maggiore valore e prestigio riconducendola a una realtà superiore, migliore, più soprannaturale di eventi iniziali” (122; trad. mia). 224 IL MITO PROFANATO destino (Schicksal) di angoscia e infelicità, è soggetto a una violenza che trova la sua massima espressione nel sacrificio (Opfer) ed è preso dentro un’ambiguità (Zweideutigkeit) ap- parentemente indecidibile. Colpa, destino, violenza sacrifi- cale, angoscia, ambiguità sono le caratteristiche salienti di un mondo in cui il vivente è in balìa di una natura la cui unica legge è l’eterno ritorno dell’uguale. Troviamo una ricapito- lazione efficace di questa fosca concezione del mito in una frase che ricorre tanto nel saggio sulle Affinità elettive quan- to nel coevo scritto su Destino e carattere (1919): “Destino è il nesso colpevole [Schuldzusammenhang] di ciò che vive”4. Si può notare qui un’affinità tra la visione benjaminiana e quella lucreziana del mito. Verso la fine del terzo libro del De rerum natura, Lucrezio propone un’interpretazione allegorica dei miti dell’aldilà, secondo la quale “i tormenti, che si dice vi siano / nel profondo Acheronte, sono in realtà tutti nella nostra vita” (III, 978-79)5. Le figure di Tantalo, Tizio, Sisifo e delle Danaidi sarebbero cioè perfette allegorie della vita assoggettata a un destino che è espiazione intermi- nabile della colpa: “Ma Tizio è in noi […], un angoscioso tormento lo divora […]. Anche Sisifo è qui nella vita davanti ai nostri occhi” (992-95). Conclude icasticamente Lucrezio: “Qui sulla terra s’avvera per gli stolti la vita dell’Inferno” (1023). È come se il vero significato del mito – il suo spessore etico-politico, oggi ampiamente rimosso in favore di un’e- stetizzazione senza precedenti – emergesse nitidamente nei personaggi citati, condannati in eterno a ripetere vanamente gli stessi gesti, impossibilitati a compiere o concludere alcun- ché. Come si legge in un’annotazione tratta dal faldone D del Passagenwerk che sembra sia stata scritta come nota a margine al De rerum natura: “l’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione [Wiederkehr], in cui s’inscrive come figura la- 4 Per il saggio sulle Affinità elettive cfr. OC I, 534 (GS I, 138), per Destino e carattere cfr. OC I, 455 (GS II, 175), dove la traduzione, benché sempre di Renato Solmi, è diversa: “Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive”. 5 Mi avvalgo qui della bella traduzione di Luca Canali (Lucrezio 1990). WALTER BENJAMIN E L’INTERRUzIONE DEL MITO 225 tente quell’inutilità che marchia la fronte di alcuni eroi degli inferi (Tantalo, Sisifo e le Danaidi)”6. Vi è dunque una specifica temporalità mitica: quella di una ciclicità interminabile e senza fine. Si tratta di un tempo che non trova compimento, che non riesce mai a finire. Forse troviamo qui una delle ragioni per cui Benjamin pone il mito sotto il segno di una costitutiva “ambiguità”: dove non c’è compimento, non ci può essere limite. E dove non c’è limite, non c’è né definizione né distinzione possibile (tra vero e fal- so, tra bene e male). Si fluttua nell’indecisione, ci si lascia vi- vere senza criterio. Come fa Ottilie nelle Affinità elettive. Ma l’ambiguità di cui parla Benjamin è oggi ovunque, basti pen- sare all’uso di parole come “libertà”, “popolo”, “terrorismo” (e l’elenco potrebbe continuare a lungo), a cui si assegnano i significati più diversi a seconda del tornaconto del momento. Quest’ultima considerazione ci permette di porre in risal- to un’ulteriore affinità tra Benjamin e Lucrezio: il mito non riguarda narrazioni fantastiche, bensì la nostra vita qui ed ora. In uno degli aforismi raccolti in Parco centrale (1938-39) si legge: “Il pensiero di Strindberg: l’inferno non è qualco- sa che ci attenda – ma la nostra vita qui” (OC VII, 202; GS I, 683). Più di vent’anni prima che Horkheimer e Adorno sottoponessero a una critica rigorosa la dialettica dell’illumi- nismo, Benjamin propone dunque un’originale filosofia della storia, secondo cui la dimensione mitica non sarebbe affatto retaggio del passato, gloriosamente superato dalle “magnifi- che sorti e progressive” dei Lumi, ma piuttosto l’ombra che accompagna e in certo modo ossessiona la modernità. Già negli scritti dei primi anni Venti si trova in Benjamin una sor- ta di hauntology della modernità (dall’inglese to haunt): un lavoro analitico sul ritorno del rimosso, sull’elemento mitico che perseguita, tormenta, ossessiona e infesta la modernità7. Il mito immaginarizzato come icona è sempre al tempo stes- so (ambiguamente) spettro inquietante, fantasma che seduce 6 Annotazione D, 10a, 4 (OC IX, 129; GS V, 178). 7 Per il neologismo “hauntology” cfr. Derrida 1993. 226 IL MITO PROFANATO e cattura il desiderio del soggetto, o – per usare un termine caro a Benjamin – demone che ci trascina nell’indifferenzia- to di una comunione primordiale che, come argomenterà Nancy, è costitutivamente totalitaria8. Come Benjamin mostra nel saggio Per la critica della vio- lenza, il mito ha una funzione politica decisiva in quanto pone il diritto, è “rechtsetzend”: all’origine dell’ordine giuridico si trova un potere costituente che è violento. In altre parole, il mito è sanzione del diritto del più forte. Perciò ovunque viga il privilegio del più forte, abbiamo a che fare con il perma- nere di potenze mitiche. Benjamin lo ribadisce chiaramente anche in varie annotazioni del libro sui passages, ad esem- pio quando scrive: “Il capitalismo fu un fenomeno naturale col quale un nuovo sonno affollato di sogni [Traumschlaf] avvolse l’Europa, dando vita a una riattivazione delle forze mitiche [Reaktivierung der mythischen Kräfte]”9. In questo nesso genealogico tra mito e diritto troviamo il filo d’Arianna grazie al quale orientarci tra gli enunciati di Benjamin sul tema del mito: “la manifestazione mitica della violenza im- mediata si rivela profondamente identica a ogni potere giuri- dico [Rechtsgewalt]” (OC I, 484; GS II, 199). Con una mossa spiazzante Benjamin ci invita a ripensare da cima a fondo il diritto: attraverso una critica distruttiva tanto del giusnatu- ralismo quanto del positivismo giuridico, egli mostra come la funzione storica del diritto (Recht) nulla abbia a che fare con la sfera della giustizia (Gerechtigkeit), ma consista nella conservazione del privilegio (Vorrecht), come la tradizione del pensiero anarchico da Stirner a Sorel non si era stancata di ribadire. Non a caso Benjamin cita proprio il Sorel delle Riflessioni sulla violenza: E sembra che Sorel sfiori una verità non solo storico-cultu- rale, ma metafisica, quando avanza l’ipotesi che, agli inizi, ogni diritto sia stato privilegio [“Vor”recht] dei re o dei grandi, in 8 Cfr. Nancy 1999, 142 e passim. 9 Annotazione K 1a, 8 (OC IX, 436; GS V, 494).

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