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Il Marxismo e Hegel PDF

442 Pages·1969·2.436 MB·Italian
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Lucio Colletti Il marxismo e Hegel Editori Laterza Bari 1969 AVVERTENZA La prima parte di questo libro è la ristampa, con lievi correzioni formali e l'aggiunta di qualche nota, di un saggio sul marxismo e Hegel, che apparve, nel 1958, come introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, presso l'editore G. G. Feltrinelli di Milano. La seconda parte, che è la più ampia, è stata invece scritta negli ultimi mesi. Il lettore è pregato di tener conto di questa circostanza: *ia per quel che riguarda il diverso clima culturale e ideologico che fa da sfondo alle due sezioni del libro; sia per gli aspetti in cui la seconda segna una differenza e ■— vogliamo augurarci — anche uno sviluppo rispetto alla prima. Il saggio del '58, a dire i' vero, avrebbe tratto gran giovamento, se fosse stato sfrondato in alcune parti (e, specialmente, nel suo capitolo VII, che, oggi, ci soddisfa assai poco). Ma, poiché esso è entrato, bene o male, nelle cronache filosofiche del marxismo del secondo dopoguerra, è sembrato che fosse più corretto mantenerlo nella sua forma originaria. La seconda parte (che è di gran lunga la più chiara e che, volendo, può essere letta anche indipendentemente dalla prima) è quella, ovviamente, a cui l'autore vorrebbe che fosse prestata l'attenzione maggiore. Il senso della ricerca culmina nei capitoli finali e, soprattutto, negli ultimi due: dedicati, rispettivamente, al concetto di " rapporti sociali di produzione " e all'idea della società " cristiano-borghese ". I. LA TEORIA HEGELIANA DELLA MEDIAZIONE Quasi in apertura della Critica della filosofia hegeliana del dì- ritto pubblico, Marx — dopo aver riportato il paragrafo 262 della Rechtsphilosophie di Hegel in cui si dice che è « l'idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la società civile, come sua finità, per essere, movendo dalla loro idealità, spirito reale, per sé infinito... » — fa seguire questo commento. « Famiglia e società civile — egli scrive — sono intese come sfere del concetto dello Stato, come le sfere della sua finità. È lo Stato che si scinde in esse, che le presuppone, e fa questo ' per scaturire dalla loro idealità come per sé infinito, reale spirito '. La cosiddetta ' idea reale ' (lo spirito come spirito infinito, reale) è rappresentata come se agisse secondo un principio determinato e per un'intenzione determinata. Essa si scinde in sfere finite e lo fa ' per ritornare in sé, per essere per sé ': lo fa precisamente in modo che ciò è proprio come è in realtà. È a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico, panteistico. La realtà non è espressa come se stessa ma come una realtà diversa. L'empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito, ma uno estraneo e per contro l'idea reale ha come sua esistenza non una realtà sviluppatasi da essa idea, bensì la volgare empiria. L'idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immaginaria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l'idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile e la famiglia, diventano dei momenti obiettivi, irreali, allegorici, dell'idea ». Nella realtà — continua Marx — « famiglia e società civile si fanno esse stesse Stato. Esse sono l'agente. Secondo Hegel esse sono, al contrario, agite dall'idea 3 reale: non è la loro propria vita che le unisce allo Stato, ma è al contrario la vita dell'idea che se le assegna da sé; e invero esse sono la finità di questa idea; esse debbono la loro esistenza ad uno spirito altro dal loro; esse sono determinazioni poste da un terzo, non sono affatto autodeterminazioni; perciò sono anche determinate, in quanto ' finità ', come la finità propria dell' ' idea reale '. Lo scopo della loro esistenza non è l'esistenza stessa, ma l'idea separa da sé questi presupposti ' per scaturire dalla loro idealità come per sé infinito, reale spirito ', cioè lo Stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua conditio sine qua non. Ma la condizione diviene il condizionato, il determinante il determinato, il producente il prodotto del suo prodotto; 1' ' idea reale ' si umilia nella finità della famiglia e della società civile soltanto per produrre e godere — dal superamento di essa finità — la sua infinità. La realtà empirica apparirà, dunque, tale quale è: essa è anche enunciata come razionale, ma non è razionale per sua propria razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto da cui si parte non è inteso come tale, ma come risultato mistico. Ciò ch'è reale diventa fenomeno, ma l'idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno. In questo paragrafo è depositato — conclude Marx — tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale » '. Prima di procedere oltre e di vedere in che misura questa critica colga i nodi essenziali della filosofia di Hegel e ne consenta quindi una ricostruzione organica, conviene riassumere brevemente i termini dell'argomentazione di Marx. Hegel dunque — è questa l'obiezione di fondo — capovolge il processo reale, nel senso che, mentre di fatto (e vedremo poi come Marx giunga a questa constatazione del " fatto ") famiglia e società civile sono la base reale dello Stato, il soggetto storico nel corso del cui sviluppo si produce lo Stato, per Hegel il rapporto si inverte. Il passaggio onde il finito (famiglia e società civile) si sviluppa a organizzazione politica, questa mediazione reale diventa " apparenza " o fenomeno di un altro passaggio, di una invisibile e " immaginaria " attività interna che le viene sottesa e che procede in senso opposto. Ciò che dovrebbe essere il risultato del 1 K. MARX, Opere filosofiche giovanili, trad. di G. Della Volpe, Roma 1950, pp. 16-8. Citato d'ora innanzi con l'abbreviazione: OFG, seguita dal numero della pagina. A processo ne diviene l'origine e mentre in effetti famiglia e società si compongono nello Stato, per Hegel è invece quest'ultimo, o meglio l'Idea, che si scompone in famiglia e società, che scinde cioè se stessa nelle " due sfere ideali del proprio concetto ". Così la mediazione reale, commenta Marx, si trasforma nell'apparenza, « nella manifestazione di una mediazione che l'idea intraprende seco stessa e che succede dietro il sipario ». Il finito — che è il soggetto, il sostrato materiale o reale — scambia le sue parti con l'infinito, con l'Idea; e mentre quest'ultima — da predicato o manifestazione o prodotto che era del soggetto — si pone come per sé stante {sich verselbstdndigt), cioè si personifica, si ipostatizza, si sostituisce al sostrato effettivo, quest'ultimo scade a sua volta a prodotto o momento dell'Idea, cioè a predicato del suo predicato. Il finito, " il fatto da cui si parte ", non solo diventa ideale, qualcosa che è " posto " dall'infinito e quindi il " risultato mistico " di un'attività " interna e immaginaria ", ma esiste solo come negazione che l'infinito fa di sé per riprodursi, cioè per scaturire dal superamento e godersi come tale. Lo scopo della sua esistenza non è di essere se stesso, ma di servire allo sviluppo dell'Idea. Il suo significato, il suo valore, sta esclusivamente nell'esprimere ciò che è oltre e al di là di sé, ossia nell'essere un momento irreale o allegorico (come dice Marx, anderes bedeutend) dell'Idea. Mostreremo più tardi come il risultato di questo misticismo logico sia non solo che " il reale diventa fenomeno " ma che l'Idea, per contro, " non ha a contenuto altro che questo fenomeno "; come, cioè, la mediazione " che succede dietro il sipario " abbia per risultato appunto di restituirci ciò che è... " proprio come è in realtà " e, dunque, come il reale, se per un verso " riceve il significato di una determinazione dell'idea ", per un altro sia " lasciato tale qual è "; come, insomma, qui tutto si riduca a spacciare 1' " empiria volgare " come " gesta dell'idea ". Per ora ci preme venire subito a Hegel. I Scienza della logica, I, pp. 169-70. « La proposizione che il finito è ideale — dice Hegel — costituisce l'idealismo. L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l'idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto co- 5 testo principio vi si trovi effettivamente realizzato. La filosofia è idealismo com'è idealismo la religione. Perché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d'increato, di eterno. L'opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisse all'esistenza finita, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia. »2 Quando diciamo dunque delle cose, continua Hegel, « che son finite, con ciò s'intende [...] che la loro natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come in generale il qualcosa, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte » (I, 135-6). Questo pensiero della finità delle cose " porta con sé la mestizia ", ma — aggiunge Hegel — solo quando la finità è intesa come la negazione " fissata in sé " che " si erge rigida di contro al suo affermativo ", come accade, appunto, nel mondo antico. Qui il finito, infatti, si lascia bensì portare nella corrente, è destinato sì alla sua fine, ma questa destinazione delle cose finite è concepita poi come se non fosse " nulla più che la lor fine ": ci si rifiuta, cioè, di lasciarle portare all'affermativo, all'infinito, di lasciarle unire con quello. E, come "l'intelletto persiste in questa mestizia della finità " e fa del non essere la destinazione delle cose, esso non si avvede di prendere il finito insieme " come imperituro e assoluto ". La caducità delle cose, non potendo perire, diviene « la loro qualità immutabile, non trapassante cioè nel suo altro, non trapassante nel suo affermativo »; e la finità, non finendo mai di finire, "così è eterna ". La mors immortalis di Lucrezio! Di qui il senso della conchiu- 2 G. W. F. HEGEL, La scienza della logica, 3 voli., trad. di A. Moni, Bari 1925. Citazioni da questa opera saranno d'ora in poi indicate nel corpo del testo con la cifra romana del volume seguita dal numero della pagina. Per l'Enciclopedia, sempre dalla traduzione di B. Croce, Bari 1951, salvo che per le Aggiunte, daremo tra parentesi il numero del paragrafo anche quando il luogo citato sia nelì'Anmerkung. Per la Fenomenologia dello spirito, 2 voli., trad. di E. De Negri, Firenze 1933, all'abbreviazione Yen, faremo seguire egualmente nel corpo del testo volume e pagina. Salvo avvertenza contraria, i corsivi sono sempre dell'autore citato. 6 sione (che è poi anche senso della forma o eidos) e il pessimismo, la disperazione antica. Non basta quindi dire che il finito è il perituro. « Tutto sta a vedere se in questo modo ci si ferma all'essere della finitezza, se la caducità, cioè, persiste, oppure se la caducità e il perire perisce. » Questo è da portare alla coscienza — l'infinito: il grande acquisto della logica cristiana. Cioè " che il perire, il nulla, non è l'ultimo, ossia il definitivo, ma perisce " esso stesso. Svolgere questo pensiero, spiega Hegel, non significa ricadere nella " cattiva infinità " di Fichte, per il quale « si danno due mondi, un mondo infinito e un mondo finito, e nella relazione loro l'infinito non è che il termine del finito, epperò solo un infinito determinato, un infinito il quale è esso stesso finito » (I, 149). Non si tratta, insomma, di mettere l'infinito " al di sopra del finito, segregato da esso ".E tantomeno di ricorrere alla " screditata unità del finito con l'infinito " di Schelling che, prendendo i due termini insieme ma come distinti, e tenendoli « fermi in quella qualità che debbono avere in quanto presi separatamente », vede « in quell'unità soltanto la contraddizione, e non già anche la sua soluzione» (I, 155-6-7). Bensì si tratta — riba- disce Hegel — di tenersi al pensiero che l'essere delle cose, la loro natura, è costituita dal non essere, dalla negatività, di comprendere, cioè, che l'esistente, il determinato, il finito non ha realtà in sé, " non sussiste indipendentemente " (I, 163), ma è solo una " variopinta scorza " {die bunte Bande) che ha la sua consistenza e il suo " nocciolo " (Kern) nell'infinito, cioè proprio in quell'inesteso o non ente {Unding) che è il pensiero. « La verità dell'esistenza sta quindi nell'avere il suo essere in sé nel-l'inessenzialità, ossia il suo sussistere in un altro e precisamente nell'assoluto altro, vale a dire nell'aver per base la sua nullità », (II, 143). Proprio questa alterità è la sua essenza. Se, pertanto, il finito si rivela " dialettico ", tale cioè che " si distrugge in sé ", che è " la contraddizione di sé in sé " e, quindi, " si toglie via, perisce " (I, 145), ciò non accade, dice Hegel, ad opera di una " potenza estranea ", ma perché il finito ha come base il nulla e il suo essere in sé è immediatamente un passare in altro. Il finito insomma è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. « L'infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch'esso è veramente in sé » (I, 147) \ 3 Alcune brevi considerazioni supplementari possono rendere più agevole la comprensione del ragionamento di Hegel, che abbiamo tentato di 7 Due opposte esigenze si muovono al fondo di questa argo- mentazione di Hegel e, come vedremo in seguito, di tutta la interpretare e ricostruire in queste prime pagine, dall'andamento, a dire il vero, abbastanza faticoso. Il problema trattato è quello della " mediazione ": mediato è ciò a cui si perviene movendo da altro; immediato, ciò da cui si incomincia a procedere. Come Hegel spiega con grande chiarezza nel § 12 dell'Enciclopedia, nessuno di questi due momenti può mancare. Le coppie di termini, che si incontrano nel corso dell'analisi, possono considerarsi tra loro equivalenti: il rapporto finito-infinito è il rapporto essere- pensiero, empiria-concetto, esistenza-essenza; il rapporto essere-pensiero è il rapporto stesso tra mondo e Dio. Le due difficoltà, che Hegel si propone di evitare, sono: da una parte, che il concetto sia un immediato, qualcosa da cui si proceda senza esservi prima arrivati; dall'altra, che il concetto (cioè il Logos o l'infinito) sia solo un mediato. Nel primo caso, il sapere sarebbe " un che di indimostrabile ", cioè una semplice fede soggettiva. Nel secondo, il pensiero (che, per Hegel, è il Logos, l'infinito, Dio) risul- terebbe condizionato, e quindi causato e dipendente, dal mondo, cioè da quel finito donde si sarebbero prese le mosse per salire a lui. Questo secondo caso, che Hegel analizza criticando le cosiddette prove metafisiche dell'esistenza di Dio, riguarda soprattutto la metafisica prekantiana. Come ogni " vera " filosofia, anche questa metafisica è idealismo. Essa nega che il finito sia un vero essere; l'unica realtà, che riconosce, è l'infinito, Dio. Se-nonché, pur negando al finito vera realtà, essa ne fa un fondamento, almeno per quanto riguarda la conoscenza dell'infinito. L'esistenza di Dio viene allora ricavata e inferita da quella del mondo, come nella prova cosmologica (perché c'è un mondo, c'è Dio); senza vedere che, così facendo, Dio, che dovrebb'essere la vera realtà, diventa un che di causato e dipendente, mentre il mondo o il finito, che era stato dichiarato semplice non-essere e caducità, diventa una " ferma realtà " che sta a fondamento. La conseguenza di questa impostazione, contro cui Hegel fa valere la critica di Jacobi alle dimostrazioni dell'esistenza di Dio, è che, sebbene la vecchia metafisica abbia per contenuto il vero e l'assoluto, cioè l'infinito o Dio, essa tradisce questo contenuto nel momento stesso in cui gli dà un'espressione finita e, per ciò stesso, inadeguata. Il contenuto di quella filosofia è l'infinito; la forma, invece, in cui essa lo esprime e lo dimostra, è quella propria del " conoscere finito », cioè dell'« intelletto » anziché della " ragione ". La prova è nel dualismo cui mette capo quella metafisica. Essa colloca da una parte il finito, dall'altra l'infinito. Da una parte Dio, dall'altra il mondo. Non vede, dice Hegel, « che per tal modo l'infinito è solo uno dei due; che con ciò vien reso un qualcosa di soltanto particolare, rispetto al quale il finito è l'altro particolare. Un tale infinito, che è soltanto un particolare, è accanto al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che deve essere; non è l'infinito, ma è solamente finito. — In tal relazione, dove il finito è da un lato, l'infinito dall'altro, il primo di qua, l'altro di là, al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che si attribuisce all'infinito: l'esser del finito è fatto un essere assoluto: esso, in codesto dualismo, sta saldo per sé. Se, per così dire, fosse toccato dall'infinito, sarebbe annientato; ma non può esser toccato dall'infinito: un abisso, un baratro invalicabile deve aprirsi fra i due; l'infinito persiste di là, il finito di qua » (Ette, § 95). I temi, su cui qui Hegel insiste, sono essenzialmente due. Il primo è che questa filosofia fa, suo malgrado, dell'infinito un finito. Essa concepisce Dio come un essere a sé, segregato dal mondo. Pone, da un lato, il soggetto umano che conosce Dio e, dall'altro, Dio come 8 sua filosofia. Da un lato, la preoccupazione che l'unità del finito con l'infinito non appaia come " una loro composizione estrin- un'entità separata dall'uomo: senza avvedersi che Dio, che è la somma spiritualità e immaterialità, viene così ridotto a un che di oggettivo e finito, contrapposto alla coscienza dell'uomo, quasi fosse una cosa (donde il motivo, tipicamente hegeliano, della trasformazione della Sostanza in Soggetto). Il secondo tema, che Hegel svolge sempre congiuntamente al primo, è non meno rivelatore dello spirito e dell'orientamento della sua filosofia. La separazione dualistica, in cui incorre la vecchia metafisica, pone il finito " di qua " e l'infinito " al di là " del mondo. L'infinito appare, così, come un che di soltanto ideale, come un semplice " dover essere " privo di esistenza reale e confinato in una lontananza irraggiungibile. L'infinito, che doveva essere il positivo, diventa il negativo, cioè l'irreale; il finito, al contrario, che era dichiarato il negativo, cioè non un vero essere, diventa il positivo e reale. È da rilevare che questa critica di Hegel alla vecchia metafisica è stata illustrata e ricostruita da Feuerbach nei §§ 7-10 dei Princìpi della filosofia dell'avvenire, citati più avanti. Feuerbach vi discute la differenza tra la " teologia comune ", o teismo, e la teologia razionale o " filosofia speculativa ". « Ciò che nel teismo è oggetto — egli dice —, nella filosofia speculativa è soggetto; ciò che là è l'essere razionale soltanto pensato e rappresentato, qui è l'essere razionale stesso in quanto pensa. Il teista si rappresenta Dio come un essere personale che esiste in generale al di fuori della ragione e al di fuori dell'uomo: egli, in quanto soggetto, pensa Dio come oggetto. Egli pensa Dio come un essere spirituale e non sensibile secondo l'essenza, vale a dire secondo la rappresentazione che egli se ne fa,, ma sensibile secondo l'esistenza, vale a dire secondo verità: infatti, la caratteristica essenziale di un'esistenza oggettiva, di un'esistenza posta al di fuori del pensiero e della rappresentazione, è il senso. Egli distingue Dio da sé nello stesso modo in cui distingue da sé le cose e gli esseri sensibili che esistono fuori di lui: in breve, egli pensa Dio dal punto di vista del senso. Il teologo o filosofo speculativo invece pensa Dio dal punto di vista del pensiero; egli perciò non interpone tra sé e Dio la rappresentazione perturbatrice di un essere sensibile; egli identifica senza alcuna difficoltà l'essere oggettivo pensato con l'essere soggettivo pensante. » E poco oltre Feuerbach aggiunge: « l'inizio della filosofia cartesiana, che rappresenta l'astrazione dal senso e dalla materia, è l'inizio della filosofia speculativa moderna. Ma Cartesio e Leibniz considerarono questa astrazione soltanto come una condizione soggettiva per conoscere l'essere immateriale di Dio, si rappresentarono l'immaterialità di Dio come un attributo oggettivo, indipendente dall'astrazione e dal pensiero; essi insomma rimasero ancora fermi al punto di vista del teismo, fecero dell'essere immateriale soltanto un oggetto, ma non un soggetto né un principio attivo ». Dinanzi a questa impostazione della vecchia metafisica, la filosofia di Hegel si presenta come il tentativo di pensare coerentemente l'infinito o Logos cristiano; ovvero come il tentativo di pensare fino in fondo l'idealismo. Questa realizzazione coerente del cristianesimo è imperniata sulla tesi dell'idealità del finito. L'essenza del finito è nell'Idea, cioè nell'infinito. Ciò che, del finito, sembra essere esterno o indipendente dall'Idea, è la morta spoglia, — mèra " parvenza " illusoria e nullità. A questa trasposizione del finito nell'infinito, a questo idealizzarsi delle cose, corrisponde e s'accompagna il realizzarsi dell'Idea. Non avendo più un finito di contro a sé, che lo limiti e lo respinga nelP " al di là ", l'infinito passa dall'ai di là di qua. Il Logos divino entra nel mondo. La morta spoglia del finito, cioè il mondo stesso, diventa " vaso " dell'infinito, cioè sua incarnazione e manifestazione sensibile, o — se- 9 seca ", cioè come " un collegamento incongruo " per cui si uniscono dei « termini in sé separati ed opposti, indipendenti l'uno a fronte dell'altro, epperò incompatibili », ma anzi ciascuno risulti in se stesso come questa unità di sé e l'altro: « nel che a nessuno dei due — dice Hegel — spetta per avventura di fronte all'altro il privilegio dell'essere in sé e dell'esistenza affermativa » (I, 157-8). Discorso, questo, che, nel caso per es. della finità, avrebbe per effetto la tesi che l'infinito ha come soggetto o base il finito; onde si dovrebbe poi concludere che la contraddizione condo l'importante concetto stesso di Hegel — " esposizione positiva del- l'assoluto ". Questa duplice trasposizione del reale nell'ideale e dell'Idea nella realtà è stata còlta da Feuerbach con grande chiarezza. Le Tesi provvisorie per una riforma della filosofìa si aprono con l'affermazione che « la teologia speculativa [...] si distingue dalla teologia comune per il fatto che colloca nell'ai di qua, rendendolo presente e determinato e attuale, quell'essere divino che appunto la teologia comune ha per paura e per incomprensione relegato, lontano, nell'ai di là ». Nel § 24 dei Princìpi, è detto anche che « la filosofia assoluta è riuscita, sì, a fare dell'ai di là della teologia un al di qua, ma nello stesso tempo ha fatto dell'ai di qua del mondo reale un al di là ». Come ha visto bene L. Michelet (Entiwicklungs-geschichte der neuesten deutschen Philosophie, Berlin 1843, pp. 304 sgg.), questo ingresso del divino nel mondo esprime lo scopo essenziale della filosofia hegeliana: " la secolarizzazione del cristianesimo ". La lunga Anmerkung al § 552 dell'Enciclopedia, che svolge tra l'altro la differenza tra cattolicesimo e protestantismo, chiarisce il senso della tesi hegeliana (" che lo spirito divino deve compenetrare in modo immanente la vita mondana ") in relazione agli istituti della " società civile " borghese o società capitalistico-protestante: la famiglia, l'attività professionale, I' " ubbidienza verso la legge e le istituzioni legali dello Stato ". Tutti questi istituti, che sono le " formazioni dell'eticità ", vi appaiono come incarnazioni dell'Assoluto, come " insidenza " del divino nel mondo. Nello stesso paragrafo, Hegel rileva che « la sostanzialità dell'eticità stessa e dello Stato è la religione »; e che « lo Stato riposa, secondo questo rapporto, sulla disposizione d'animo etica; e questa, sulla religiosa ». È da osservare che proprio quest'attualità del divino nel mondo — o " esposizione positiva dell'assoluto " — è ciò che Hegel chiama realtà: Wirklichkeit. La Realitàt è, invece, il termine con cui egli designa, in genere, la realtà " apparente ": il finito, l'empiria, cioè la realtà propriamente detta. Tornando al problema della mediazione, va rilevato che la " soluzione " di Hegel è essenzialmente imperniata su due momenti. Contro Jacobi e il " sapere immediato ", egli riconosce la necessità della mediazione, la necessità cioè che il concetto sia un risultato, qualcosa a cui si perviene movendo da altro. D'altra parte, per evitare che la mediazione sia " presentata come una condizionalità " (Erte, § 12) e che il concetto, quindi, risulti dipendere dall'empiria, egli afferma che il finito, da cui il concetto dovrebbe risultare, non è un vero essere, ma un che di " posto " o creato dal concetto stesso. Il finito, da cui si incomincia, non è una realtà originaria che esista per sé: esso ha origine da ciò che pare dipendere da lui. Il primo è l'Ultimo e l'ultimo il Primo. E, poiché il concetto è in effetti l'origine di ciò da cui esso sembra derivare, la mediazione, che Hegel afferma, è, insieme, la " mediazione che toglie se stessa". (Nota aggiunta.) 10

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