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Il male americano PDF

187 Pages·1978·4.161 MB·Italian
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Giorgio Locchi Alain de Benoist Titolo originale: Il était une fois l’Amériqw © Copyright 1976 by Nouvelle Ecole - Botte Postale 129-07 75326 Paris Cedex 07 © Copyright 1978 by L.ED.E. - Libreria Editrice Europa s.r.l. Copertina: Idea Nama INTRODUZIONE Quando questo saggio a quattro mani venne per la prima volta pubblicato dalla rivista francese «Nouvelle Ecole» le lu­ minarie celebrative del secondo centenario dell’indipendenza de­ gli Stati Uniti non si erano ancora accese, l’ex coltivatore di noccioline Jimmy Carter non era stato ancora riciclato dagli esperti di marketing e dai truccatori di Hollywood in vista della sua molto resistibile ascesa alla Casa Bianca e - superato il trauma passeggero della cessata convertibilità aurea - la mo­ neta americana continuava ad assolvere senza affanno eccessi­ vo il suo ruolo di valuta leader dei paesi ad economia di mer­ cato. Oggi, ad ormai tre anni di distanza da quella congiuntu­ ra così vicina e al tempo stesso così distante, non molto sembra essere cambiato nel destino e nella vita culturale e politica del «solo popolo passato dall’infanzia alla vecchiaia senza passare attraverso la maturità» (cito a memoria dall’inesauri­ bile riserva di detti memorabili di uno dei sudditi di Sua Mae­ stà britannica che non meritano il preventivo disprezzo dei coautori di questo volume). Le femministe del movimento di li­ berazione della donna manifestano ancora la loro insofferenza verso l’egemonia del maschio ed i cicli della luna. I consueti tor­ pedoni con l’aria condizionata, intanto, vomitano puntual­ mente sulle scalinate del Sacri Coeur o di Trinità dei Monti 10 Il male americano turbe di vedove non rassegnate con la pelle flaccida ed il porta­ fogli gonfio del -denaro di un caro estinto fermato da un infarto prematuro nella corsa verso una fallace autoaffermazione eco­ nomica. I grandi complessi industriali continuano ad inondare il più grande mercato del mondo dei consueti quantitativi di prodotti inutili e/o dannosi, su cui qualche aspirante commen­ datore edificherà le proprie fortune importandoli nella vecchia Europa con una ventina di anni di ritardo. La componente bianca del melting pot razziale, nel frattempo, persevera nel farsi un vanto del proprio ibridismo etnico, in attesa che un Haley dalla pigmentazione più chiara si decida ad iniziare an- ch’essa al senso delle radici e alla costosa moda della genealogia. Se non è dunque cambiata molto VAmerica, nel giro di tre anni, bisogna riconoscere in compenso che quel poco o quel tan­ to che è mutato in essa, non ha rinunziato a convertirsi in peg­ gio. Quanto di più significativo gli Stati Uniti hanno saputo offrire all’Europa ed al resto del mondo in questi ultimi trenta- sei mesi - dall’insediamento alla Casa Bianca di una persona che sembra compendiare i tratti del più disarmante (ma non di­ sarmato) americanismo, all’inglorioso declino sui mercati valu­ tari del dollaro - sembra fornire una conferma sgradita a quel­ l’interpretazione radicalmente pessimistica di due secoli di sto­ ria americana offerta da questo saggio di Giorgio Locchi e di Alain de Benoist. Se queste pagine conservano un sapore di indiscutibile attua­ lità, questo è a mio giudizio riconducibile al fatto che, pur ab­ bondando di citazioni da periodici ad alta diffusione e di riferi­ menti giornalistici, esse sono state misurate e pensate con lo spessore della storia. Incastonato, al suo primo apparire, fra fue ricorrenze di cronaca nazionale ed estera - il decennale dell’e­ spulsione delle truppe americane dal territorio francese, ad ope­ ra di De Gaulle, ed il bicentenario degli Stati Uniti - questo saggio non tradiva, e non tradisce, nessun sintomo della fretto- Introduzione 11 Iosa superficialità che contraddistingue la prosa di numerosi scritti d’occasione. I suoi autori, con esso, non hanno voluto in­ fatti pronunciare una (o pik) commemorazioni, ma suscitare una reazione. Non hanno inteso richiamare un anniversario alla più o meno distratta memoria dei lettori, ma stilare un atto d’accusa. Non hanno voluto saldare i conti col passato, ma ac­ cendere un’ipoteca sulfuturo. Non hanno voluto ricordare una data, ma denunziare un pericolo. Questo pericolo - secondo de Benoist e Locchi -H I male americano: una malattia sottile, indolore, e per questo più difficilmente accertabile, di cui gli Sta­ ti Uniti, secondo la precisa denunzia di questo saggio, almeno dall’inizio di questo secolo stanno contagiando l’Europa ed il resto del mondo. Qualcuno potrebbe obiettare che la diagnosi formulata da Locchi e de Benoist non presenta requisiti di originalità eccessi­ va. Sin dalla fine dell’Ottocento, in effetti, alcuni fra gli spiriti più sensibili e reattivi di questa vecchia Europa non hanno esi­ tato a denunziare quel tanto di decadente e di profondamente morboso che a loro giudizio si nascondeva dietro le illusorie ap­ parenze dell’inesaurìbile «giovinezza» del Nuovo Mondo. Non ho nessuna difficoltà, in questo senso, a riconoscere che gli auto­ ri di questo saggio non sono stati iprimi a «scoprire», nel bene come nel male, l’America. Penso all’Ortega y Gasset della Ri­ volta delle masse e ad Oswald Spengler, a Hilaire Belloc (auto­ re dell’aforisma ricordato in precedenza) e a Werner Sombart, per non aggiungere che qualche titolo e qualche nome alla già lunga catena di citazioni e di riferimenti intrecciata nelle pagi­ ne che seguono da Alain de Benoist e da Giorgio Locchi. Penso a Drieu la Rochelle, quando faceva dire al suo Gilles che in America non sarebbe stato capace di pensare, e al Malaparte iconoclasta e cinico di Mamma marcia, e alla sghignazzata plebea dei suoi Maledetti toscani. Penso al romanziere Henry de Montherland e allo psicologo Jung che si domandava, di 12 Il mah americano fronte alle molteplici manifestazioni di un’« America negriz- zata », se gli abitanti degli Stati Uniti potessero venire ancora considerati europei, o non si dovesse cominciare a scorgere in es­ si il prodotto di uno strano meticciato della psiche e dello spiri­ to. Penso a Vilfredo Pareto ed alle sue ironie sui « buoni ipo­ criti d’oltre Mare » che per far « sparire la prostituzione (...) danno il nome di matrimonio ad ogni accoppiamento» e sulle loro donne che « per farsi pagare al più caro prezzo pos­ sibile l’uso temporaneo della loro bellezza», «empiono di loro querele i tribunali », ed a Gabriele D’Annunzio che già nell’immediato dopoguerra rimproverava ad un «Occidente degenere » di essere « divenuto una immensa banca giudea in servizio della plutocrazia transatlantica». Ma penso so­ prattutto alle centinaia di migliaia, ai milioni di persone comu­ ni, di volti senza nome e di nomi senza volto - letterati orgo­ gliosi della propria lingua ed artigiani gelosi del loro lavoro, aristocratici superbi delle loro origini e contadini attaccati al­ l’aristocratica semplicità della loro esistenza - che nella vita di tutti i giorni, istintivamente, spesso senza nemmeno tentare di formulare una spiegazione in termini logici, avvertirono una ripugnanza congenita verso lo «straordinario cattivo gusto americano», spietatamente vivisezionato in queste pagine, e concepirono una differenza di natura talora irrazionale verso le forme massificate di vita e di organizzazione sociale spesso con eccessiva leggerezza importate d’oltre Oceano. Ma forse proprio in questo risiede la caratteristica eseenziale del saggio di Giorgio Locchi e di Alain de Benoist: nett’aver dato vigorosamente voce a un sentimento inespresso quanto dif­ fuso (più diffuso di quanto non si creda, è probabile), ritorcendo con tecnica impeccabile gli strumenti e gli argomenti delle più moderne scienze sociali cóntro la cultura e la civiltà di quel po­ polo che sul mito di una spesso malintesa modernità ha edifica­ to tanta parte del proprio prestigio. E soprattutto, forse, nell’a­ Introduzione 13 ver saputo comporre in una sintesi unitaria osservazioni di co­ stume e rilievi sociologici, suggestioni letterarie e suggerimenti deU’esperienza quotidiana che, di solito, sulla bocca dell’uomo della strada come nella penna dei commentatori politici, non si discostano molto dal tracciato di una polemica superficiale quanto frammentaria. L’organicità ed il violento radicamento appaiono del resto sin dalle prime pagine come il pregio fondamentale di quest’ope­ ra. La sua polemica rievocazione di due secoli di storia ameri­ cana non vuol essere - e, fortunatamente, non è - una tratta­ zione cronologica, ma un’indagine per tempi sui singoli elemen­ ti strutturali della civiltà degli Stati Uniti, condotta con una metodologia che, per la varietà degli strumenti critici utilizzati e dei settori presi in esame, può venire in piena tranquillità de­ finita di taglio interdisciplinare. Sociologia, economia, antropo­ logia culturale, psicologia delle masse, psicanalisi, si avvicenda­ no rapidamente al capezzale di una società malata, in una rid­ da di analisi senza illusioni e di diagnosi senza speranza. In di­ sparte, quasi subordinata, la narrazione storica tradizional­ mente intesa: necessaria, naturalmente, ad ammortizzare gli sbalzi cronologici che un’indagine per temi infligge al lettore profano, ma, implicitamente, poco utile per lo studio di una na­ zione la cui evoluzione costante è stata ben di rado interrotta da traumi rivoluzionari e da nette cesure. Vi è tuttavia un mo­ mento in cui la storia fa la sua violenta irruzione in queste pa­ gine e vi irrompe, non a caso, per assumere i contorni del mito. Questo avviene quando, in apertura al loro saggio, Locchi e de Benoist prendono in esame il valore della colonizzazione ame­ ricana, da cui gli odierni Stati Uniti hanno tratto origine. Ri­ baltando con piglio nietzschiano la mitologia tradizionale della «stirpe eletta», della razza superselezionata di coloro che ave­ vano saputo voltare le spalle al loro passato pur di sfuggire ad un «destino di schiavi», g/z autori di queste pagine infatti in­ 14 Il male americano terpretano tale fenomeno non come un processo espansionistico, come una proiezione sulla sponda opposta dell’Oceano della ci­ viltà europea e dei suoi valori, ma, al contrario, come il risulta­ to di un netto rifiuto della cultura e della tradizione dett’Euro- pa ad opera di un pugno di diseredati deracinés, animati da un bilioso spirito di rivalsa nei confronti della loro madre pa­ tria. Questa versione delle origini dei moderni Stati Uniti è di una capitale importanza per chi intenda comprendere l’imma­ gine che della civiltà americana ci viene offerta da Locchi e de Benoist. Il mito ambivalente del «rifiuto dell’Europa» è il po­ stulato elementare da cui discendono, come più o meno impliciti corollari, quasi tutti gli altri giudizi negativi espressi in questo saggio sulla civiltà d’oltre Oceano. Biblismo sociale (ossia illu­ soria pretesa di tradurre nella vita collettiva i precetti evangeli­ ci riducendo la stessa sfera politica ad un ramo della morale) ed ipocrita moralismo puritano; rifiuto dell’autorità ed avversione (o, meglio, incomprensione) verso ogni forma di aristocrazia e di aristocratismo; idolatria del successo economico ed incapaci­ tà di produrre un’autonoma cultura sono altrettanti anelli di una catena, altrettante conseguenze di un unico vizio di fondo: il rifiuto della civiltà europea. Da questo vizio d’origine - sem­ pre secondo l’interpretazione di Locchi e de Benoist - è inquina­ ta l’intera storia dell’America; all’interno di questo universo non esistono possibilità di salvezza, a destra come a sinistra, al nord come al sud, a est come ad ovest, per gli epigoni di una ci­ viltà che, anche quando s’illude di negare se stessa, non riesce che ad elevare all’ennesima potenza i suoi difetti atavici. Tutto ciò aiuta a comprendere perché gli autori di questo saggio non manifestino in esso alcuna simpatia per tutti quei movimenti e quegli orientamenti politici e di costume che, nel corso della Mo­ ria americana, si sono via via presentati come possibili forme di opposizione alla crescente egemonia dello spirito Yankee. Né

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