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Il dottore PDF

86 Pages·1976·0.672 MB·Italian
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Giuseppe D‘Agata Il dottore Copyright © 1976 by Casa editrice Valentino Bompiani & C. S.p.A. Via Pisacane, 26 – Milano CL 04-1709-2 NOTE DI COPERTINA Pino lo chiamano così, il dottore, perché qualche anno alla facoltà di Medicina lo ha passato e ha fatto un po’ di pratica in ospedale. Ma Pino non ha messo radici, non ha finito niente di quello che ha cominciato, non ha una casa propria e vive in quella del fratello Alceste, di sua cognata Marisa, che lo accudisce come fosse un secondo marito. Pino non sa come ricambiare, non può ricambiare, perché è nello stesso tempo fuori e dentro il circuito degli affetti familiari: porta in casa un po’ di soldi, che guadagna smerciando foto pornografiche per le quali posa come modello. Questo finto “dottore” è il personaggio esemplare di un momento della storia d’Italia in cui tutto sembra sistemato, in cui sembra che le cose vadano nel senso giusto, quello indicato da Mussolini. Ci si prepara alla guerra, non c’è opposizione, solo un senso di spossatezza, di non partecipazione, di accidia politica. Pino decide di agire, a qualunque costo. Alla fine lo farà da isolato, da disperato, e finirà davanti al plotone di esecuzione. Il regime ha fatto schiacciare con facilità questa “pulce” politica, ma Pino ha lasciato il segno. La sua azione violenta, finita tragicamente, è come un fremito che annuncia la ribellione vera, profonda; un preludio improprio ma sensibile alla Resistenza. Giuseppe D’Agata ci dà con questo romanzo la sua prova più matura, un romanzo davvero popolare, nel senso che tocca con semplicità e chiarezza i temi fondamentali dell’esistenza, messi a fuoco nella ricerca di un’identità umana e politica, nel momento in cui l’Italia fascista una falsa identità se l’era data. Giuseppe D'Agata è nato a Bologna nel 1927 da genitori immigrati dal Sud. A diciassette anni ha aderito alla Resistenza: una scelta che influirà profondamente sul suo avvenire di scrittore. Al tema della Resistenza si collega infatti l'inizio del suo lavoro letterario: La cornetta d'argento del 1956 ("Premio della Resistenza" per un inedito nel 1965) e L'esercito di Scipione del 1960 ("Premio Viareggio-Armistizio" dello stesso anno) di cui ora è in preparazione lo sceneggiato televisivo. Il medico della mutua, collegato alla sua esperienza di medico, è del 1964 e con esso arriva il grande successo di pubblico, a proposito del quale D'Agata ebbe a dire: "Il narratore deve essere un po' diabolico: deve catturare il lettore con immagini seducenti, sulle quali si trovi poi costretto a pensare, a riflettere." Altre opere di D'Agata: Il circolo Otes (1966) e Primo il corpo (1971). Tra i successi televisivi va ricordato Il segno del comando scritto in collaborazione con Flaminio Bollini. Il dottore a Caterina “Non fidatevi: i fascisti sono più di quanti sembrano.” Antonio Paladini “Truppe francesi sono sbarcate in Norvegia per dare manforte al corpo di spedizione britannico che cerca di contrastare l’avanzata delle forze germaniche nelle zone di Narvik, Namsos e Andalsnes…” La voce chiara e sicura che leggeva il giornale radio ci toglieva il peso di dover trovare qualcosa da dire per riempire il silenzio che giaceva inerte sulla nostra cena. Chi voleva ascoltare ascoltava e chi aveva qualcosa cui pensare si serviva di quella voce per concentrarsi meglio. Alceste, mio fratello, ascoltava attentamente — sempre così, fosse il notiziario delle sette del mattino o quello delle tredici o quelli delle otto e delle undici di sera – tendendo l‘orecchio e spesso mettendosi a fissare il vuoto, come se ogni volta la voce della radio stesse annunciando l‘avvenimento politico del secolo. Mia cognata invece pareva assorta sul piatto, ma si capiva che seguiva il suono delle parole e si fissava su una di esse lasciandosi sfuggire le altre. Di solito io ascoltavo con poca attenzione quei resoconti ufficiali, di regime, e mi colpivano piuttosto le rapide considerazioni con le quali mio fratello amava sottolineare immediatamente le notizie. “Re Haakon VII ha lanciato un appello al popolo incitandolo a resistere a oltranza…” ―Eh già, dovrebbero crepare per la sua bella faccia,‖ commentò Alceste. ―Ma non è stato mica lui a volere la guerra. È la Germania che l‘ha attaccato.‖ Alceste mi fece segno di tacere e di ascoltare. “Sul fronte franco-tedesco, da segnalare soltanto attività di pattuglie. La Luftwaffe ha bombardato il nodo ferroviario di Lione…” ―La Francia e la Germania non hanno nessuna voglia di fare sul serio,‖ dissi. ―Hitler ha domato la Polonia, ha avuto Danzica, ed è soddisfatto.‖ ―Macché. La guerra vera deve ancora incominciare, dai retta a me.‖ Non potevo fare a meno di ammirare il sicuro, perfino presuntuoso, orientamento che mio fratello mostrava in mezzo all‘intrecciarsi degli avvenimenti politici che avevano luogo nel mondo intero. L‘ampio mare dei pensieri e delle azioni di geni e imbecilli, di caste e classi, di parlamenti e mercati, trovava sempre a galla la minuscola barca del discernimento di mio fratello. Pareva un amatore, un buongustaio della politica. Seduto a tavola, sapeva scegliere e sapeva aspettare. Era fiducioso, era certo che tutto si sarebbe sistemato secondo l‘idea che lui aveva del futuro, un futuro sempre prossimo e concreto. Io invece non sapevo aspettare, non capivo il presente, e del futuro avevo un‘idea vaga che coinvolgeva l‘umanità intera. Alceste era un operaio. Io invece, chi ero io? Un ex: ex laureando, ex impiegato, ex marito, ora forse un ex uomo, poiché ero arrivato oramai alla cinquantina. M‘ero accorto da poco di avere toccato i cinquant‘anni: da quando, un tre mesi prima, ero uscito dal sanatorio. E da quel momento – nel sanatorio c‘ero stato circa tre anni, ma potevano benissimo essere stati dieci, venti – m‘era scoppiata una febbrile, infantile voglia di fare, di vivere, di cambiare le cose intorno a me. Mio fratello, di una quindicina d‘anni più giovane di me, era assennato e saggio: era per me come un padre e in effetti era il capo della casa. Quando parlavamo di politica, io portavo volentieri il discorso sul lontano destino dell‘uomo e Alceste diceva che non sapevo bene quello che volevo perché la mia visione era astratta e soprattutto perché non coincideva con la sua. Infatti la sua visione si arrestava a questo stadio: ―Benessere economico, affinché uno possa vivere senza la preoccupazione di non riuscire a mantenere la famiglia.‖ Io invece andavo molto più in là: ―Va bene la tranquillità economica, ma quando l‘uomo non sarà più assillato dalla quotidiana caccia al soldo, si volgerà alle cose della cultura e dello spirito. A questo dobbiamo tendere. ‖ Mio fratello non capiva cosa volessi dire, non vedeva come si potesse andare più in là, oltre la sicurezza materiale, anzi pareva temere quel di più che io auspicavo, come se il suo obiettivo fosse il culmine, la perfezione, e il mio invece segnasse l‘inizio di una nuova era e di nuovi problemi e guai. ―Oltre il bene c‘è il meglio,‖ dicevo io, e lui scuoteva il capo. Per lui il mio meglio era fumo. ―Vedrai che la guerra porterà a un bel rimescolamento di regimi,‖ fece Alceste soddisfatto. ―È inevitabile.‖ ―Tanto, saranno sempre dittature. Mi viene da ridere quando sento parlare di popoli liberi.‖ Sapevo che a mio fratello non dispiaceva il mio scetticismo nei confronti della libertà. Incalzai, mentre lui si versava dell‘acqua: ―Le stesse democrazie, cosa saranno poi? Non si può fare una legge che vada bene ai preti e ai laici, ai ricchi e ai poveri insieme. Nei fatti è sempre un‘idea che domina sulle altre, come in una dittatura. Che cosa rappresenta, che valore ha l‘opposizione a una maggioranza?‖ Mi scaldavo, mi pareva di dire delle cose importanti. Alceste bevve, ebbe una specie di sorriso e non disse nulla. Mi guardava come per dire che alle mie considerazioni era arrivato da un pezzo. La dittatura del proletariato che lui sognava era così lontana dalla dittatura illuminata che immaginavo io? Avrei voluto dire ancora qualche cosa, ma Marisa, mia cognata, portò in tavola tre mele e disse al marito che era arrivata la bolletta della luce: così, con quella del gas che era arrivata due giorni prima, erano soldi da pagare lunedì. Il lunedì a casa nostra era il giorno fisso per i pagamenti, e chi non poteva essere pagato un lunedì doveva aspettare quello successivo. ―Anche quella radio,‖ aggiunse Marisa, ―è tutta luce che si spreca.‖ Era convinta, malgrado la continua opera di dissuasione di mio fratello, che la radio consumasse molta luce. Sapevo già dove sarebbe andato a cadere il discorso. C‘era da decidere di cosa dovevamo ancora privarci per potere fare soltanto quei debiti indispensabili che, bene o male, riuscivamo a pagare. Infatti mio fratello non riposava le domeniche di bel tempo, ma con la vecchia macchina fotografica a cassetta ereditata da nostro padre, che faceva il fotografo ambulante, andava a ritrarre gruppi di bambini nei cortili delle case popolari e contadini di località sperdute della provincia, i quali per l‘occasione correvano a lavarsi la faccia come se temessero altrimenti di sporcare l‘immagine della fotografia. Mi era capitato di assistere qualche volta, accompagnando mio padre quando ancora lavorava, e Alceste diceva che la situazione era sempre la stessa. Dunque, i contadini che affrontavano per la prima volta la macchina fotografica, dopo essere stati ben fermi nella posizione che mio padre aveva stabilito, si mettevano a girargli intorno attenti alle manovre che lui eseguiva con le mani dentro la sua cassetta magica, nel cui interno supponevano l‘esistenza di chi sa quali ingranaggi, e non sapevano nascondere lo stupore prima e la delusione poi nel vedere la ―negativa‖ con le loro facce nere. Ma mio padre li tranquillizzava: ―Questa è la brutta copia,‖ diceva, ―voi venite molto bene in fotografia. Fra cinque minuti è pronta la bianca. ‖ E la soddisfazione non era piccola quando avevano finalmente in mano la bella copia, la ―positiva‖. Si sentivano di nuovo dei bianchi. Mio fratello si pulì gli occhiali e la moglie gli mostrò la bolletta della luce. Che c‘entra? Non si poteva mai prevedere con quale frase, con quale argomento, mia cognata sarebbe uscita dal suo silenzio, e questo mi indisponeva. Che c‘entra? Stavamo parlando di cose importanti e questa se ne viene con la luce. Più che altro mi irritavo sordamente perché quando Marisa parlava dopo essere stata a lungo in silenzio, di solito aveva il potere di rendere pensieroso e preoccupato mio fratello. Mia cognata era la casa, la famiglia, la spesa; era tutte le cose che ponevano fine a quell‘unica libertà che io e mio fratello ritenevamo tacitamente vera: la libertà delle nostre fantasie politiche. Mi sentivo in colpa perché mi ero fatto un vestito nuovo. Del resto la roba che avevo prima di entrare in sanatorio non mi stava più bene perché ero un poco ingrassato. Mi sentivo in colpa anche perché mio fratello all‘aspetto sembrava più vecchio di me. Davo in casa tutto il sussidio che mi passava lo stato: ma era roba da poco. Dissi che trovare lavoro, addirittura un impiego, non era facile, e che mi era stata promessa una rappresentanza di tessuti. Soggiunsi che quanto prima avrei tolto il disturbo, me ne sarei andato a vivere per conto mio. Mio fratello rispose che non dicessi scemenze, che casa sua era anche la mia, e così via. Sapevo che era sincero, così come erano sinceri i segni di approvazione che faceva Marisa. Vidi che erano le nove e mi alzai. ―Esco un poco.‖ ―Non fare tardi,‖ mi disse Marisa. Naturalmente voleva significare che avessi cura della mia salute precaria, ma le parole erano quelle di una madre. Una madre che aveva una ventina d‘anni meno di me. ―Che vi sia la disoccupazione è immorale,‖ disse mio fratello. ―Per un governo è come dichiarare fallimento, bancarotta.‖ Ecco, questo allargare il problema, questo portarlo fuori dai quattro muri della nostra cucina, mi alleviava il disagio. Vedevo la politica avvicinarsi ai fatti, le visioni del futuro, le immaginazioni, toccare la terra e la vita di tutti i giorni, le parole aderire a un fondo comune alla generalità degli uomini. Vedere le nostre difficoltà come difficoltà collettive faceva bene a me e a mio fratello. Marisa invece non godeva del nostro privilegio, ed era lei che guastava tutto dicendo: ―Con queste storie non si conclude niente. Parlate e parlate e siamo sempre come prima. ‖ Forse più di noi lei sapeva cosa significava il denaro e le sue idee erano offuscate dal prezzo della spesa che faceva ogni mattina. Mio fratello capiva le intromissioni della moglie e ascoltandola si faceva serio e attento: riponeva da qualche parte, dentro di se, le sue immagini di un mondo migliore e aspettava pazientemente di ritirarle fuori in un‘altra occasione. Uscii e avanzai all‘esterno del portico, nella strada. Non era ancora una liberazione trovarmi nell‘aria della sera. Guardai in alto, oltre alcune finestre illuminate, dov‘era il coperchio del cielo stretto sopra i tetti: blocchi di nuvole grigie davano corpo a quel nero terso. C‘era un sentore di pioggia, e già il vento fresco e strisciante che l‘annunciava correva nel canale della strada e faceva ballare, nelle brusche impennate, i fanali sospesi fra i muri. Mi sforzavo di analizzare le ragioni della mia inquietudine, di mettere in luce i motivi del mio risentimento verso la realtà, una realtà che mi era insopportabile. Certo, quando ero uscito dal sanatorio chi sa cosa m‘ero aspettato di trovare. Guardai ancora le case che mi stavano intorno. Ogni famiglia aveva i suoi guai, le sue difficoltà tutte particolari e non sarebbe bastata una vita per conoscere a fondo i problemi delle famiglie che abitavano nella mia strada. Occorreva una generalizzazione che li risolvesse tutti insieme. Dovevo riuscire a trovare, se c‘era, un punto che a toccarlo o a eliminarlo avrebbe determinato immediatamente un cambiamento valido per tutti. Per tutti i poveri, la gran parte del nostro popolo, dati e statistiche alla mano. Decisi di andare da Giampiero, il solo amico intimo che mi era rimasto. Abitava in una piazza del centro, non molto lontano. Non era una sera buona per andare in giro da solo. Alcuni uomini stavano attaccando dei manifesti su un muro. Manifesti del partito fascista. Nel futuro di Alceste c‘erano i partiti, ma io non avevo fiducia che sarebbero riusciti a condurre gli uomini nella terra promessa dei loro desideri. Mi accadeva di pensare i partiti come dei dinosauri senza piedi, capaci solo di ringhiare l‘uno contro l‘altro. Ma scacciando questa facile mitologia, frutto di chi sa quali associazioni, mi era capitato di leggere qualche scritto clandestino dei partiti. Parole, spesso non chiare, che condizionavano il futuro al maturare di complicati eventi quali, ad esempio, una crisi economica gravissima e la presa di coscienza delle masse. Campa cavallo. Parole. Lessi un manifesto – parlava dei successi del regime nell‘agricoltura e indiceva un‘adunata di contadini – e mi venne voglia di fare qualcosa subito, di strappare almeno quella carta con le strisce di colla fresca. Gli attacchini lavoravano a pochi passi da me. Mi avrebbero certamente visto se avessi strappato i loro manifesti e mi avrebbero picchiato senza che io potessi farmi capire. Forse quegli uomini credevano in queste parole, anche se non le avevano scritte loro, anche se non le sapevano scrivere. E non mi avrebbero creduto se avessi detto che i manifesti li avevo strappati anche per loro. Mi allontanai. Meglio doveva essere fare qualcosa per gli uomini, ma senza chiedere il loro consenso, anzi a loro insaputa. Il cielo si andava coprendo sempre più. Mosso dal vento, un pezzo di carta precedette a scatti per un poco il mio cammino e aderì a una colonna. Arrivai a casa di Giampiero. Venne ad aprirmi uno dei suoi tre figli, il più grande credo, quello che frequentava l‘università, e mi disse che il padre era uscito. ―Digli che è venuto Pino e che l‘aspetto domani sera da Renato. Se può venire.‖ Mi rimisi in cammino. La buona fede. La buona fede può scusare tutto? Allora nessuno ha mai torto e non ci muoveremo mai. No, la buona fede non conta quando coinvolge la collettività. Un ricco in buona fede ha ugualmente torto, sempre, e non è vero che sono da rispettare le altrui opinioni. Se chi comanda sbaglia, sbaglia per tutti. Quasi senza accorgermene, sempre passeggiando per le vie del centro, capitai verso le undici davanti al portone dell‘istituto Leonardo da Vinci, una scuola privata. Stavano uscendo a frotte gli allievi dei corsi serali. Poco dopo uscirono gli insegnanti. Ero appoggiato a una colonna del porticato e Carla mi notò subito. ―Pino. Che piacere. Sei venuto a prendermi? ‖ ―Sì. Ti va?‖ ―Ma è naturale.‖ Da quando ero stato dimesso dal sanatorio, era la terza volta che rivedevo Carla. Insegnante di matematica, quarant‘anni suonati ma portati non come una nubile attempata, eravamo stati fidanzati ufficialmente, in casa, molti anni prima. Nel ‗19. Mi ero appena congedato dall‘esercito e contavo di riprendere gli studi che avevo interrotto con lo scoppio della guerra, mi proponevo di laurearmi: invece incontrai Carla e mi trovai un impiego che mi consentisse di sposarmi. Chi sa perché non avevo sposato Carla. Eppure la nostra sembrava una unione perfetta. Mai un contrasto fra noi, mai una lite seria. ―Dove mi porti?‖ Ecco, un‘altra probabilmente avrebbe detto: ―Dove andiamo?‖ C‘era differenza, almeno secondo me. ―A spasso.‖ ―Ma sta per piovere.‖ ―Ci sono i portici, e tu hai l‘ombrello.‖ Ecco, Carla non poteva non avere l‘ombrello. Erano questi i motivi per i quali non avevo sposato Carla? Una ragione precisa non riuscivo a trovarla, a ricordarla: non era nemmeno sufficiente il fatto che cinque o sei anni più tardi, mentre ero ancora fidanzato con Carla, avevo incontrato la donna che invece avrei sposato. Incominciò a piovere. ―Mi si rovinano le scarpe,‖ disse Carla. ―Te ne regalerò un paio.‖ ―Un regalo è un impegno, Pino.‖ ―Sapevo che avresti detto così. Scherzavo. Figurati che ho bisogno io di un altro paio di scarpe. Queste che porto le avevo quando entrai in sanatorio. Là non mi servivano.‖ ―Lavoro in vista?‖ ―Niente. Tu non ti meravigli perché sai bene che alla mia età non è possibile trovare lavoro, un lavoro serio. Marisa invece non deve averci ancora pensato. Si vede che le sembro giovane.‖ ―Chi è Marisa?‖ ―Mia cognata.‖ Carla rifletté, poi disse: ―Ma i tuoi ti vogliono bene, no? ‖ ―Un po‘ gli faccio compassione, un po‘ gli metto soggezione. A me basta.‖ Nei pressi di Porta Zamboni c‘era una giostra ancora in funzione. Il proprietario, seduto su uno dei cavalli di legno e cartapesta, girava in tondo tutto solo. Mi ci volle un poco per convincere Carla a salire con me. ―Sei pazzo.‖ Per lei era davvero una pazzia sconvolgente. Ci mettemmo su due cavalli affiancati. ―Perché non riprendi a studiare? Fai uno sforzo e prendi la laurea,‖ mi gridò Carla per sovrastare la musica della giostra. Mi misi a ridere. ―Ci ho pensato, e anche se mi vergogno a confessarlo sono stato in segreteria a informarmi. Il fatto è che tutti gli esami che ho dato non valgono più. Dovrei ricominciare da zero, come una matricola. Soldi a parte, mi ci vedi?‖ Carla non rispose. ―E poi, cosa farei? Il medico a sessant‘anni? ‖ Facemmo un altro giro in silenzio, poi ce ne andammo. ―Credi che ci sarà la guerra?‖ mi domandò Carla a un certo punto. ―Chi lo sa. Ma non toccherà a me farla, questa volta.‖ Carla abitava in una palazzina che si affacciava sul viale che va da Porta Santo Stefano a Porta Castiglione. Ci fermammo al riparo del vano del portoncino. La pioggia crepitava sulle foglie degli arbusti nel minuscolo giardino che circondava la casa. ―Vieni su,‖ disse piano Carla. ―E i tuoi?‖ ―Dormono. Non facciamo rumore. Andiamo in camera mia.‖ ―Che audacia, Carla. Una volta non mi avresti mai fatto un invito di questo genere. ‖ ―Perché sei venuto a cercarmi?‖ ―Volevo rivederti. Fa piacere rivivere i ricordi, no? Senti, perché non ti fai un amante? Credo che tu ne abbia bisogno. Ma cosa dico? Dimenticavo i tuoi e la tua educazione cattolica. Buona notte, Carla.‖ La baciai sulla fronte e me ne andai in fretta per raggiungere il porticato più vicino. Lo studio fotografico del vecchio Tinazzi, un amico di mio padre, era in via Marsala, in una specie di mansarda. A parte la macchina a cassetta al centro e un paio di lampade forti, il resto dell‘ambiente sembrava piuttosto il magazzino di un robivecchi. Quando entrai, il vecchio stava in un bugigattolo buio, la camera oscura, intento a sviluppare delle fotografie. Mi disse di mettermi a sedere e di aspettarlo. Osservai qualche oggetto: un cappello da militare della guerra d‘Africa, una tromba da grammofono, una racchetta da tennis, un grande ventaglio d‘avorio: roba che serviva quando qualche cliente aveva voglia di farsi fare una fotografia estrosa. Andai a guardarmi in uno specchio, cosa che da qualche tempo facevo molto spesso. Cercavo la conferma di avere un aspetto ben conservato. Forse le cure che avevo fatto per bloccare la tbc mi avevano aiutato a invecchiare dolcemente. Qualche ruga l‘avevo, ma i capelli bianchi erano pochi: si vede che avevo preso da mia madre, che in età avanzata aveva mantenuto quasi immutata la sua folta capigliatura nera. Mio padre e mia madre erano morti, a distanza di qualche mese l‘uno dall‘altra, nel ‗35. Il vecchio Tinazzi era malandato, cadente, soltanto gli occhi gli erano rimasti buoni. Indossava una palandrana che gli arrivava ai piedi e portava in testa un baschetto blu. Venne a sorvegliare una macchina da caffè, una napoletana, che stava su un fornello a gas. Versò il caffè in due tazzine e me ne porse una. ―Eh, tuo padre, che artista che era. Sapeva fare le fotografie con niente. Io credo che potesse fare a meno anche dell‘obiettivo.‖ Si fece una risata catarrosa e si mise in bocca un mezzo toscano. ―Dopo il caffè, non fumare è un delitto. Non mi ricordo mai se tu fumi o no.‖ Tirai fuori un pacchetto di Macedonia, lo mostrai al vecchio e me lo rimisi in tasca. ―Ho smesso. ‖ ―E ti porti dietro le sigarette? ‖ ―Non si sa mai. Mi venisse una voglia da morire. ‖ ― Io voglio essere seppellito col toscano in bocca.‖ Bussarono alla porta e il vecchio andò ad aprire. ―Si può?‖ fece una voce squillante. ―Entrate, signorina. Che puntualità.‖ ―Per me la puntualità è la prima cosa,‖ disse la donna entrando. Ero preparato al peggio, ma questo essere superava largamente ogni previsione negativa. Rotonda e piccola, con un rachitismo pronunciato al torace, aveva le gambe corte e arcuate e la testa grossa. La faccia era una maschera di belletto. Mi venne vicino e non nascose il suo gradimento nel vedermi. ―Piacere.‖ ―Piacere.‖ Strinsi una manina molle, che pareva senza ossa. ―Volete un caffè, signorina?‖ domandò Tinazzi. ―Mi piace tanto, ma la sera non lo posso bere. Ecco, ne prendo un sorso qui dal signore. ‖ Le porsi la tazzina e lei assaggiò il caffè. ―Ah, che buono.‖ Poteva avere venti anni come cinquanta. ―Allora, vogliamo metterci al lavoro?‖ fece il vecchio fregandosi energicamente le mani. Indicò un paravento e la donna sparì là dietro. Incominciai a spogliarmi, mentre Tinazzi inseriva una lastra nella macchina. ―L‘altra era un sole al confronto. Questa dove l‘hai pescata? ‖ domandai. ―L‘ha trovata il mio socio. Lavora in un casino. ‖ ―Ma i clienti li paga lei.‖ Tinazzi si mise a ridere. ―Su. Fai presto. Chiudi gli occhi e immagina che sia Jean Harlow. O preferisci Greta Garbo? Scegli tu.‖ Avrei davvero dovuto tenere gli occhi chiusi quando la donna apparve nuda. Cercava di coprirsi con le mani. ―Freddo, signorina?‖ le chiese Tinazzi. ―No no. Dove mi devo mettere?‖ Davanti al fondale di tela a fiori verso il quale era puntata la macchina fotografica c‘era un letto alla turca ricoperto da una pelle di cammello. La donna si mise a sedere lì sopra e aspettò guardandomi. ―Allora? Ti spicci?‖ mi fece Tinazzi. Mi sfilai le mutande e sforzandomi di mascherare l‘imbarazzo mi avvicinai al letto. Tinazzi e la donna guardavano il mio sesso che appariva piuttosto riluttante. ―Be‘?‖ disse Tinazzi mentre accendeva le lampade. ―Fagli capire che deve lavorare.‖ ―Vuole che le dia una mano? ‖ mi domandò la donna. ―Sono pratica, sa.‖ Allungò la mano e incominciò a manipolarmi il membro, mentre io mi facevo sopra di lei recitando mentalmente una specie di cantilena che usavo per eccitarmi: sei una puttana, un puttanone, sei una puttana, un puttanone. La mano esperta della donna si mise a sfregare il mio sesso contro il suo. ―Ecco, ecco: mi pare che ci siamo.‖ ―Basta, signorina, se no viene,‖ disse Tinazzi correndo ad appostarsi dietro la macchina. ―Tu, mettiti sotto,‖ mi gridò, ―e lei ti viene a sedere sulla pancia.‖ Eseguimmo con una certa goffaggine. ―Bene,‖ disse il vecchio. ―Adesso mettetelo dentro. ‖ ―Mi scusi se la schiaccio,‖ disse la donna. ―Non è niente.‖ La donna guidò il membro e lo costrinse ad entrare a forza nel suo sesso. ―Solo la punta. Se no non si vede!‖ gridò Tinazzi. ―Va bene. Ora state così, fermi! ‖ ―Mi raccomando che non si veda la faccia,‖ disse la donna. Tinazzi schiacciò la pompetta che apriva l‘obiettivo. ―Non muovetevi. Ne facciamo un‘altra.‖ Si affrettò a sostituire la lastra. ―Ce la fa?‖ mi domandò premurosa la donna. ―Spero di sì,‖ dissi cercando di sorridere.

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