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Il design degli anni Sessanta e Settanta PDF

187 Pages·2012·7.29 MB·Italian
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Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M. 270/2004) In Storia delle arti e conservazione dei beni artistici Tesi di Laurea Il design degli anni Sessanta e Settanta : un nuovo modo di intendere l'utenza, tra progetti di utopia radicale e impegno sociale Relatore Ch. Prof. Stefania Portinari Correlatore Prof. Nico Stringa Laureando Simona Scopelliti Matricola 825991 Anno Accademico 2011 / 2012 Indice Introduzione 1 Premessa 7 CAPITOLO 1 10 Il tema della casa: l’abitare 13 L’Adi e il premio Compasso d’oro 16 Arte e design: uno scambio reciproco 19 Joe Colombo 23 La Triennale di Milano negli anni Sessanta 25 Illustrazioni al Capitolo 32 CAPITOLO 2 – Il radical design il rapporto con l’utente e l’invito alla partecipazione Il contesto culturale 40 La nascita del radical design in Italia 41 La crisi del Movimento Moderno e la nascita della società dei consumi 44 L’ondata pop 46 Architettura pop in Italia 50 L’ambiente domestico, l’oggetto pop e prototipi sperimentali L’oggetto pop 53 Oggetti pop e “tipicità caratteristica” 55 Pop e plastica 57 Superarchitettura 61 Archizoom e il superamento del pop 63 Superstudio 69 Il design per risvegliare la creatività Una progettazione antiautoritaria 73 La ribellione alla macchina e le esperienze creative degli anni Cinquanta 75 Il rinnovamento dell’architettura 76 La distruzione dell’oggetto 78 L’arte è facile 81 Abitare è facile! 82 Progettare in più: l’utente e lo spazio privato 87 Archizoom, Dressing design 89 Vestirsi è facile 91 Aeo, la poltrona vestita 96 Illustrazioni al Capitolo 98 CAPITOLO 3 Architettura e design radicale nello spazio cittadino 114 Campo Urbano 115 I gruppi fiorentini 117 Il gruppo Ufo 118 L’impegno sociale dei 9999 e del Gruppo Strum 119 La distruzione della città 120 L’uso della città 123 Ugo La Pietra 125 Global Tools 130 Riccardo Dalisi 134 Illustrazione al Capitolo 140 CAPITOLO 4 Enzo Mari, un radical differente 146 Gli inizi: l’arte programmata, l’impegno sociale 148 La contestazione 154 Il primo approccio al design: artigianato o industria? 158 Parola d’ordine: semplicità 161 Proposta per la lavorazione a mano della porcellana 162 Progetto aperto 164 Illustrazioni al Capitolo 167 Conclusioni 175 Bibliografia 179 Sitografia 183 Introduzione Questo lavoro di tesi intende trattare gli sviluppi del design tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta in Italia. A quarant’anni di distanza dagli eventi, quegli anni sembrano essere divenuti un periodo di forte interesse. Su di essi si focalizzano ricerche e mostre che ne ripercorrono gli eventi e le storie, e mentre la moda sembra riproporne i dettami glam indossati sulle passerelle dalla modella-icona Twiggy e sul palcoscenico da David Bowie, le aziende di design si impegnano a rieditare e considerare storicamente vari pezzi del furniture di quegli anni. Una sorta di riabilitazione dei “terribili” anni Settanta, è, inoltre, in corso ormai da tempo e tale fenomeno non stupisce se si guarda alle non poche similitudini tra quel decennio e l’età corrente, a partire dal senso di incertezza e di crisi, fino alla voglia di rivoluzione e alla sete di democrazia, messi in risalto da una società di cui ogni manifestazione era segno della sua stessa sclerosi. Per l’Europa occidentale e per il nostro Paese si trattava, dunque, di un periodo particolare e complesso. Se, infatti un primo momento, intorno alla metà del decennio dei Sessanta, sarebbe stato caratterizzato dall’affermazione di un clima di apparente benessere, generalmente sentito anche grazie alla ventata di ottimismo portata dalla cultura giovanile, dalla musica, dalla moda alternativa, ma anche dalle maggiori possibilità economiche e dal più alto livello di istruzione della maggioranza del popolo italiano, negli anni a cavallo tra i due decenni si sarebbero avviate una crisi insanabile ed una rottura traumatica col passato e con le tradizioni. Il decennio dei Settanta avrebbe tentato di sciogliere i nodi politici e sociali degli anni precedenti e avrebbe vissuto il presente con un sentimento di urgenza, alla ricerca di risorse morali e materiali al fine della costruzione di un futuro sentito come sempre più incerto. Quel periodo, inoltre, sarebbe passato alla storia con l’appellativo di “anni di piombo”, secondo la formula di Mario Capanna (che visse quel periodo da contestatore), di stragi e terrorismo, ma anche di lotta armata e battaglie civili, vissute come prolungamento della ribellione sessantottina, dopo la quale tutto sembrava potesse deflagrare nello scontro di opposte ideologie. In questo contesto, già politicamente complesso, altre cause di natura economica avrebbero contribuito ad aggravare le condizioni della società italiana, non ultima l’aumento del prezzo del petrolio che avrebbe messo in crisi la grande industria. La società italiana pareva accorgersi che gli anni del boom economico erano finiti e che la loro più importante conseguenza era costituita dal mutamento delle modalità di produzione e consumo ormai massificato dei beni, che avviavano verso uno sviluppo in direzione del neocapitalismo. Quest’insieme di fattori non poteva essere ignorato dal mondo del design industriale, caratterizzato in questi anni da lunghe e feconde controversie. 1 Un evento significativo, che era stato punto culminante e cassa di risonanza di questioni trascinate da lungo tempo, era stato nel 1968 l’occupazione della XIV Triennale di Milano dedicata al tema del “grande numero”, un episodio che aveva suscitato disordine e scompiglio nel settore della progettazione. Per gli occupanti i designer erano servi sciocchi del capitale (“Designers da contenitore di napalm” recitava un cartellone sostenuto da uno dei manifestanti) e da loro si pretendeva che riducessero al minimo qualsiasi rapporto con le strutture economiche del sistema. Benché le critiche della cultura giovanile venissero mosse all’intero sistema di produzione e diffusione della cultura (com’è dimostrato dal fatto che anche la Biennale di Venezia di quell’anno avrebbe subito delle minacce di occupazione) la contestazione risultava più aggressiva nell’ambito del design, data la sua stessa natura che prevede il coniugare un’attività di ricerca a una pratica, volta a risolvere le esigenze della collettività e del consumo tramite la progettazione e la produzione industriale, su cui ha enorme incidenza. Il design sarebbe dunque, stato “occupato” in quegli anni da una sorta di ripensamento circa la propria specificità e le possibilità e le utilità del suo inserimento nel contesto sociale. A intervenire nel il dibattito sarebbero state tre generazioni di designer: quella dei grandi veterani come Bruno Munari, Carlo Scarpa, Gio Ponti, Franco Albini, quella dei designer che iniziano ad essere attivi soprattutto tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta come Marco Zanuso, Anna Castelli Ferrieri, Marco Zanuso, Mario Bellini, i fratelli Castiglioni, Ettore Sottsass jr, Enzo Mari, e quelli della terza generazione che completavano la loro formazione negli anni Sessanta. Si tratta, chiaramente, di una divisione convenzionale e di comodo che non esprime le differenze esistenti tra idee e progetti di designer della stessa generazione, ma che dà l’idea delle diverse impostazioni del problema e delle forze in gioco. In questo specifico si tratta di un momento particolare in cui è difficile riuscire ad inserire un designer in una categoria piuttosto che in un’altra. Certamente ciò che accomunava la progettazione tanto del design, quanto dell’architettura, era un rifiuto netto dei principi del razionalismo e del Movimento Moderno, che trovava le sue radici nelle sperimentazioni dei gruppi inglesi e francesi degli ultimi anni Cinquanta e che sarebbe arrivato in Italia definitivamente negli anni Sessanta. Le ragioni di tale frattura sarebbero state esaminate al termine degli anni sessanta da Jean Baudrillard, il quale nei propri scritti disvelava la crisi del funzionalismo. Per lo studioso si trattava non di una crisi transitoria, o di un momentaneo orientamento del gusto, ma piuttosto del manifestarsi di qualcosa attinente lo statuto del funzionalismo. Egli sosteneva che per ogni oggetto esistesse un significato, che definiva oggettivo e determinabile: la sua funzione, che come naturale per il design e per l’architettura, si trasformava in segno. Tra le due guerre il funzionalismo avrebbe 2 trionfato, trasformando tutto in oggetto di calcolo, di funzione e significazione. L’imporsi di tali circostanze avrebbe fatto sì che l’efficacia di tali istanze andasse incontro ad un processo di progressiva erosione. Baudrillard teneva, tuttavia a sottolineare la completa arbitrarietà di tale principio, dato che l’eliminazione del superfluo e del decorativo e la corrispondenza tra funzionale e segnico riducevano tutto al segno stesso. Una volta immersi nella logica del segno gli oggetti avrebbero acquistato valore di scambio, senza il quale non vi sarebbe più stato valore d’uso. Al di fuori del loro significato semantico e sociale gli oggetti perdevano ogni valore, non rispondendo ad alcun bisogno reale. Egli concludeva, dunque definendo la teoria secondo la quale non sussisteva più la distinzione tra bisogni primari e bisogni secondari, ma si trattasse invece, nella società del consumismo, di funzioni indotte negli individui dalla forza interna del sistema. In questo modo l’oggetto, non più rispondente ad una necessità primaria, avrebbe assunto la connotazione di “investimento, fascinazione, passione, proiezione”, in una parola di desiderio. La critica al funzionalismo e al consumismo condotta dalla cultura architettonica negli anni indicati non avrebbe, tuttavia, avuto carattere strutturale ed in numerosi casi si sarebbe posto in continuità con i principi su cui i medesimi si basavano, continuando a comprendere il campo del desiderio e confermando, alla fine dei conti, le regole del sistema, piuttosto che capovolgerle. Andrea Branzi avrebbe definito il periodo compreso tra il 1964 e tutti gli anni Settanta come un momento di estremo realismo. Tale termine avrebbe assunto per quei progettisti valori diversi: alcuni lo avrebbero interpretato come urgenza di intervento in ambito sociale e politico, mentre altri avrebbero intenso come immersione nella cultura popolare, nell’accezione specifica di popular, dunque in relazione alle nuove consuetudini urbane e ai nuovi miti dell’immaginario di massa. In entrambi i casi questi designer avrebbero avuto dei forti legami con le arti visive: i primi provenendo dalle file dell’arte programmata erano ereditieri delle idee del Mac (Movimento arte concreta); i secondi, che possiamo individuare sotto l’etichetta di “radical” (pensata, secondo parte della critica, da Germano Celant), avrebbero guardato alla pop art e all’arte concettuale per quel che riguarda l’attenzione all’immaginario collettivo, ed inoltre alla body art, alla performance art, all’arte povera e alla land art. Particolarmente spiccato sarebbe stato l’impulso a coinvolgere la collettività, che si concretizzava nell'organizzazione di laboratori didattici e nella creazione, una volta approvata una nuova idea di spazio urbano, di luoghi di incontro, di dibattito e di protesta cittadina. La caratteristica principale del design di quegli anni, di fatto, sarebbe stata la costituzione di una doppia linea nell’attività progettuale. In alcuni casi, trattandosi della stessa personalità, possiamo parlare di una doppia coscienza: da un lato quella legata al mondo industriale, al rigore formale e alla necessità sociale della propria operazione; dall’altro il mondo utopico, ludico, poetico e 3 colorato dei progetti radical. Sarebbe, tuttavia, erroneo considerare il primo tipo di ricerca come più seria e la seconda, come spesso viene, invece fatto, solo come giocosa ed ironica, avulsa dai temi dell’attualità. Entrambe le anime avrebbero infatti, avuto in comune il fatto di intervenire nell’ambito teorico e di esprimere le proprie idee tramite la stesura di testi o articoli diffusi dalle numerose riviste (alcune delle quali sorgono in questi anni, altre ancora vedono il loro ciclo iniziare e terminare entro la fine del decennio stesso) e tramite l’organizzazione o la partecipazione attiva a mostre, convegni, tavole rotonde, saloni e manifestazioni. Entrambe le anime nel settore teorico, quanto in quello pratico si sarebbero espresse su tematiche sociali ritenute urgenti, come le questioni riguardanti la massificazione della società, sempre più assuefatta ad un sistema che ne sfruttava le energie ai fini della produzione e della vendita e che rendeva l’uomo incapace di esprimersi in maniera libera e creativa, opprimendolo nel settore lavorativo, quanto in quello privato, in cui lo bombardava di messaggi che lo portavano a desiderare di possedere oggetti superflui, e lo invogliavano a lavorare per averli. Si trattava di una sorta di circolo vizioso riconducente alla volontà di produrre per vendere e di vendere per produrre, di lavorare e quindi produrre per avere. Nell’ambito del design di quegli anni anche l’attività di filosofi e critici avrebbe una certa rilevanza ed il decennio Settanta si sarebbe aperto con la pubblicazione di un saggio che per la sua lungimiranza sarebbe diventato ben presto un classico, ovverosia La speranza progettuale (1971) di Tomás Maldonado. Si tratta di uno scritto che rispecchia l’atmosfera sociale e politica di quegli anni. In particolare è riflesso delle idee propugnate dai movimenti di rivolta giovanili, verso cui Maldonado era allo stesso tempo grato, per aver destato dal torpore arcadico una società terribilmente intricata, e duramente critico, per l’ostinazione in una lotta cieca e per certi versi nichilista. A questi progettisti lo studioso rimproverava infatti la scarsa fiducia nella progettazione, attività che, per quei giovani, equivaleva ad essere complici del sistema vigente. Ciò su cui Maldonado desiderava porre l’accento era il degrado dell’ambiente in cui si vive, contro il quale egli opponeva l’esercizio della coscienza critica ed invitava progettisti, intellettuali, giovani a ricostruire “la nostra fiducia nella funzione rivoluzionaria della razionalità applicata” e a ricercare “un’alternativa progettuale ed articolata alla convulsione della nostra epoca”. Nuovi stimoli ed alternative progettuali sarebbero state a lungo ricercate e con questa finalità veniva organizzata a Rimini, nel settembre 1970, la I Biennale internazionale di metodologia globale della progettazione, “Le forme dell’ambiente umano” che, come dichiarato da Carlo Giulio Argan in apertura dei lavori, poteva essere un’occasione di cooperazione tra teorici e operatori tecnici. Diversi interventi circa il rapporto, appunto, tra teorici e tecnici sarebbero stati proposti in una seconda occasione di confronto che veniva fornita appena due anni dopo dal convegno: “Industrial 4 design, teoria e pratica nella prospettiva degli anni Settanta” promosso dal Centro Studi e Ricerche Busnelli. Gli obiettivi principali erano “un ampio ed approfondito rilevamento del quadro della disciplina e la promozione di un utile dibattito sul ruolo che essa può giocare di fronte ad alcuni drammatici problemi che la nostra civiltà pone ogni giorno”. Nelle pagine seguenti dedicherò una particolare attenzione a quei progetti e a quelle manifestazioni di design che avrebbero cercato di stimolare l’utenza ad un rapporto più libero con gli oggetti e con la città e a farsi condizionare meno dalle operazioni del mercato e dalle convenzioni, e a quegli esprimenti che avrebbero tentato di risvegliare l’istinto creativo insito in ogni uomo, ma ormai sopito a causa di un mercato che gli offre tutto ciò che gli fa credere di desiderare e anche oltre. Il primo capitolo costituirà una sorta di introduzione utile non solo ad inquadrare il periodo trattato dal punto di vista storico e sociale, ma anche a fare una breve panoramica sui diversi e contrastanti fremiti che avrebbero dominato quegli anni. Nel secondo capitolo e nel terzo capitolo entrerò nel vivo delle vicende del radical design: considererò gli anni di formazione degli architetti e designer che avrebbero aderito al movimento e le diversità d’azione e di interessi che lo avrebbero caratterizzato. In particolare farò riferimento alla sensibilità dei vari gruppi e personaggi che lo avrebbero costituito, rispetto a tematiche sociali quali il condizionamento dell’uomo ai meccanismi della società consumistica e massmediatica e la sua scarsa libertà d’espressione tanto creativa quanto decisionale, contro cui i radical avrebbero risposto con proposte articolate e molto diverse tra loro, spesso legate dalla cifra ironica e provocatoria. Nel quarto capitolo dedicherò una particolare attenzione alla figura di Enzo Mari, personaggio non aderente al radical design, ma vicino in linea di pensiero alle sue istanze, che si sarebbe espresso sulle stesse problematiche tramite una serissima ed incessante attività teorica e produttiva. Gli strumenti di cui mi sono servita per la redazione della tesi sono stati vari volumi di critica e storia del design italiano, le monografie dedicate ai singoli designer e ai gruppi, ma soprattutto le riviste, per alcune delle quali ho compiuto un difficile lavoro di reperimento. Questa operazione, sebbene complicata ha rappresentato la parte più interessante ed entusiasmante del mio lavoro. Per comprendere la situazione storica e i rapporti tra design e società, oltre che per una visione complessiva della produzione di quegli anni mi sono servita di “Domus”, storica rivista fondata nel 1928 da Gio Ponti, di “Casabella”, fondata nello stesso anno da Guido Marangoni e di “Ottagono” fondata nel 1966 da aziende quali Artemide, Arflex, Bernini, Boffi, Cassina, Flos, ICF De Padova, Tecno e diretta da Sergio Mazza e Giuliana Gramigna. “Domus” e “Casabella” quest’ultima in particolare negli anni della direzione di Alessandro Mendini, dal 1971 al 1976, inoltre, avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella divulgazione delle idee, più che nella critica del radical design. 5 I designer gravitanti attorno al movimento radical in quegli anni avrebbero infatti ideato delle riviste, documenti preziosi e rari che rappresentano essi stessi dei veri e propri oggetti di design per la grafica scelta oltre che per le idee espresse. Riviste come “In-argomenti e immagini di design” fondata nel 1971, progettata da Ugo La Pietra e diretta da Pier Paolo Saporito, o “Progettare INPIÙ” fondata dallo stesso La Pietra nel 1973, avrebbero rappresentato un luogo di confronto e uno stimolo continuo di riflessione teorica per gli stessi radical e di esortazione per i lettori – fruitori a riflettere sui loro stili di vita, e di queste mi sono servita per avviare una scoperta delle idee e dei progetti meno noti del radical design. 6

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caso di un altro oggetto emblematico di quegli anni, la lampada Falkland (1964) a tutt'oggi attualissima. La forma era semplice o, come la definiva
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