ebook img

Il colonialismo nella prospettiva europea PDF

21 Pages·2003·0.084 MB·Italian
Save to my drive
Quick download
Download
Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.

Preview Il colonialismo nella prospettiva europea

Alexandre Kojève IL COLONIALISMO NELLA PROSPETTIVA EUROPEA Traduzione di Edoardo Camurri retrovie (7) Adelphiana www.adelphiana.it 20 aprile 2003 Ho parlato di Marx e della sua critica al capitali- smo come della trasformazione democratica e pa- ci$ca, o se si vuole «fordiana», del capitalismo «clas- sico» perché secondo me il capitalismo vecchio sti- le non è ancora completamente e de$nitivamente superato come a prima vista potrebbe sembrare. E non solo perché in Unione Sovietica, e nei cosid- detti paesi satellite, quel tipo di «capitalismo» con- tinua a sussistere con il nome di «socialismo» e in una forma statale, ma soprattutto perché, purtrop- po, sopravvive anche nel mondo occidentale, dove oggi ha preso il nome di «colonialismo». A dire il vero, parlando di capitalismo, Marx si ri- feriva soltanto all’Europa occidentale. Il che alla sua epoca era assolutamente legittimo. Ma meno legit- timo è che alcuni suoi emuli o critici mantengano ancora oggi la stessa prospettiva «mondiale» che a- vrebbe potuto avere un economista dell’età roma- na: salvo includere di solito, in questo orbis terrarum, anche gli Stati Uniti. Ma di fatto, e in particolare dopo la seconda guer- 2 ra mondiale, il cosiddetto mondo occidentale non è più soltanto europeo o euroamericano. È anche – e forse soprattutto, almeno a lungo termine – asia- tico e africano. Ora, se si considera questo mondo nella sua totalità, ossia per quello che è in realtà, non è dif$cile vede- re che la de$nizione marxista di capitalismo vi si ap- plica molto bene, con tutte le conseguenze «logi- che», e quindi non soltanto reali ma anche necessa- rie, che ne discendono. Il fatto è che, oggi, i principali mezzi di produzione industriale appartengono esclusivamente a una mi- noranza euroamericana, che è la sola a trarre pro- $tto dal progresso tecnico, nella misura in cui anno dopo anno accresce il suo reddito; mentre la mag- gioranza afroasiatica, pur senza impoverirsi in mo- do assoluto (il che, d’altronde, sarebbe material- mente impossibile), diviene relativamente sempre più miserabile. E non si tratta del progressivo diva- rio che si produce tra mondi chiusi a ogni reciproco rapporto, tra due sistemi economici separati, poi- ché anzi gli scambi economici tra l’Euroamerica e la Afroasia sono così intensi che si può e si deve parlare di un unico sistema economico del mondo occidentale. Semplicemente, questo sistema è or- ganizzato in modo tale che soltanto una minoranza diventa ogni anno sempre più ricca, mentre la mag- gioranza non riesce in nessun caso a elevarsi oltre il minimo vitale assoluto. In altre parole, oggi in nessun paese altamente in- dustrializzato – con la sola eccezione dell’Unione Sovietica – esiste ormai un «proletariato» nel sen- 3 so marxista del termine. Non esistono cioè strati veramente poveri della popolazione, che guada- gnano soltanto lo stretto necessario per la soprav- vivenza senza avere nulla di «superfluo». Nei paesi industrializzati euroamericani tutti sono, chi più chi meno, ricchi, e non poveri: tutti vivono nell’ab- bondanza, sebbene relativa, consumando più del- lo stretto necessario alla mera sopravvivenza. Tutta- via, basta considerare il mondo occidentale nel suo complesso per scoprire immediatamente un gigan- tesco proletariato – proprio nel senso marxista del termine. E visto che si tratta di un’unica e medesi- ma entità economica, di un unico e medesimo si- stema d’economia, è innegabile che all’interno di questo sistema esista anche un «plusvalore» in sen- so marxista, di cui godono, nella sua totalità, solo i paesi che dispongono effettivamente di tutti i mez- zi di produzione industriale. In termini economici non ha alcuna importanza il modo in cui il plusvalore viene prelevato dalla mag- gioranza e incamerato dalla minoranza. Ciò che conta invece è che questo plusvalore «colonialista» contribuisce anch’esso alla formazione del capitale nei paesi occidentali già industrializzati. Si può quindi dire, se non con tranquillità almeno a ra- gione, che il sistema economico occidentale con- temporaneo è, nel suo insieme, capitalista in senso marxista – proprio come il sistema sovietico. C’è però una differenza importante – dal punto di vista sia politico-psicologico sia economico – tra un sistema in cui il plusvalore industriale viene sottrat- to al consumo delle masse lavoratrici interne al pae- 4 se, e un altro in cui lo stesso plusvalore viene pre- levato in paesi stranieri. Tale differenza può essere $ssata terminologicamente de$nendo nel modo se- guente le nozioni di capitalismo, socialismo e co- lonialismo. Possiamo riservare la parola «capitalismo» al capita- lismo classico europeo del XIX secolo, cioè a quel sistema economico in cui il plusvalore è prelevato all’interno del paese e investito da privati. Per «so- cialismo» si intenderà allora non uno qualunque di quei sistemi più o meno immaginari che esisto- no soltanto sulla carta, ma l’economia reale dell’U- nione Sovietica contemporanea, cioè il sistema in cui il plusvalore, come nel caso dei sistemi «capi- talisti» propriamente detti, è prelevato all’interno, ma viene poi investito dallo Stato, o meglio ancora da suoi funzionari. In$ne, la parola «colonialismo» designerà il sistema in cui il plusvalore è investito privatamente, come nel «capitalismo» classico, ma non è più ricavato all’interno del paese bensì al- l’estero. Questa terminologia ci permette subito di consta- tare – e di affermare – che il capitalismo propria- mente detto non esiste più, mentre il colonialismo moderno è strettamente imparentato con questo capitalismo ormai estinto. E si può facilmente ca- pire perché i marxisti contemporanei prendano, nei confronti del colonialismo, una posizione del tutto analoga a quella che Marx aveva assunto nei confronti del capitalismo classico. Da un lato i marxisti contemporanei si rendono conto che il divario tra il reddito globale della mag- 5 gioranza afroasiatica e quello della minoranza con- tinua ad aumentare. Dall’altro deducono che que- sto sistema è destinato prima o poi a crollare pro- prio a causa del progressivo aggravarsi del suo squi- librio interno. In$ne i marxisti moderni suppongo- no, più o meno tacitamente, come già faceva Marx, che sono e rimarranno i soli a fare tali considera- zioni e a trarne le conseguenze, mentre i colonia- listi di oggi saranno ciechi, se non stupidi, proprio come lo sono stati i capitalisti del tempo di Marx o, più in generale, dell’epoca prefordiana. Ebbene, se così fosse, le profezie dei neo-marxisti sul futuro del colonialismo potrebbero avverarsi. Proprio per questa ragione ritengo pericolosissi- mo interpretare in modo sbagliato il fatto che le previsioni di Marx sul capitalismo si siano rivelate false. Da questo incontestabile fatto storico non si può che dedurre un’unica conseguenza valida. E cioè che, per evitare il crollo del colonialismo moderno, occorre che quest’ultimo subisca una trasformazio- ne radicale, analoga a quella subita dal vecchio ca- pitalismo a opera del fordismo. Ciò detto, chiediamoci come stanno le cose, da que- sto punto di vista, nel mondo occidentale. La situazione è piuttosto singolare e in certo senso inquietante. Nel vecchio capitalismo la «contrad- dizione» constatata da Marx è stata superata nella pratica, in modo attivo ed ef$cace, grazie al fordi- smo. E solo successivamente, a cose fatte, gli intel- lettuali borghesi hanno elaborato la teoria scien- 6 ti$ca del fordismo, il cosiddetto pieno impiego. An- che gli Stati hanno adattato solo in un secondo mo- mento le loro politiche $nanziarie, sociali, e così via, alle esigenze del nuovo sistema economico, or- mai già realizzato nei fatti da imprenditori come Henry Ford. Nel colonialismo contemporaneo la situazione è in certo modo capovolta. Sulla questione esistono mol- te eccellenti ricerche, opera soprattutto di esperti delle Nazioni Unite, oltre a dichiarazioni di uomi- ni politici e programmi di governo, come il Punto IV del celebre discorso del presidente Truman (che ha rapidamente eclissato tutti gli altri «punti»). Ma a questo riguardo gli esperti di economia si man- tengono cauti, se non scettici, e si comportano co- me se tutta la faccenda non li riguardasse affatto, sostenendo si tratti di una questione squisitamen- te politica. Certo, è un problema politico. E forse è il proble- ma politico del XX secolo. Ma se fosse soltanto que- sto, io non avrei la competenza per parlarne. Mi permetto di farlo perché sono profondamente con- vinto che sia un problema anche e soprattutto eco- nomico. In poche parole: i clienti poveri sono catti- vi clienti; e se la maggioranza dei clienti di una dit- ta è composta da clienti poveri, cioè cattivi, la ditta stessa diventa cattiva o, per lo meno, poco solida. Questo è ancora più vero se la ditta, per non falli- re, deve aumentare ogni anno il suo volume d’af- fari. E nessuno si stupirebbe se, versando in tali con- dizioni, un bel giorno dichiarasse fallimento. 7 Non è quindi del tutto inutile chiedersi, $n d’ora, come riadattare e ricostruire il colonialismo classi- co in uno stile più moderno, che potremmo de- $nire «fordiano». In teoria tre sono i metodi di modernizzazione pen- sabili, e tutti e tre sono già stati proposti. In primo luogo, si potrebbe agire sui cosiddetti terms of trade – molto semplicemente, si potrebbero pa- gare più cari i prodotti esportati dai paesi sottosvi- luppati, cioè essenzialmente le materie prime. Si tratterebbe di stabilizzare i prezzi mondiali di que- sti prodotti, mantenendoli a un livello che consen- ta ai paesi esportatori non solo di vivere e di vivere sicuri, ma di alzare continuamente il loro livello di vita, come già accade nei paesi industrializzati che importano i prodotti in questione. In altri termini, il colonialismo moderno potrebbe fare quel che ha fatto il vecchio capitalismo: rendersi conto che è vantaggioso, non soltanto dal punto di vista politico ma anche per l’economia stessa, pagare per il lavo- ro il massimo anziché il minimo possibile. Questo era il senso e l’obiettivo dei famosi commodity agreements, di cui si è tanto parlato per anni e in va- rie lingue. E che, alla $ne, sono stati accettati, al- meno in linea di principio, da tutti i paesi. Tutti, eccetto uno, che era contrario proprio per ragioni di principio. Ma dato che si trattava degli Stati U- niti, tanto è bastato. E, almeno per il momento, di questi accordi non si parla più. In secondo luogo, si potrebbe procedere anche in ma- niera diretta, continuando a prelevare il plusvalo- re dalle materie prime e dagli altri prodotti «colo- 8 niali» per poi investirne il ricavato non nei paesi importatori e altamente industrializzati, ma in quei paesi sottosviluppati dai quali il plusvalore era sta- to prelevato. Allo scopo ci si potrebbe avvalere del- l’intermediazione di un organismo internazionale specializzato – il SUNFED, come viene attualmente chiamato, ma qualsiasi altra sigla andrebbe bene lo stesso. Anche del SUNFED si è parlato per anni, e an- cora oggi se ne discute, almeno alle Nazioni Unite.1 In terzo luogo, si potrebbe procedere ancora in ma- niera diretta, in un quadro non più internazionale ma nazionale. In altre parole, un dato paese alta- mente industrializzato potrebbe continuare a pre- levare con una mano (diciamo la destra) il plusva- lore colonialista, come fanno oggi tutti gli altri paesi industrializzati. Ma con l’altra mano (cioè la sinistra) potrebbe investire il prodotto del plusva- lore prelevato – o addirittura di più – in paesi sot- tosviluppati di sua scelta. Quindi, se questo paese investisse effettivamente la totalità del plusvalore prelevato (o anche di più), non si potrebbe più par- lare di colonialismo nel senso proprio, cioè eco- nomico, del termine. In un caso come questo, in- fatti, nessuno prenderebbe più niente a nessuno, anzi, si darebbe addirittura qualcosa a qualcuno. E se il paese in questione distribuisse molto più di quanto ha prelevato, lo si potrebbe persino de$ni- re «anticolonialista». sunfed 1. Il (Special United Nations Fund for Economic Development) nacque nel 1952 per fornire contributi a basso interesse in alternativa ai prestiti della Banca Mon- diale; fu successivamente affossato dal disinteresse dei pae- [ ]. si industrializzati N.d.T. 9 Il terzo metodo anticolonialista, per quanto ne so, è stato applicato su larga scala soltanto da due paesi: Francia e Gran Bretagna. Riguardo alla Francia, anche calcolando alto a piacere il plusvalore colo- nialista che preleva, e includendo il sovrapprezzo pagato per le merci francesi, i dazi agevolati, e co- sì via, si potrà tuttavia constatare che, nel dopo- guerra, la Francia ha investito nelle sue colonie ed ex colonie una somma da cinque a sei volte mag- giore di quella che preleva come plusvalore nel- l’insieme dei suoi territori d’oltremare. E, pur co- noscendo meno bene le cifre corrispondenti rela- tive alla Gran Bretagna, so però che si tratta di un ordine di grandezza analogo. Per riassumere breve- mente la situazione nel mondo occidentale, si può quindi dire: – primo: la cittadella inespugnabile del coloniali- smo «di principio» ha sede a Washington; – secondo: tutti i paesi altamente industrializzati sono di fatto colonialisti, tranne Francia e Regno Unito. È superfluo speci$care che quanto ho appena det- to va preso cum grano salis. O meglio: era un gioco. I $loso$ chiamano questo genere di gioco «ironia socratica» (che qui è più o meno riuscita). In altre parole, il mio gioco ha un fondamento serio e u- n’intenzione in certo modo «pedagogica». Serio mi sembra il fatto che il vero problema del nostro mondo e dei nostri tempi non è il coloniali- smo politico, ma quello economico, perché, grosso modo, nel mondo occidentale contemporaneo il 10

See more

The list of books you might like

Most books are stored in the elastic cloud where traffic is expensive. For this reason, we have a limit on daily download.