1 Al largo della Georgia del Sud, nell'Atlantico meridionale, un bersaglio svanisce improvvisamente in un lampo di luce verde. Sulle colline di Dushanbe, in Unione Sovietica, non lontano dal confine con l'Afghanistan, uno straordinario dispiegamento di colonne e cupole si materializza nel corso di una notte. Nella massima segretezza le due superpotenze lavorano a un sistema missilistico di difesa. Due uomini hanno il compito di stabilire le effettive possibilità dei russi: Jack Ryan, analista della CIA, e il colonnello Mikhail Filitov. Sarà quest'ultimo ad arrivare per primo alla verità, scatenando l'inferno intorno a sé: perché il colonnello russo, nome in codice Cardinale, è il superagente americano al Cremlino e sta per cadere nelle mani del KGB. La differenza tra pace e guerra, in altre parole, il destino dell'umanità, dipendono da lui... e da quanto Jack Ryan potrà fare per salvarlo. Un'altra appassionante storia raccontata dall'autore di La grande fuga dell'Ottobre Rosso, Uragano Rosso, Attentato alla corte d'Inghilterra, Pericolo imminente. © 1988 by Jack Ryan Enterprises Ltd. First published in 1988 by G.P. Putnam's Sons, New York © 1989, 1992 RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano Titolo originale dell'opera: THE CARDINAL OF THE KREMLIN prima edizione Superbur: maggio 1988 quarta edizione Superbur: ottobre 1992 Il Cardinale del Cremlino Al colonnello F. Carter Cobb e alla signora Cobb ... Non è amore l'amor che muta se in mutare imbatte o, rimovendosi altri, si rimuove. Oh, no: è faro che per sempre è fisso e guarda alle bufere e non da crollo... Sonetto 116 WILLIAM SHAKESPEARE 2 Ringraziamenti Se mai si è visto un caso di "perle date ai porci", questo va sicuramente identificato negli sforzi di numerosi membri della comunità scientifica che hanno tentato di spiegare all'autore di questo libro gli aspetti teorici e tecnici della difesa strategica. Devo un'infinità di ringraziamenti a George, Barry, Bruce, Russ, Toni, Danny, Bob e Jim. Altrettanti ne meritano da un Paese e forse, in un giorno a venire, da un mondo intero. Un ringraziamento speciale va a Chris Larsson e allo Space Media Network, il cui programma "immagini dall'alto" è stato tanto efficace da innervosire un po' di persone — e questo è solo l'inizio... Le azioni delle spie, dei sabotatori e degli agenti segreti vengono generalmente considerate fuori dall'ambito delle leggi nazionali e internazionali. Pertanto esse sono oggetto di esecrazione secondo tutte le norme di comportamento universalmente accettate. Ciò nonostante, la storia dimostra che nessuna nazione rifugge da tali attività, se esse giovano ai suoi interessi vitali. FELDMARESCIALLO MONTGOMERY VISCONTE DI ALAMEIN La differenza fra un uomo buono e uno cattivo è la scelta della causa. WILLIAM JAMES 3 Tom Clancy IL CARDINALE DEL CREMLINO traduzione di PIEROSPINELLI Biblioteca Universale Rizzoli PROLOGO Minacce antiche, nuove e senza tempo Lo chiamavano l'Arciere. Era un titolo onorevole, anche se i suoi connazionali avevano messo da parte archi e frecce da più di un secolo, cioè da quando avevano scoperto l'esistenza delle armi da fuoco. In un certo senso, il nome rifletteva la natura perenne della lotta. Il primo degli invasori occidentali — così li consideravano — era stato Alessandro Magno; altri ne erano seguiti. Alla fine, tutti avevano fallito. I membri delle tribù afghane vedevano nella fede islamica la ragione della propria resistenza, però l'ostinato coraggio di quegli uomini faceva parte, non meno dei neri occhi spietati, del loro patrimonio genetico. L'Arciere era un uomo giovane e al tempo stesso vecchio. Nei giorni in cui aveva la voglia o l'occasione di bagnarsi in un torrente di montagna, sul suo corpo di trentenne si vedevano guizzare i muscoli. Erano muscoli agili di una persona per la quale scalare una parete di roccia alta trecento metri era cosa trascurabile quanto fare due passi fino alla buca delle lettere. Gli occhi non erano quelli di un giovane. Gli afghani sono bella gente dalla pelle chiara e dai lineamenti schietti. Però, sferzati dal vento, dal sole e dalla polvere, i visi troppo spesso sembrano più vecchi di quanto in realtà non siano. Ma non era stato il vento a segnare innanzi tempo il viso dell'Arciere. Laureato, in un Paese in cui molti reputavano cultura sufficiente saper leggere il sacro libro del Corano, aveva insegnato matematica fino a tre anni addietro. Si era sposato giovane, secondo l'uso locale, ed era padre di due bambini. Sua moglie e sua figlia erano state uccise dai missili lanciati da un caccia d'attacco Sukhoi-24. Il figlio era stato rapito. Dopo che il villaggio della moglie dell'Arciere era stato raso al suolo da un attacco aereo sovietico, erano arrivate le forze terrestri. I 4 soldati avevano ucciso gli uomini superstiti e si erano portati via tutti gli orfani per mandarli nell'Unione Sovietica, dove sarebbero stati educati e addestrati modernamente. Tutto questo era accaduto perché la moglie dell'Arciere aveva voluto far vedere i bambini alla vecchia madre, prima che morisse; in quel frattempo, una pattuglia sovietica era stata attaccata a pochi chilometri dal villaggio. Quando, sette giorni dopo, aveva ricevuto la notizia, il professore di algebra e geometria aveva disposto i libri in bell'ordine sulla cattedra ed era uscito dalla piccola città di Ghazni, dirigendosi verso le montagne. Una settimana più tardi era tornato in città, con altri tre uomini, al calar delle tenebre e si era dimostrato degno dell'antico retaggio uccidendo tre soldati sovietici e prendendo loro le armi. Conservava ancora il primo Kalashnikov catturato in quell'occasione. Non era questo, però, il motivo per cui lo chiamavano l'Arciere. Il capo della piccola banda di mujaheddin ("Combattenti per la Libertà") era un uomo perspicace. Non aveva disdegnato la nuova recluta proveniente dalle aule scolastiche e dallo studio degli usi forestieri. Non si era neppure indignato per la sua iniziale mancanza di fede. Quando era venuto al gruppo, il professore non aveva nulla più di una conoscenza superficiale dell'Islam. Il capo ricordava le lacrime amare che cadevano come pioggia dagli occhi del giovane, quando l'imam lo aveva consigliato secondo il volere di Allah. Un mese dopo era divenuto il più spietato ed efficiente uomo della banda, e questa era senza alcun dubbio una conferma del progetto divino. Il capo aveva scelto proprio lui per mandarlo nel Pakistan, dove avrebbe potuto mettere a profitto le nozioni di scienza e di matematica per imparare a usare i missili terra-aria. Il primo SAM di cui l'uomo serio e taciturno venuto dall'Amerikastan aveva dotato i mujaheddin era stato proprio il sovietico SA-7, che i russi chiamavano strela — freccia. Era il primo SAM manuale, non molto efficace se non adoperato con grandissima abilità. Solo pochi erano capaci di usarlo, e il professore di matematica era il migliore di quei pochi. Vedendo i successi che otteneva con le "frecce" sovietiche, gli uomini del gruppo avevano cominciato a chiamarlo l'Arciere. In quel momento era appostato con un nuovo missile americano chiamato Stinger, però in tutta la zona i missili terra-aria di ogni tipo venivano ormai denominati "frecce": proiettili per l'Arciere. Disteso sullo spigolo tagliente di una roccia, un centinaio di metri sotto la cima del colle, poteva sorvegliare per tutta la lunghezza la valle d'origine glaciale. Vicino a lui c'era Abdul, il suo osservatore. Il nome Abdul, che significa "servo", era quanto mai appropriato: il ragazzo portava due missili supplementari per il lanciatore e, cosa ancora più importante, aveva la vista di un falco. Anche i suoi occhi bruciavano: era rimasto orfano di recente. 5 L'Arciere scrutava il terreno montuoso, soprattutto le linee delle creste, con un'espressione che rispecchiava i mille anni di guerre e di guerriglie combattute dalla sua razza. Era un uomo serio. Benché fosse d'indole abbastanza cordiale, sorrideva molto di rado; non sembrava minimamente interessato a risposarsi, non fosse che per unire il suo dolore solitario con quello di una donna resa da poco vedova. Nella vita dell'Arciere c'era posto per un'unica passione. «Laggiù» disse Abdul sottovoce, tendendo una mano. «Vedo.» La battaglia nel fondovalle — uno dei numerosi scontri di quel giorno — era in corso da mezz'ora, proprio il tempo giusto per l'arrivo degli elicotteri d'appoggio dalla base situata venti chilometri oltre la seconda linea di montagne. Il sole scintillò brevemente sul muso di vetro del Mi-24, quanto bastava per farlo individuare mentre sorvolava la cresta a una quindicina di chilometri di distanza. Molto più in alto circuitava un unico aereo bimotore Antonov-26 da trasporto, pieno zeppo di apparecchiature d'osservazione e di radiotrasmittenti che servivano a coordinare i movimenti al suolo. Gli occhi dell'Arciere, però, seguivano soltanto il Mi-24, l'elicottero d'attacco Hind carico di missili e di proiettili, che in quel momento stava ricevendo istruzioni dall'aereo coordinatore. Lo Stinger era stato una sgradita sorpresa per i russi, che si erano visti costretti a cambiare tattica aerea giorno dopo giorno, nel tentativo di far fronte alla nuova minaccia. La valle era profonda, ma molto stretta. Se voleva colpire i guerriglieri compagni dell'Arciere, il pilota doveva volare diritto in mezzo a quel viale dalle pareti rocciose. Si sarebbe tenuto in alto, almeno mille metri sopra il fondovalle, nel caso che, in mezzo ai fucilieri, ci fosse una squadra equipaggiata di missili Stinger. L'Arciere osservò l'elicottero che zigzagava, con il pilota intento a studiare il terreno per scegliere il percorso. Come previsto, si avvicinò sottovento affinché il frastuono dei rotori giungesse al nemico con quei pochi secondi di ritardo che potevano essere determinanti. Intanto la radio sull'aereo da trasporto che volava più in alto sarebbe stata sintonizzata sulle frequenze che si sapevano usate dai mujaheddin. I sovietici speravano, in quel modo, di poter captare un eventuale allarme per l'avvicinamento dell'elicottero, e anche di scoprire l'ubicazione dei lanciatori di missili. In effetti, Abdul aveva un apparecchio radio, che teneva spento e infilato in una tasca della tunica. L'Arciere alzò lentamente il lanciamissili e puntò il doppio mirino sull'elicottero. Spinse il pollice lateralmente e in basso, sull'interruttore, appoggiando lo zigomo sulla barra di conduttanza. Fu subito confortato dal trillo intermittente del dispositivo di ricerca. Il pilota aveva fatto le proprie valutazioni e stabilito il percorso. Per il primo mitragliamento, avanzò dall'estremità opposta della valle, appena fuori della 6 portata del missile. Il muso dello Hind era puntato in giù e il cannoniere, seduto più in basso e più avanti del pilota, stava aggiustando la mira sull'area dov'erano i mujaheddin. Dal fondovalle si alzò il fumo. I sovietici usavano proiettili di mortaio per segnalare l'ubicazione dei guerriglieri. Il pilota rettificò lievemente la rotta. Era tempo. Dall'elicottero guizzarono fiamme, e la prima salva di proiettili a razzo saettò verso il suolo. A quel punto, si vide un'altra scia di fumo, ma diretta verso l'alto. L'elicottero scartò a sinistra, mentre la scia saliva nel cielo, abbastanza lontano dallo Hind, ma pur sempre un chiaro segnale di pericolo imminente — almeno, così pensava il pilota. Le mani dell'Arciere si strinsero sul lanciamissili. L'elicottero adesso stava scivolando lateralmente verso di lui, allargandosi intorno all'anello interno del mirino. Era a portata dell'arma. L'Arciere premette il pulsante anteriore con il pollice sinistro. Così facendo, liberò il missile e offrì all'apparato di guida a raggi infrarossi dello Stinger la prima opportunità di captare il calore irradiato dai motori a turbo-albero del Mi-24. Il suono che gli giungeva all'orecchio attraverso lo zigomo cambiò. Ora il missile stava inseguendo il bersaglio. Il pilota sovietico decise di colpire la zona da cui il presunto missile era stato lanciato, portando il velivolo ancora più a sinistra. Virò continuando a scrutare l'area da cui era salito il razzo. Così facendo, voltò incautamente lo scappamento dei motori verso l'Arciere. Il sibilo del missile sollecitava l'Arciere, che invece continuò ad aspettare con pazienza. Si immedesimò con il bersaglio e stimò che il pilota si sarebbe avvicinato ancora di più prima di sparare sugli odiati afghani. Fu così. Quando lo Hind fu a un solo chilometro di distanza, l'Arciere inspirò profondamente, elevò l'alzo al massimo e mormorò una breve frase di preghiera e di vendetta. Il grilletto si mosse quasi di sua iniziativa. L'affusto sobbalzò, mentre lo Stinger si alzava descrivendo un cerchio, prima di scendere per dirigersi sul bersaglio. Gli acuti occhi dell'Arciere riuscirono a seguire il quasi invisibile filo di fumo che segnava la traiettoria del proiettile. Il missile spiegò le alette direzionali, che si mossero di una frazione di millimetro per obbedire agli ordini del cervello computerizzato — un microchip delle dimensioni di un francobollo. Dall'alto dell'Antonov 26, un osservatore scorse una piccolissima nuvoletta di polvere e allungò la mano verso il microfono per avvisare il pilota. Aveva appena toccato lo strumento, quando il missile andò a segno. Entrò direttamente in uno dei motori ed esplose. L'elicottero fu stroncato all'istante. La trasmissione al rotore di coda fu recisa, e lo Hind cominciò a girare Con violenza a sinistra. Il pilota tentò di portare il velivolo a terra in autorotazione. Cercò freneticamente uno spazio piano, mentre il cannoniere lanciava attraverso la radio una richiesta di soccorso. Il pilota mise il motore al 7 minimo, regolò in conseguenza il passo delle pale del rotore, fissò lo sguardo su una superficie piatta delle dimensioni di un campo da tennis, disinserì i comandi e attivò il sistema antincendio. Come la maggior parte degli aviatori, temeva il fuoco più di qualsiasi cosa, ma avrebbe presto scoperto che c'erano rischi peggiori. L'Arciere seguì con lo sguardo il Mi-24 che cadeva a muso in giù su una cengia, cinquecento metri sotto il suo punto di osservazione. L'elicottero andò in pezzi ma, stranamente, non s'incendiò; si capovolse e precipitò rovinosamente, con la coda che sbatteva contro il muso, finché si fermò su un fianco. L'Arciere discese di corsa il pendìo seguito da Abdul. Gli bastarono cinque minuti. Il pilota, appeso a testa in giù, tentò di liberarsi dalle cinghie. Sentiva dolore, ma sapeva che succede solo ai vivi. Il nuovo modello di elicottero aveva dei moderni sistemi di sicurezza incorporati. Grazie a questi, e alla propria abilità, il pilota era sopravvissuto alla caduta. Il cannoniere non aveva avuto altrettanta fortuna: giaceva immobile, con il collo spezzato e le mani che pendevano inerti. Il pilota non aveva tempo di occuparsene. Il suo sedile era piegato, il tettuccio aveva ceduto e le lamiere contorte erano diventate una prigione. Il dispositivo per l'apertura di emergenza era bloccato, e le cariche per l'espulsione del seggiolino non volevano esplodere. Estrasse la pistola dalla fondina e cominciò a sparare contro la struttura metallica del tettuccio. Avrebbe voluto sapere se l'An-26 aveva ricevuto la chiamata, e se l'elicottero di soccorso era già in volo. Aveva la radio in una tasca dei pantaloni; l'avrebbe attivata appena fosse riuscito a liberarsi dai rottami del velivolo. Si lacerò le mani nel tirare e spingere le lamiere, ma alla fine riuscì ad aprirsi un varco. Sganciò le cinture, si arrampicò fuori dall'elicottero e scese sul terreno roccioso, ringraziando ancora una volta la sorte per non avergli fatto concludere l'esistenza in una colonna di fumo oleoso. La gamba sinistra era fratturata. L'estremità bianca e aguzza di un osso sporgeva dalla tuta di volo; il pilota, sotto shock, non sentiva nemmeno il dolore, ma provò raccapriccio quando vide la ferita. Rimise la pistola nella fondina e afferrò una striscia di metallo staccata dal relitto, per usarla come stampella. Doveva allontanarsi. Arrancò fino al limite della roccia e vide un sentiero. Le forze sovietiche più vicine erano a tre chilometri. Stava per avviarsi lungo la pista quando udì dei rumori e si voltò. In un attimo la speranza si trasformò in terrore. Il pilota si rese conto che morire tra le fiamme sarebbe stato una benedizione. L'Arciere rese grazie al nome di Allah e sguainò il coltello. Non poteva esserne rimasto molto, pensò Ryan. Lo scafo era in massima parte intatto, almeno in superficie, ma le tracce dell'operazione chirurgica compiuta 8 dai saldatori erano visibili come le cicatrici sul mostro di Frankenstein. Paragone abbastanza calzante, riflette. L'uomo faceva delle cose che a loro volta potevano distruggere il proprio artefice nel giro di un'ora. «Dio mio, fa impressione vedere come sembrano grandi visti di fuori...» «E piccoli visti dall'interno?» domandò Marko. La sua voce esprimeva tristezza e nostalgia. Non molto tempo addietro, il comandante Marko Ramius della Voyenno Morskoi Flot sovietica aveva condotto il suo sottomarino proprio in quel bacino di carenaggio. Non era rimasto ad assistere mentre i tecnici della Marina militare degli Stati Uniti sezionavano la sua nave come i patologi fanno con i cadaveri, rimuovendo i missili, il reattore nucleare, i sonar, i computer, i sistemi di comunicazione, i periscopi, addirittura i fornelli della cambusa, per farli analizzare nelle varie basi sparse un po' dappertutto negli Stati Uniti. Aveva chiesto e ottenuto di non presenziare. L'odio di Marko Ramius per il sistema sovietico non si estendeva alle navi costruite dal regime. Aveva comandato bene l'Ottobre Rosso, e il sottomarino gli aveva salvato la vita. Anche quella di Ryan. Jack fece scorrere le dita lungo la sottile cicatrice sulla fronte, e si domandò se avevano tolto le tracce del suo sangue dalla consolle del timoniere. «Mi stupisce che tu non abbia voluto portarlo fuori di persona» disse a Ramius. «No.» Marko scosse la testa. «Volevo solo dirgli addio. È stato un buon sommergibile.» «Davvero» convenne Jack. Guardò il foro parzialmente riparato che il siluro dell'Alfa aveva prodotto nella murata di babordo e scosse il capo in silenzio. È già buono che mi sia salvato le chiappe quando il siluro ha fatto centro. I due uomini osservarono senza parlare, in disparte dai Marines e dagli equipaggi che avevano in custodia la zona dal dicembre precedente. Adesso stavano allagando il bacino di carenaggio, e l'acqua sporca del fiume Elizabeth irrompeva nella vasca di cemento. Il sottomarino sarebbe stato portato fuori quella notte. Sei veloci sub d'attacco americani stavano ancora "sanitizzando" l'oceano a est della base di Norfolk, ufficialmente nell'ambito di un'esercitazione alla quale partecipavano anche alcune navi di superficie. Erano le nove di una sera senza luna. Sarebbe occorsa un'ora per allagare il bacino. Trenta uomini d'equipaggio erano già a bordo. Avrebbero messo in moto i motori diesel e portato il sottomarino a compiere il suo secondo e ultimo viaggio sino alla profonda fossa oceanica a nord di Porto Rico, dove l'avrebbero fatto inabissare in più di settemila metri d'acqua. Ryan e Ramius stettero a guardare mentre l'acqua lambiva i blocchi di legno su cui appoggiava lo scafo, bagnando la chiglia del sommergibile per la prima volta da quasi un anno. L'acqua adesso entrava più velocemente, coprendo le "marche di bordo libero" pitturate a poppa e a prua. Sul ponte, alcuni marinai, 9 che indossavano giubbotti di salvataggio arancione, si piazzarono per tenersi pronti a mollare i quattordici massicci cavi d'ormeggio che tenevano fermo il sottomarino. L'Ottobre Rosso restava silenzioso e non sembrava particolarmente felice di ritrovare l'acqua. Forse sapeva quale fato l'attendeva, pensò Ryan. Era un'idea sciocca, ma da millenni i marinai attribuivano una personalità alle navi su cui prestavano servizio. Alla fine il sottomarino si mosse. L'acqua sollevò lo scafo dai cunei di legno. Vi fu una serie di rumori sordi, più intuiti che uditi, mentre il sommergibile si alzava lentamente oscillando ogni volta di pochi centimetri da poppa a prua. Qualche minuto dopo il motore diesel si animò con un rombo; i marinai a bordo e quelli in banchina cominciarono a filare i cavi. Contemporaneamente fu ammainato il telone sul lato del bacino verso il mare, e tutti poterono vedere la nebbia sospesa sull'acqua. Le condizioni erano perfette, e dovevano esserlo, per quella operazione. La Marina aveva aspettato sei settimane per avere una notte senza luna e con la nebbia, che in quella stagione gravava sulla Baia di Chesapeake. Quando fu mollata l'ultima cima, un ufficiale dall'alto della torretta del sommergibile alzò una sirena manuale ad aria e lanciò un unico suono. «Alla via!» annunciò, e gli uomini a prua ammainarono la bandiera di bompresso e tolsero l'asta. Per la prima volta Ryan notò che era la bandiera sovietica. Sorrise. Era un gesto simpatico. All'estremità poppiera della torretta, un altro marinaio issò la bandiera navale sovietica con lo stemma della Flotta Settentrionale Bandiera Rossa. La Marina americana, sempre attenta alle tradizioni, stava salutando l'uomo al fianco di Ryan. Jack e Ramius guardarono il sottomarino che cominciava ad avanzare spinto dal proprio motore, con le doppie eliche di bronzo che giravano lentamente in retromarcia mentre entrava di poppa nel fiume. Un rimorchiatore lo aiutò a volgere la prua verso nord. Un minuto dopo il sub non era più visibile, e solo il rombo del motore diesel giungeva attraverso l'acqua oleosa del bacino di carenaggio. Marko si soffiò il naso e sbatté le palpebre un po' di volte. Quando distolse lo sguardo dall'acqua, parlò con voce ferma. «E così, Ryan, hanno fatto te tornare da Inghilterra per questo?» «No, sono rientrato già da qualche settimana. Un nuovo incarico.» «Puoi dirmi che lavoro è?» chiese Marko. «Controllo degli armamenti. Vogliono che io coordini le informazioni per il gruppo che parteciperà ai negoziati. Dovremo andare laggiù in gennaio.» «Mosca?» «Sì. Una riunione preliminare. Preparare l'ordine del giorno e sbrigare qualche questione tecnica, roba del genere. E tu?» 10