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Il canone occidentale. I libri e le scuole delle età PDF

488 Pages·2013·2.354 MB·Italian
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Leggere bene è uno dei grandi piaceri che la solitudine può concederci. — Harold Bloom Quali sono i testi e gli scrittori su cui la civiltà occidentale ha edificato la sua letteratura? Come conciliare il gusto personale con il bisogno di condividere un patrimonio comune? Da Dante a Shakespeare, da Molière a Goethe, da Cervantes a Tolstoj, Harold Bloom ha individuato ventisei autori, prosatori e drammaturghi che non si può non conoscere e dedica loro pagine di studio diventate un patrimonio straordinario. Opera profondamente personale, controversa, discussa, letta in tutto il mondo, Il Canone occidentale è un saggio sui classici diventato, a sua volta, un classico degli studi letterari. Harold Bloom (New York, 1930), da cinquantacinque anni docente a Yale, è uno dei maggiori critici letterari viventi. Autore di una quarantina di opere tradotte in tutto il mondo, è noto soprattutto per L’angoscia dell’influenza (1973), Agon (1982) e Il canone occidentale (1994). Harold Bloom IL CANONE OCCIDENTALE I libri e le scuole dell’età introduzione di Andrea Cortellessa Proprietà letteraria riservata © 1994 by Harold Bloom Published in arrangement with Harcourt Brace & Co. © 1996 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. © 2008 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-65530-6 Titolo originale dell’opera: The Western Canon The Books of the Ages Traduzione di Francesco Saba Sardi Revisione di Roberta Zuppet Prima edizione digitale 2013 da edizione BUR Alta Fedeltà ottobre 2008 In copertina: frammento di statua colossale di Costantino, Roma, Musei Capitolini © 1990. Foto Scala, Firenze Progetto grafico di Mucca Design Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. INSEGNARE LA SOLITUDINE La teoria della poesia è la teoria della vita. WALLACE STEVENS Aroldo l’Agonista I suoi problemi con Delphine Roux erano iniziati durante il primo semestre dell’anno in cui Coleman aveva ripreso a insegnare, quando una delle sue studentesse che per caso era anche una delle allieve predilette della professoressa Roux era andata da lei, nella sua veste di capo dipartimento, a lagnarsi delle opere di Euripide nel corso di Coleman sulla tragedia greca. Una di queste opere era Ippolito, l’altra Alcesti; la studentessa, Elena Mittrick, le trovava «degradanti per le donne». Lo scontro con la giovane Delfina Ribelle dell’anziano e prestigioso professore di Lettere classiche che cinque anni prima l’ha assunta al college di Athena, fresca della graduate school di Yale, destando le perplessità dei colleghi (gli stessi che di lì a poco, proprio al fine di contestare la sua idiosincratica autocrazia, la faranno capo del dipartimento di Humanities), rappresenta l’inizio della fine per Coleman Silk, il protagonista della Macchia umana di Philip Roth. Dopo una serie di altre vicissitudini il Principe degli Umanisti verrà clamorosamente estromesso dall’Università che per decenni s’era identificata con la sua persona, e imboccherà la china dell’emarginazione: affrontando uno spossessamento e un’ascesi che ne metteranno in discussione la stessa identità (quella cui si riferisce il segreto che si porta dietro da una vita). Non so se il personaggio di Coleman Silk sia stato modellato da Roth, almeno in parte, sulle fattezze del Grande Umanista di Yale da lui ben conosciuto – se sia insomma anche una controfigura di Harold Bloom (che di Silk è all’incirca coetaneo e sfoggia un carisma paragonabile al suo). Quel che conta è che l’inizio dell’Agone, nel college di Athena, riguardi precisamente la questione alla quale Bloom, negli anni in cui Roth scrive (il romanzo esce nel 2000 ma è ambientato nel ’98, all’ombra dello scandalo Lewinsky), ha pubblicamente legato il suo nome: mettendo in gioco a viso aperto, con l’aggressività e il coraggio che sempre lo hanno contraddistinto, proprio quello status e quel prestigio. Il Canone, certo. Se il profilo di Silk non può coincidere del tutto con quello di Bloom, la figura di Delphine Roux incarna invece a meraviglia, infatti, i connotati intellettuali (e temperamentali) di quella contro la quale Bloom s’è scagliato con incoercibile veemenza – nel Canone occidentale e nei libri seguenti – definendola Scuola del risentimento. Imbevuti di cultura europea (o, come preferisce dire Bloom sprezzante, «gallica»: lacanizzante derridizzante e soprattutto foucaultizzante) a partire dagli anni Ottanta i Giovani Turchi Multiculturalisti hanno conquistato l’egemonia nei campus più prestigiosi dell’Ivy League, o almeno hanno preso a contenderla a quelli come Silk (o come Bloom): ai Grandi Umanisti, ai Titani della Vecchia Scuola. E lo hanno fatto contestando il nucleo stesso del loro potere intellettuale e culturale, il suo centro sacro e (in precedenza) inconcusso: appunto il Canone. Rivendicando, contro la preminenza in esso dei «Maschi Europei Bianchi Defunti», un’adeguata rappresentazione di tutte le possibili minoranze: etniche, religiose e, ovviamente, di genere. All’inizio della Conclusione elegiaca del Canone occidentale Bloom si guarda alle spalle, misurando la distanza che separa i suoi inizi dall’oggi (da ora in avanti le citazioni dall’opera saranno date, qui, direttamente con la sigla C seguita dal numero di pagina della presente edizione: C 555): Dopo una vita trascorsa a insegnare Letteratura in una delle maggiori università americane, ho poca fiducia nella possibilità che l’istruzione letteraria sopravviva al suo attuale malessere. Iniziai la mia carriera didattica oltre cinquant’anni fa in un contesto accademico in cui predominavano le idee di T.S. Eliot, idee che mi mandavano su tutte le furie e contro le quali ho lottato con tutte le mie forze. Oggi mi ritrovo circondato da professori di hip-hop, da cloni della teoria gallico- germanica, dagli ideologi del genere e di vari credi sessuali, da innumerevoli multiculturalisti, e mi rendo conto che la balcanizzazione degli studi letterari è irreversibile. Passare dall’aristocrazia di Eliot e seguaci al multiculturalismo hip-hop significa per un uomo della generazione di Bloom, nato nel 1930, quasi venire deportati su un altro pianeta. Un passaggio non certo indolore: parlare di balcanizzazione nel ’94, infatti, allude evidentemente a uno stato di guerra. Guerre culturali, beninteso: di quelle in cui Bloom l’Agonista dà il meglio di sé. Per capire le sfuriate polemiche che costituiscono la cornice (e il dichiarato movente) di questo libro occorre in ogni caso cercare di ricostruire un contesto – quello della politica accademica americana – che dal nostro punto d’osservazione, altrimenti, rischia di risultare incomprensible. La voga dei Cultural Studies (icasticamente ipostatizzati nei professori di hip-hop), nelle Università degli Stati Uniti al suo culmine nei primi anni Novanta (e che oggi appare in declino, o quanto meno in stato di approfondito ripensamento disciplinare), in effetti da noi non è mai davvero arrivata. Viene anzi da pensare che, di fronte al conservatorismo esasperato che tuttora domina gran parte dei nostri programmi universitari, ai nostri Atenei forse qualche Delphine Roux non farebbe poi così male. In un suo vivacissimo resoconto delle Guerre Culturali d’Oltreoceano, ha raccontato Remo Ceserani come a cavallo della pubblicazione del Canone occidentale (che negli Stati Uniti esce nel ’94), in due dei più prestigiosi atenei d’America, l’Agone del Canone avesse consumato i suoi ludi più fieri. In California, nell’87, una manifestazione studentesca guidata dal reverendo Jesse Jackson aveva occupato i viali fioriti del campus di Stanford al grido di «Hey hey, ho ho, Western culture’s got to go». Coi loro slogan e volantinaggi gli studenti chiedevano appunto di rivedere la lista degli autori obbligatori nei corsi di Letteratura: per infine ottenere la sostituzione di quell’unica lista con otto canoni alternativi fra i quali fosse possibile scegliere. Dall’altra parte della nazione, nel ’95, proprio a Yale, aristocratica cittadella di Harold Bloom, s’era consumato uno scandalo non meno imbarazzante quando un ex allievo miliardario (si immagina esaltato dalla lettura del libro del Professore) aveva condizionato un proprio enorme lascito, all’Ateneo, alla creazione di un corso di Western Civilization. I docenti si erano divisi per ricompattarsi, però, quando il provocatorio magnate aveva chiesto di intervenire anche sulla scelta dei corsi, e addirittura degli insegnanti: rifiutando una montagna di dollari in nome di valori, come la Libertà e l’Indipendenza del Sapere, dei quali proprio Bloom non aveva mai mancato di farsi portabandiera. Appena due esempi: che mostrano chiaramente, però, come la questione del Canone, nelle Università d’oltre oceano, sia stata negli ultimi vent’anni un tema centrale. Se non proprio la questione politica in gioco. La Delphine Roux di Roth si è laureata a Parigi, all’École Normale Supérieure, con una tesi dal soggetto che pare fatto apposta per mettere in imbarazzo un Coleman Silk alle prese con problemi dei quali nulla lei può sapere: Georges Bataille e la negazione di sé. Quando la giovane francesista si presenta al colloquio ad Athena, Coleman distrattamente la ascolta parlare di strutture narrative e temporalità, narratologia e diegesi. Non si fa impressionare: «sa, nell’originario senso greco, cosa significano tutte le parole di Yale e cosa significano tutte le parole dell’École Normale Supérieure»; sa pure che «Delphine rappresentava proprio quel genere di prestigiosa trombonaggine accademica di cui gli studenti di Athena avevano bisogno come di un buco in testa». Eppure decide di assumerla. Forse perché così «avrebbe mostrato la propria larghezza di vedute». O forse perché «era così seducente». Fatto sta che, cinque anni dopo, è proprio sul casus belli dell’Euripide sessista che Delphine comincia a far leva, col preciso progetto di demolire Coleman: il quale è infatti emblema di tutto quanto lei ha sempre desiderato invano di essere. Lui all’inizio sottovaluta l’insidia (e lo fa con terminologia squisitamente bloomiana, mio il corsivo…): «Il fraintendimento di queste due tragedie da parte della signorina Mitnick […] si basa su preoccupazioni

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