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I segreti di Roma PDF

334 Pages·2017·1.57 MB·Italian
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Corrado Augias I SEGRETI DI ROMA Storie, luoghi e personaggi di una capitale INDICE Preambolo in due quadri Tra spazio e tempo Vedo le mura e gli archi... Quei ventitre colpi di pugnale L'altro Michelangelo Un monumento alla plebe L'avventura del Mosè La fabbrica degli incantesimi Le torri della paura «Ist am 24.3.1944 gestorben” La più bella dama di Roma Spunta la borghesia IL Fratelli d'Italia... il delitto di via Puccini La vita al di la del muro Il ventennale che non ci fu I SEGRETI DI ROMA C'est ici un livre de bonne foy, lecteur.... Je veus qu'on m'à voie en ma facon simple, naturelle et ordinaire ... Ainsi, lecteur, je suis moimesmes la matière demon livre. Montaigne, Essais, «Avertissement au lecteur> (Questo, lettore, è un libro sincero.... Voglio che mi si veda qui nel mio modo d'essere semplice, naturale e consueto ... Perchè è anche me stesso che ritraggo.) PREAMBOLO IN DUE QUADRI Da dove cominciare il racconto di un universum qual è Roma? In una città contraddittoria come questa, carica di tutta la gloria, di tutte le rovine e di tutta la polvere che i secoli si sono lasciati dietro, è possibile scorgere le tracce di ogni evento o sentimento umani, l'ardimento e la codardia, la generosità e l'ignavia, l'intraprendenza e la losca mollezza degli infingardi. Non c'e avvenimento della storia conosciuta che non abbia lasciato un segno, una cicatrice, un graffio sulla sua scorza. Roma non sarà mai la città dell'ordine, delle simmetrie, del nitido svolgersi dei fatti secondo un disegno, l'esito coerente di un progetto. Se la storia degli uomini altro non è che violenza e frastuono, Roma è stata nei secoli lo specchio di questa storia, capace di riflettere con fedeltà ogni dettaglio, compresi quelli dai quali si distoglierebbe volentieri lo sguardo. Da dove cominciare, insomma? Ogni storia che si rispetti dovrebbe cominciare dall'inizio, «ab ovo”, dicevano i latini pensando all'uovo di Leda, posseduta da Giove in forma di cigno. L'uovo da cui nacque Elena, donna di fatale bellezza. Cominciamo pure ab ovo, allora, non solo per ragioni di cronologia, ma anche perchè proprio la fiaba, il mito delle origini, sembra racchiudere un connotato di fondo ancora oggi riconoscibile dopo le infinite avventure, spesso disavventure, della città: diciamo pure, il suo destino. Quali origini? La leggenda di Romolo e Remo la conoscono tutti. Non tutti però ricordano le varie versioni su come i due leggendari gemelli sarebbero venuti al mondo. La madre pare fosse Rea Silvia, principessa di Alba Longa costretta a monacarsi (avrebbero detto nel XV IL secolo), cioè a entrare nel sacro collegio delle vestali, che avevano fra gli altri obblighi la più assoluta castità . A questo la costringe lo zio, usurpatore del trono, per impedirle di generare mettendo a repentaglio la propria dinastia. Invece la giovane donna un giorno si scopre incinta, pare per l'intervento di un dio (una storia che si ripete spesso), potrebbe trattarsi di Marte in persona. Risalendo «per li rami” s'arriva con questa versione ad Ascanio, figlio di Lavinia e del pio Enea. C'e da crederci? Ci credette, o così scrisse, Virgilio nel suo poema epico nazionale. La leggenda, stratificatasi a poco a poco, conosce altre versioni, più imbarazzanti, divulgate da Plutarco nella Vita di Romolo. Re Tarchezio di Alba Longa, uomo crudele, assiste un giorno allo strabiliante fenomeno di un gigantesco membro virile che scende dal camino e comincia ad aleggiare per casa. Gli indovini etruschi, anche se non hanno ancora letto Freud, chiariscono che si tratta dello spirito del grande Marte il quale, irritato con il re, vuole generargli un successore. Per accontentare l'irato dio il re dovrà fornirgli una vergine. Tarchezio ordina alla figlia di soddisfare quel coso che continua a svolazzare qua e la, ma la fanciulla, comprensibilmente, rifiuta. Una schiava, alla quale non è consentito negarsi, è chiamata a sostituirla. Queste le poco onorevoli vicende che portano, nove mesi dopo il surreale incontro, alla nascita dei due fanciulli, che il malvagio re, per non correre comunque rischi, ordina di uccidere. Abbandonati in un cesto sulle rive del Tevere (com'era accaduto a Mosè), i gemelli si salvano perchè le acque si ritirano e per di più una lupa, scesa assetata dai monti circostanti, li nutre offrendo loro le sue mammelle. Ma era proprio una lupa? Nella sua storia di Roma, Tito Livio insinua il dubbio che non di una vera lupa si trattasse bensì di una certa Larenzia chiamata «lupa”, cioè prostituta, nell'ambiente pastorizio per essere solita vendersi a quelle rudi genti: “Sunt qui Larentiam volgato corpore lupam inter pastores vocatam putent” (alcuni ritengono che questa Larenzia, per aver spesso prostituito il suo corpo, fra i pastori fosse chiamata «lupa”). Quando gerarchi fascisti pensarono di chiamare «figli della lupa” i bambini inquadrati nelle organizzazioni giovanili del partito, non si resero conto, ignari di storia, dell'involontaria comicità di una simile denominazione. I due ragazzi, di non specchiato lignaggio, crescono mettendo in luce temperamenti diversi. Remo è più risoluto e sembra più adatto al comando. Romolo appare fisicamente più debole, però molto più astuto. Quando si viene alla fondazione della città, Romolo inganna il fratello sull'esito di una sfida: chi Sarà capace d'avvistare per primo degli avvoltoi nella valle Murcia, quella dove più tardi sorgerà il circo Massimo. La sfida degenera; Remo s'infiamma, provocatoriamente salta il solco che si sta tracciando per definire il perimetro della città e viene abbattuto dal colpo di zappa di un sicario etrusco. Eliminato suo fratello, Romolo, infuriato, avrebbe gridato: «Sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea” (Lo stesso accadrà a chiunque altro osi oltrepassare le mie mura). Deriva da Romolo il nome della città? > possibile, ma non certo. Altre ipotesi indicano l'etrusco rumon (flume), quindi «la città del flume”; oppure l'osco ruma (colle). Anche l'origine del nome è incerta, proprio come il lignaggio dei due gemelli. Veniamo alla terza fase, poco raccomandabile come le precedenti. Per fondare la sua città Romolo aveva radunato una combriccola di sbandati arrivati da ogni parte. Secondo il racconto di Plutarco, ognuno di loro aveva portato dal suo paese di provenienza una manciata di terra da gettare nella fossa, chiamata mundus, scavata al centro del perimetro delle mura. Contemporaneamente, assicura Plutarco, lì vennero gettate anche le primizie «di tutte le cose sancite dalla consuetudine come utili e dalla natura come necessarie alla vita umana”. In questo villaggio di manigoldi un solo elemento continuava a mancare tra quellli necessari alla vita: le donne. Si chiese alle fanciulle dei villaggi vicini se per caso avrebbero voluto accasarsi nella nuova città, ma quelle, inorridite, rifiutarono. Per tagliar corto, si ricorse allora al mezzo estremo di rapire le donne dei confinanti sabini e in tal modo Roma potè cominciare davvero a vivere. Ci volle molto impegno per nobilitare questo fosco racconto di stupri e omicidi . Poiché l'origine divina per opera di Marte appariva barcollante, si pensò di radicare la nascita del nuovo centro in un altro mito illustre, la guerra di Troia, trasformando in qualche modo il pio Enea, figlio di Venere, nel progenitore di Romolo. Ci pensa Virgilio a rifinire la nuova leggenda allacciandosi, nel secolo aureo di Augusto, direttamente a Omero, così creando anche a se stesso, per il tramite dell'Iliade, una grande ascendenza letteraria. In ogni leggenda c'e un fondo di verità, nel caso di Roma questo “fondo” dice che le sue origini furono turbolente, quasi certamente per l'aggressività dei suoi abitanti che si fecero largo con la violenza nel nuovo insediamento strategicamente collocato al confine tra due culture l'etrusca e l'italica - e all'incrocio di importanti vie commerciali fra la Toscana etrusca e la Campania greca. Ci vollero secoli per costruire non solo la mitologia della città, ma anche un sistema di regole giuridiche e di norme di comportamento che assicurassero una certa equità alla convivenza in un insediamento nato in modo così avventuroso. Per altrettanti secoli quelle norme vennero rispettate e, quanto alla giurisdizione vera e propria, il corpus legislativo romano resta per molti aspetti ancora oggi insuperato, come dimostrano perfino le formule fulminee che riassumono alcuni dei suoi principi fondamentali: Unicuique suum, Neminen laedere, Dura lex sed lex, Ne bis in eadem, Nemo ad factum cogi potest, eccetera. Secoli furono necessari a perfezionare quel progetto, ma la luce del diritto comincia a brillare a Roma. Numa Pompilio, secondo re della città (siamo tra il 700 e il 600 a.C.), veniva dalla Sabina, ed era il genero del re Tito Tazio. Quando Romolo morì, i romani lo scelsero come sovrano. Religioso e pacifico, mantenne buoni rapporti con tutti i popoli vicini garantendo un lungo periodo di pace. Plutarco, raccontandone la vita, detta un giudizio memorabile, che scavalca i secoli e arriva fino a oggi: ma come, dirà qualcuno: Roma non progredì e avanzò grazie alle guerre? Domanda che richiederebbe una lunga risposta per certa gente che pone il progresso nel denaro, nel lusso, nel predominio anzichè nella sicurezza, nella gentilezza, nell'indipendenza dagli altri e nella giustizia verso gli altri. Re Numa dedica una cura particolare nell'organizzare la vita religiosa della città, consapevole che l'aiuto divino e il timore dell'aldilà sono di grande aiuto quando si tratta di educare una popolazione primitiva al rispetto delle leggi. “La musa di Numa” scrive ancora Plutarco “fu gentile e umana, convertì la città alla pace e alla giustizia placandone i costumi sfrenati e ardenti.” Memore del comportamento oltraggioso che i primi romani avevano tenuto con le donne della sua Sabina, Numa pose un'attenzione particolare nella formazione di un morigerato costume sessuale, reprimendo gli uomini ma, soprattutto, le donne: «Impose a queste un grande riserbo, tolse loro ogni ingerenza negli affari pubblici, le ammonì a esser sobrie abituandole a tacere”. Le donne romane si sposavano in età precoce, “a dodici anni e anche meno, perchè così portavano allo sposo il corpo e l'anima puri e intatti”. La pudicizia imposta a tutte le giovani diventava un obbligo stringente per le vergini vestali il cui ordine Numa aveva fondato. La vergine Vesta, dea custode del fuoco, simboleggiava l'eternità di Roma. Le sue sacerdotesse erano scelte tra le fanciulle romane di età compresa tra sei e dieci anni, appartenenti a famiglie patrizie di provata onestà e obbligate, per trent'anni, a mantenersi vergini. Al termine di questo periodo potevano sposarsi. Oltre all'incarico di custodi del fuoco ebbero con il tempo quello di vegliare sul Palladio, pregare per la salute pubblica, custodire i testamenti e altra documentazione importante. Grandi onori erano loro riservati: i magistrati cedevano il passo e facevano abbassare i fasci consolari al loro passaggio, avevano diritto alla scorta dei littori e chi avesse osato insultarle era punito con la morte. La vestale che avesse violato il voto di castità diventava colpevole di incestum, il seduttore veniva ucciso a nerbate, lei era condotta nel campus sceleratum, dove subiva un tremendo castigo che Plutarco racconta in dettaglio: Colei che disonora la propria castità viene sepolta viva presso la porta Collina. Li, all'interno delle mura, si stende per un buon tratto un terrapieno. Al di sotto è preparata una stanza piuttosto piccola, con una scala per scendervi. Dentro mettono un giaciglio e delle coperte, una lucerna accesa, una piccola provvista di cose necessarie alla vita, come pane, acqua in una brocca, latte, olio, quasi che l'uomo voglia sottrarsi alla responsabilità di distruggere per fame un corpo consacrato con i riti più solenni. Quindi pongono la condannata in una lettiga, la coprono e stringono dall'esterno con cinghie, in modo che fuori non si oda la sua voce, e la fanno passare attraverso il Foro. La gente si ritrae silenziosa davanti a lei, e silenziosa la segue in una terribile costernazione: per la città non c'e spettacolo più agghiacciante o giorno più tetro. Appena la lettiga è giunta sul posto, gli inservienti sciolgono i legacci, il sommo sacerdote con le mani alzate al cielo rivolge alcune preghiere segrete agli dei prima del supplizio, quindi fa uscire la donna completamente velata dalla lettiga e la pone sulla scala che porta sottoterra. Fatto ciò, si volta indietro anche lui come gli altri sacerdoti. Appena la donna e scesa, tirano su la scala e nascondono l'ingresso della camera gettandovi sopra terra in gran quantità fino a raggiungere il livello del resto del terrapieno. Questa la punizione riservata alle vestali che violano la castità . Nel 1972 la Mondadori pubbliccò un bellissimo libro di Mario Praz, Il patto col serpente. Tra i numerosi saggi il volume ne contiene uno, La Roma dannunziana, dove si possono leggere le seguenti righe: «Qualche volta passavo dinanzi al villino decorato a graffito in via Varese, dalle persiane solitamente chiuse, aduggiato da alberi lieti, pini e palme, che qui paion mesti e solenni come alberi del nord, e nessun'altra scena sapevo pensare più acconcia per un romanzo poliziesco”. Quando il quotidiano «la Repubblica” s'installlò nel palazzo di piazza Indipendenza, dove poi è rimasto per quasi trent'anni, la frase che ho citato mi è tornata alla mente. Ho lavorato nella redazione del giornale e via Varese è dietro l'angolo; il misterioso villino era, ed e, ancora li, a metà della strada, sulla sinistra venendo dalla piazza. Praz aveva ragione, la casa si presenta misteriosa, ma soprattutto non ha apparentemente niente a che vedere con il quartiere (una volta chiamato «Macao) come siamo abituati a considerarlo oggi con le sue «uggiose, melanconiche strade di derelitto residential district, ville decadute a pensioni, scuole e uffici, ordini corinzi degradati, giardinetti strozzati da scatoloni Novecento [qui credo che Praz alludesse proprio all'edificio che sarebbe diventato la redazione della «Repubblica”] e solo qua e la un angolo che serba qualche impronta di distinzione”. Basta però osservare più attentamente e le «impronte” cui Praz accenna diventano chiaramente visibili. Quelle strade, una volta, erano al centro di una vita che, pur scomparendo, ha lasciato memoria di se. Ne testimoniano le sparse architetture superstiti, certi fregi, alcuni scorci che s'intravedono dietro alte cancellate, ne riferiscono alcuni libri letti ormai da pochi. Non Il piacere, opera principe del periodo immediatamente successivo al 1870 di cui parlerò più avanti, nemmeno la rivista «Cronaca bizantina” nel fugace periodo estetizzante in cui a dirigerla fu d'Annunzio in persona (1885- 86). Ma, per esempio, un libricino di poche pagine, scritto dall'antiquario Alberto Arduini, dall'accattivante titolo Dame al Macao, uscito nel 1945 e mai più ristampato. Intanto, perchè Macao? Che c'entra Roma con l’ex colonia portoghese nel Mar Cinese meridionale, luogo deputato di «belles dames sans merrii” e di esotiche avventure? Il nome derivava da un seminario dei gesuiti, costruito su parte dei terreni del Castro Pretorio, dove fin dal )(VI secolo venivano formati i missionari destinati all'Estremo Oriente. Proprio in quell'area i piemontesi pensarono di erigere un quartiere residenziale nonche i principali ministeri del neonato Regno d'Italia. Ragione principale della scelta la comodità d'avere a due passi la stazione delle ferrovie. Poi l'altitudine: quella e la parte più elevata di Roma, detta fin dall'antichità alta semita; ha un'aria più salubre grazie agli ottanta o cento metri in più rispetto alle malsane bassure racchiuse nell'ansa del fiume. Li i nuovi amministratori progettarono un quartiere moderno, razionale e laico fin dall'impianto delle sue strade ortogonali, destinato a villini e palazzine per la nuova classe dirigente, le alte gerarchie dello Stato, senza nemmeno una chiesa (in questo, unico a Roma con l'eccezione che vedremo nell'ultimo capitolo). Per le strade del Macao si aggirarono statisti e letterati, finanzieri e giornalisti, le belle dame alle quali Arduini dedica il titolo: «Al mattino il quartiere, pigro, si svegliava tardi. Camerieri in rigatino, cocchieri che lavavano con gran scroscio d'acque le carrozze, giardinieri armati di cesoie e annaffiatoio. più tardi, cavalieri e amazzoni in tubino, parlamentari in pelliccia. Dopo il mezzogiorno, patetiche partenze per il Pincio. Alle cinque il viandante intravedeva, dietro balconi velati da tende di pizzo, luci tenui che profilavano dame col sellino, pallide ragazze ben educate, gentiluomini attillati in finanziere riservatissime. Si serviva il tè in giardini d'inverno ... in un'atmosfera profumata, ma dove non mancava mai una sottile punta di odor di gas”. Probabilmente il Macao come lo descrive Arduini non e mai esistito; è vero che alcune di quelle piccole ville eleganti sono ancora lì, ma l'atmosfera da lui descritta ha tutta l'aria d'essere, più che una realtà, il portato della fantasia o del desiderio. Roma non assomiglierà mai a Bloomsburà ne a certe piccole strade quiete del quartiere parigino di Neuillà o del XVI arrondissement; la sua aria è diversa, può essere indolente o tragica, lo è sempre stata. (Arduini stesso doveva incontrare una fine violenta, assassinato da un militare americano nei mesi dopo la Liberazione per un litigio forse legato a un rapporto finito male.) Ma anche se quel Macao non c'è mai stato, quando il Regno d'Italia fu finalmente completato, si tentò, anche grazie a quartieri di quel livello, d'aggiungere Roma al numero delle grandi metropoli europee, Parigi, Londra, Berlino, togliendola finalmente dal suo isolamento politico e civile. La Roma arcaica dei tempi di Romolo e la Roma sparita di fine Ottocento, sono state entrambe risucchiate dal gorgo e dalla polvere della storia. Se dovessi indicare per la capitale un solo connotato punterei proprio su questo: la compresenza di tante città incastrate una dentro l'altra, sovrapposte in tre, quattro, cinque strati pronti a svelarsi appena si abbia voglia di guardare oltre la rumorosa corteccia del presente. Nei Fori, dopo una giornata di forte pioggia, si vedono baluginare a terra miriadi di pietruzze: sono frantumi, poco più che polvere, dei marmi variopinti che molti secoli fa arrivavano qui da ogni angolo della terra. Ogni scavo nel centro storico, si tratti delle fondazioni di un edificio o di una galleria della metropolitana, fa inevitabilmente affiorare i resti di una vita precedente. Lo ha sperimentato Renzo Piano durante la costruzione della nuova Città della musica, lo ha immaginato Federico Fellini nel suo film Roma: un affresco romano viene alla luce nelle viscere d'una galleria, ma è la stessa luce, in un attimo, a bruciarlo facendolo svanire per sempre. A Roma accade che la Domus aurea, una delle regge più grandiose mai costruite, dopo pochi anni di splendore finisca interrata a fare da fondazione per le terme di un nuovo imperatore; che l'androne di un palazzo costruito nel 1909 sia sostenuto da un contrafforte del circo di Nerone; che le colonne d'una chiesa cristiana provengano da un tempio dedicato a Venere. Queste stratificazioni multiple documentano la storia fluita senza interruzione attraverso la città, cancellando e aggiungendo un qualche tratto con l'ostinazione ora morbida ora violenta dell'onda che torna a battere, in una sfida senza fine, lo stesso tratto di costa. Emile Zola nel romanzo Roma coglie bene quest'aspetto facendo fare al suo protagonista riflessioni come questa: La Roma pagana resuscitava nella Roma cristiana. Facendo di questa, la Roma cattolica, il nuovo centro politico, gerarchizzato e dominatore nel governo dei popoli. Ma era mai stata davvero cristiana Roma, dopo l’età primitiva delle catacombe? Affioravano sempre più insistenti i pensieri che aveva gia avuto al Palatino, sulla via Appia e a San Pietro. Quella mattina stessa, nella cappella Sistina e nella stanza della Segnatura, stordito dall'ammirazione, credeva d'aver ben capito ciò che di nuovo il genio aveva apportato. Con Michelangelo e Raffaello il paganesimo indubbiamente ricompariva trasformato nello spirito cristiano. Ma non si fondava forse anche questo sulla stessa base? Forse le nudità gigantesche del primo non venivano dal cielo terribile di Jehova filtrate attraverso l’Olimpo? E le figure ideali dell'altro non facevano forse balenare sotto il casto velo della Vergine le carni divine e desiderabili di Venere? Questa compresenza è il fascino di Roma, ma a anche il peso che la città sopporta. Gravata dal suo passato non è stato ne saràmai facile per lei liberarsi dei propri fantasmi. Non dico New York, che reinventa di continuo la sua dimensione, ma nemmeno Parigi ha legami così fitti con la sua storia. Quasi fino all'anno 1000, la capitale francese, Lutetia Parisiorum come la chiamarono i romani, fu poco più di un villaggio fortificato sull'Ile de la cité, importante soprattutto per la sua posizione a valle della confluenza con la Marna. Millesettecento anni meno di Roma. Si sentono, e si vedono. Questo libro non e una storia ne una guida di Roma, piuttosto una raccolta di vicende legate ora a una strada, ora a un palazzo o a un monumento, in qualche caso alla biografia dell'autore, voglio dire a incontri e accostamenti spero significativi, ma anche casuali com'e spesso la vita. Posti dove ho vissuto, che ho visto in condizioni diverse dalle attuali perchè anche Roma cambia, o di cui ho appreso sui libri o dai racconti di persone vicine. Descrivendo alcuni luoghi della città è stato inevitabile ripercorrere certe pagine della sua storia così travagliata, mai diventata davvero tranquilla nemmeno dopo il 1870. Talvolta mi sorprendo a pensare quale destino Roma avrebbe potuto avere se, nel corso di altri secoli, per esempio tra il XV e il XVI, si fosse riusciti a farla diventare il centro di un regno sottraendola al dominio pontificio per trasformarla in una vera capitale moderna. In quei due secoli la penisola ha

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Corrado Augias. I SEGRETI DI ROMA. Storie, luoghi e personaggi di una capitale. INDICE. Preambolo in due quadri. Tra spazio e tempo. Vedo le mura e gli archi Quei ventitre colpi di pugnale. L'altro Michelangelo. Un monumento alla plebe. L'avventura del Mosè. La fabbrica degli incantesimi.
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