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I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana: Ultime lettere di Jacopo Ortis-I promessi sposi-I malavoglia-Il piacere-Piccolo mondo antico... Ediz. integrale PDF

2109 Pages·2013·9.96 MB·Italian
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Preview I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana: Ultime lettere di Jacopo Ortis-I promessi sposi-I malavoglia-Il piacere-Piccolo mondo antico... Ediz. integrale

424 Prima edizione ebook: maggio 2013 © 2013 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-5236-6 www.newtoncompton.com Edizione elettronica realizzata da Gag srl I magnifici 7 capolavori della letteratura italiana Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis Manzoni, I promessi sposi Verga, I Malavoglia D’Annunzio, Il piacere Fogazzaro, Piccolo mondo antico Pirandello, Il fu Mattia Pascal Svevo, La coscienza di Zeno Edizioni integrali Newton Compton editori Avvertenza Le opere sono presentate in ordine cronologico in base alle date di pubblicazione. Ugo Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis A cura di Paolo Mattei Premessa di Eraldo Affinati Il suicidio vitale di Jacopo Ortis Quando Ugo Foscolo, che in realtà si chiamava Niccolò, cominciò a scrivere Le ultime lettere di Jacopo Ortis, la storia di un giovane suicida a causa di una doppia disillusione, amorosa e politica, aveva soltanto vent’anni, ma la sua vita era già talmente piena d’esperienze da sembrare quella di un uomo adulto. Nato a Zante, isola ionica sotto il dominio veneziano, il 6 febbraio 1778 dal medico Andrea, italiano, e da Diamantina Spathis, greca, studiò a Spalato, in Dalmazia e, dopo la morte del padre, si trasferì nella capitale lagunare insieme alla madre, ai due fratelli e alla sorella. Quello che sarebbe diventato uno dei nostri più grandi scrittori ebbe un’adolescenza difficile: orfano, greco-italiano, esule, senza patria. Ce n’era abbastanza per alimentare nel suo genio precocissimo un fuoco espressivo che non tardò a manifestarsi in forme di sfrenato vitalismo partecipativo. Sin dall’inizio, nella povera casa del Campo delle Gatte, che oggi appare recintato da alte mura ma un tempo doveva essere aperto sui prati, si atteggiò a ribelle, poeta e patriota, al punto tale che la vecchia oligarchia veneziana lo schedò come pericoloso cospiratore. Frequentava, oltre ai salotti letterari di Isabella Teotochi Albrizzi, primo amore giovanile, nonché confidente e lungimirante guida, i corsi di letteratura che Melchiorre Cesarotti, la cui versione dai Canti di Ossian di James Macpherson non gli era di certo sfuggita, teneva all’università di Padova. Leggeva e scriveva con implacabile furore trovando nel patrimonio degli antichi maestri le sue vere radici. Il folto gruppo di rime e traduzioni da classici greci e latini comprese nella Raccolta Naranzi (1794) mostra una consapevolezza lirica davvero unica. Due anni dopo, nel Piano di Studi il futuro scrittore impose a se stesso una serie di letture non solo letterarie, anche filosofiche e politiche: proprio in quell’importante documento programmatico compare il proposito di comporre un libro intitolato Laura-Lettere, un episodio a sé poi inglobato nell’Ortis. Questo romanzo epistolare, il primo della letteratura italiana, dopo quelli di Samuel Richardson (Pamela, 1740), Jean Jacques Rousseau (La nouvelle Héloïse, 1761) e Johann Wolfgang Goethe (I dolori del giovane Werther, 1774), nasce nel tumulto dell’attivismo politico, quando molti italiani, pervasi dall’entusiasmo rivoluzionario di stampo giacobino, intravidero la possibilità di emanciparsi dal servaggio cui si sentivano costretti dalla soffocante presenza austro-ungarica. Gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità, che i francesi appoggiarono non senza calcolo nazionale, si diffusero a macchia d’olio. Foscolo, membro della Società patriottica, collaboratore di fogli riformisti quali il «Monitore italiano» e il «Genio democratico», scrisse ingenui versi in favore dei fratelli transalpini: celebri quelli ai Novelli repubblicani e l’Ode a Bonaparte liberatore. Nel 1797 al teatro Sant’Angelo fu rappresentata, tra gli applausi del pubblico, una sua tragedia, il Tieste, nella quale l’eroe protagonista, doppiamente deluso dall’amore impossibile per Ippodamia e dalla tirannide del fratello Atreo, si suicida. È in sostanza lo stesso tema delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, la cui prima redazione, con il titolo Storia di due amanti infelici, che comprendeva solo le prime 45 lettere, apparve a Bologna nel 1798. L’operetta, molto sentimentale e patetica, venne completata in modo arbitrario da un mediocre letterato, Angelo Sassoli, il quale non esitò a consegnarla all’editore Marsigli. Foscolo, che nel frattempo s’era arruolato nel corpo dei Cacciatori a cavallo, quando lo venne a sapere, entrò in tipografia con la spada sguainata. Lo scrittore, perfettamente consapevole dei limiti del testo, riprese il romanzo e lo ripubblicò nel 1802 a Milano in una versione ben più matura della precedente, anche perché nel frattempo dentro di lui stava cominciando a crescere l’impulso a un controcanto autobiografico che dalla congerie di appunti e frasi manualisticamente denominate Sesto tomo dell’Io al carteggio con Antonietta Fagnani Arese, dallo spiccato accento ironico, conoscerà poi, in anni successivi, una serie di sorprendenti sviluppi, fino alla creazione di un personaggio artificiale, Didimo Chierico, cui Foscolo idealmente affiderà la traduzione del Viaggio sentimentale di Lawrence Sterne, i cui presupposti sono presenti in realtà già nella pronuncia sin troppo stentorea di Jacopo Ortis. Ma soprattutto il libro, in questa seconda edizione, diventava il frutto retroattivo di una bruciante delusione politica: quella provata dallo scrittore, il quale aveva combattuto per la causa rivoluzionaria restando ferito nella battaglia di Cento, allorché, dopo il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), vide Napoleone cedere Venezia all’Austria in cambio della Lombardia. Un’intera generazione si sentì tradita. Ecco perché Le ultime lettere di Jacopo Ortis diventò presto uno dei vangeli del Risorgimento: basti pensare alle pagine accorate che gli riservò Giuseppe Mazzini. Siamo di fronte a un “libro aperto”, come spesso è stato definito: Foscolo vi tornò ancora una volta nell’edizione di Zurigo, targata 1816, che riportava anche la Notizia bibliografica scritta dall’autore, con l’aggiunta della lettera del 17 marzo 1798, potente nella sua riflessione storico-filosofica, e di numerose integrazioni speculative, quasi pre-leopardiane, sulla natura matrigna (17 aprile 1798 e 20 marzo 1799). Nel 1817 ci sarà un’ultima revisione stilistica a dimostrazione di quanto lo scrittore fosse legato a questo romanzo che, nella sua enfasi declamatoria, resta una summa decisiva per comprendere tutta l’opera foscoliana. La narrazione è concepita come una raccolta di lettere che Lorenzo Alderani presenta al lettore, in memoria dell’amico Jacopo Ortis, il quale gliele aveva indirizzate confidando nella sua comprensione. Il nome Lorenzo era un omaggio sterniano, ma così si chiamava anche il destinatario delle poesie sepolcrali comprese nelle Notti di Edward Young, tradotte a Venezia già nel 1784. Girolamo Ortis era invece l’identità di uno studente padovano suicida. Questo per dire quanto Foscolo fosse attento sia alla tradizione letteraria, sia alla cronaca giornalistica dei suoi tempi. L’attacco del romanzo, teso a enunciare il dramma di Jacopo, è talmente famoso da essere entrato nella percezione italiana: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia». Non si leggono Le ultime lettere di Jacopo Ortis senza accettare questo tono retorico, nel quale l’ascendenza plutarchiana si mischia a quella alfieriana in un esploso lirico di solennità statuaria che neppure le frequenti descrizioni paesaggistiche riescono a smussare, permeate come sono di sensibilità arcadica e pastorale, nel florilegio dei calchi petrarcheschi, eppure già così presaghe di intuizioni poetiche future, specie nell’evocazione dei raggi solari, in cui si sente, oltre al ricordo di precoci esperienze giovanili (gli sciolti Al Sole), anche l’anticipo dei sonetti maggiori («E verrà giorno che Dio ritirerà il suo sguardo da te, e tu pure sarai trasformato; né più allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti...»). La prima parte del romanzo, ambientata nei Colli Euganei, mette in scena il doppio stallo del protagonista, costretto a fuggire da casa perché schedato dalla nuova amministrazione veneziana, e innamorato di Teresa, promessa da suo padre, il signor T***, a Odoardo, nobile e conformista. La ragazza, tuttavia, nei frequenti momenti di assenza di quest’ultimo, ricambiava la corte di Jacopo passeggiando insieme a lui in compagnia di Isabella, la sorellina. Inutilmente il giovane cerca consolazione nella storia di Lauretta, anch’ella vittima di una passione inappagata. Più spesso si rifugia nella solitudine, amaramente consapevole della propria sconfitta esistenziale e politica: «E’ ti pare che se odiassi gli uomini, mi dorrei come fo’ de’ lor vizj? tuttavia poiché non so riderne, e temo di rovinare, io stimo migliore partito la ritirata». In Ortis c’è già tutto Foscolo: il sepolcro vi è continuamente alluso, quale riposo agognato e fine dell’ansia vitale che la passione alimenta. Così come vi è presente la funzione rigeneratrice della bellezza, unico conforto per «le nate a vaneggiar menti mortali», secondo l’inconfondibile sigla presente nel dodicesimo verso dell’ode All’amica risanata che troverà un supremo compenso lirico nelle Grazie. Il sentimento, insieme neo-classico e romantico, brucia come una febbre nella passione amorosa, la quale si rivela una metafora della gioventù. Teresa è soltanto una sagoma. Foscolo vuole rappresentare la fatale incompiutezza dell’esistenza, destinata a restare senza pienezza. Eppure in questo libro ci sono anche squarci di realtà che non torneranno più nella sua opera: certe figure di vecchie attaccate alla vita residua, impegnate soltanto a sopravvivere nelle loro fredde capannucce, in una miseria senza tempo; oppure i fondali degli orti dove i ragazzi poveri giocano perduti nello struggimento del mondo che passa; perfino gli ambienti sconsolati di un patriziato imbelle e tronfio, privo di vera coscienza civile. Poi Ortis fugge. Nella seconda parte il libro si trasforma in uno straordinario diario di viaggio: Rovigo, Ferrara, Bologna. Dopo aver appreso delle future nozze di Teresa, fuma oppio. Michele, servo fedelissimo, al quale infine il suicida lascerà una Bibbia, qualche soldo e l’orologio, va e viene per l’Italia portando messaggi alla donna. Jacopo visita le tombe di quelli che considera i suoi veri padri: Galileo, Machiavelli e Michelangelo nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, dove cerca invano di avvicinare Alfieri, ma l’astigiano, confermando la sua vocazione di misantropo, rifiuta. Va a Monteaperto, sulle tracce dantesche. Vorrebbe recarsi a Roma, «su le reliquie della nostra grandezza», ma le autorità gli negano il passaporto. Allora punta su Milano dove incontra Giuseppe Parini, ormai vecchio, del quale, passeggiando accanto a lui nei giardini di Porta Orientale, ammira la tempra di uomo libero. Si confida con l’autore del Giorno, gli racconta di Teresa. Nel finale del libro compaiono anche personaggi persi, disillusi, falliti. È significativo questo contrasto fra umili e illustri, alto e basso, parole e silenzio. Sulla riviera ligure Jacopo accoglie lo sfogo di un ex compagno di studi padovano, ufficiale della Cisalpina, costretto a vagare con moglie e figlie alla ricerca di una impossibile stabilità. Pulsa il sentimento della patria negata. Notevole è la lettera da Ventimiglia nello spiegamento di un individualismo eroico che inutilmente si contrappone alla ragion di Stato, in un recupero operativo della compassione, quale ultimo rifugio:

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