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I fantasmi della piazza - Andrea Vitali PDF

155 Pages·2016·0.67 MB·Italian
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Andrea Vitali I fantasmi della piazza e altre storie (2007) 2 «Bellano? Per noi non esiste» di Giorgio Gandola «Bellano? Non esiste». Così, con l'arroganza superficiale di tutti i sedicenni, noi del branco estivo liquidavamo ogni invito ad attraversare il lago in barca per dare un'occhiata al paese di fronte. Avevamo altro da fare, noi ragazzotti di Rezzonico nelle lunghe giornate riempite di giochi e di burle, in quel cortile di ricreazione della vita aggrappato al castello medievale dei Cahours. Il mondo era lì, circoscritto dalle mura, limitato dall'acqua, da quattro stradine e dalla linea d'ombra della nostra immaginazione. Guardavamo Bellano col binocolo e ci coccolavamo la nostra fortuna. C'era il Giancarlo, che saltava alla Fosbury, tirava con l'arco e costruiva meravigliosi coltelli intarsiati con i rami degli alberi. C'era il Fiorenzo, che ascoltava i Pink Floyd a tutto volume facendo venire l'infarto alle cicale della controra e sognava di diventare biologo dal giorno in cui qualcuno gli aveva detto che Fleming aveva scoperto la penicillina sputando dentro un piattino. C'era il Daniele, grande mediano alla Gattuso (allora il riferimento culturale era Benetti), che una volta per mostrare a noi dilettanti la tecnica del lancio del peso distrusse con un masso la grondaia di una casa. C'era l'Elio, che girava con 300 barzellette in tasca catalogate per argomenti e ti chiedeva: «Dimmi un numero» prima di raccontartele come fosse un juke box. C'era il Mauro, che sapeva a memoria tutte le battute di Tex Willer e Kit Carson. C'era il Flavio, che passava l'estate a battere i record al flipper, salvando le palline più fetenti con un mitico colpo d'anca. C'era il Max, detto il Rude, che un giorno per far colpo su una villeggiante parigina riuscì nell'impresa di naufragare con un Flying Junior a lago piatto (era il mio). C'era la nonna Severina, che per merenda mi preparava due panini alla Nutella, due Buondì e una vasca di budino. C'era il nonno Quanzito (il suo padrino era spagnolo e aveva detto Juanito, ma in paese avevano tradotto a modo loro), che fumando un toscano davanti al camino si diede fuoco a un baffo. C'era il Sandro, che rimorchiava con la Dyane, centrava tutti i pali in retromarcia e sognava di aprire un campeggio in Foppa (la spiaggia degli 3 altri; la nostra era la Calchera e ne parlavamo come oggi si parla di Venice). C'erano la Fabia, l'Antonella, la Ginny, la Maria Grazia: l'altra metà del cielo con fascino e lusinghe. C'era la Cri, che un giorno mi piantò in faccia un paio di occhi verdi e io capii che sarebbe stato per sempre. C'era il Roby che arrivava con la Vespa in impennata e parlava da manager milanese pur essendo di Acquaseria. C'era il Giulietto, che aveva fatto la guerra d'Africa e dopo un litro di vino – sempre sullo stesso gradino, sempre con la stessa brocca in mano – ti raccontava le battaglie meglio di History Channel. C'era l'Adamo, zio di tutto il paese, che con una straordinaria vena surreale inventava poesie del tipo "l'uomo nudo con le mani in tasca". C'era l'Angiulin, che troneggiava nel bar sulla curva e quando vinceva Gimondi ti regalava una pallina di pistacchio. C'era la Ester, che vendeva i giornali e ti beccava mentre inserivi Playboy fra la Gazzetta e la Provincia. C'era il Gianalfonso, figlio della Ester, che con la fionda da 200 metri spaccava in quattro una ciliegia. C'era il Francois, che aveva un metodo scientifico per insegnarti a nuotare: ti buttava dalla barca. C'era il Giampiero, che aveva girato la pubblicità cult della carne Montana («Lo prendo, lo picchio, lo stingo. Sarebbe lo stango, mannaggia la rima con Gringo»). C'era il Giuseppe, il nostro ammiraglio, che fece scuffiare una barca a vela senza bagnarsi. E c'era il Graziano, che un giorno arrivò dal Friuli dopo il terremoto e ci disse che oltre quel paradiso c'era la vita, con le sue gioie e le sue lacrime. Che bisogno c'era di andare a Bellano, un posto dal quale al massimo poteva arrivare il vento del temporale? Adesso scopriamo che, mentre noi vivevamo la nostra età dell'innocenza dentro quel libro di schiamazzi, di passioni e di giochi estivi, nella striscia di case e di spiagge al di là del lago si muovevano gli stessi personaggi. Con qualcosa in più: il genio di Andrea Vitali, capace di metterli sotto spirito e raccontarli. 4 La Radiografia Dell’Anima di Mario Schiani Il libro che avete per le mani è frutto di un'immersione. Negli archivi di un giornale – "La Provincia" – con qualche incursione a "L'Eco di Bergamo". Un'immersione alla ricerca dei testi con i quali Andrea Vitali ha contribuito negli anni ad arricchire l'informazione offerta al lettore. Per questo, sono articoli che di volta in volta rispondono a esigenze diverse. Alcuni sono stati scritti per la pagina culturale, altri per quelle di sport e altri ancora sono stati concepiti a commento di bizzarre notizie di cronaca. Per questo, è sembrato giusto ordinarli in sezioni diverse. "Il lago" raccoglie articoli usciti perlopiù nella sezione culturale: sono testi di carattere storico, panorami lacustri di grande atmosfera e profondo respiro. "Gli scrittori" presenta Vitali impegnato a parlare dei colleghi: per ricordarli nel momento della scomparsa, celebrarli quando vengono riscoperti o lamentarne un ingiusto oblio. "Le storie" sono quanto Vitali ha saputo trarre da grandi, ma soprattutto piccoli, spunti di cronaca: faccende di paese, spesso. Buffi paradossi della vita. "Il calcio", infine: «Son qui ancora a trastullarmi col pensierino che il gioco è bello in sé», dice l'autore bellanese. E lo scopo è sempre quello: scoprire che dietro le miserie del pallone milionario c'è pur sempre un gioco del quale, per parafrasi, non possiamo non dirci appassionati. Il lettore, però, si sarà facilmente accorto che questa suddivisione è del tutto pretestuosa e risponde, si potrebbe dire, a nient'altro che un'esigenza tipografica. A ricondurre tutto insieme, i personaggi: quelli rievocati dai brani storici ispirati al Balbiani non sono diversi da quelli che animano le cronache attuali e quelli che si agitano intorno a un campo di calcio non hanno trattamento diverso, in fondo, da quelli celebrati come grandi scrittori. 5 Sono i personaggi umani, troppo umani, del dottor Andrea Vitali il quale, non contento di palparne i corpi a scopo curativo, ci consente di sbirciare qui la radiografia delle loro anime. 6 Il Lago Dolci Fantasmi in riva al Lago La Provincia, 8 agosto 1999 Dolce nella memoria è il ricordo dei "miei" lariani di un tempo. Di coloro, cioè, che sono già esistiti, calpestando le contrade del mio paese, i prati e i boschi della sua montagna, sedendo le sedie di osterie che, anche loro, non sono più: e praticando i miei, i nostri stessi difetti e le medesime virtù. Sono, questi, personaggi che hanno percorso la mia fantasia adolescenziale meritandosi, se ciò può suonare meritorio, un posto fisso in quella stessa fantasia che, adesso, un poco più attempata, li riscova nei momenti di quiete e li ripensa come possibili personaggi da romanzo. Non ho più il coraggio, però, lo ammetto, di far loro fare una simile fine. Già, perché un conto è la calda culla della fantasia che guarda ai suoi bisogni con occhio mite e che con benevolenza accoglie e perdona anche gli errori, un altro è lo screditato libro e ancor più gli insulsi che vi mettono mano prima ancora che altri lo sfoglino. Ecco, forse, perché le librerie sono comunque piene di libri; ma ecco anche perché una quantità doppia, tripla, comunque multipla è e sta racchiusa nella mente degli scrittori e con essi muore senza veder la luce. Temo infatti, senza complessi, di svilire la vitalità, la vita dei"miei" lariani, ora che con la scrittura condivido un difficile rapporto. Mi vorrà male da lassù, per esempio, la Giovanna che aveva come tutti noi, un cognome, ma era per tutti la Giovanna “corèra”, corriera? Aveva inventato, prima della telematica, il miglior sistema per sveltire la burocrazia, antesignana dell'autocertificazione e dei computer: entrò nella mia vita quando mi toccò sostenere gli esami per ottenere la licenza di caccia e non ne uscì più, perno di un mondo piccolo quale credevo, e credo, fosse, e sia, il mio paese. Lui naturalmente come tutti gli altri paesi del Lario, tanto che per lungo tempo credetti che ogni paese avesse la sua Giovanna, esperta 7 di ogni ufficio, di ogni strada, di ogni sportello di Como. E come lei, sprezzante con ironia e arguzia di ogni autorità, capace, o autorizzata, a dare del tu a tutti, spinta da un interno vento furioso che le permetteva di entrare in ogni ufficio come se fosse padrona e di ovviare alle file d'attesa e ai tempi tecnici di qualsivoglia pratica. Se in quegli anni lontani si voleva qualcosa d'urgente, bisognava cercare la Giovanna nel suo ufficio presso il caffè Centrale: ne avreste avuto in cambio qualche insulto, l'assicurazione che era ormai troppo tardi, l'invito a pensare per tempo alle cose e infine l'accettazione dell'incarico che veniva poi puntualmente seguito. Direttamente collegato alla Giovanna da un comune filo di nostalgia è l'Annibale, onestamente contrabbandiere ai tempi d'oro degli spalloni e, per me, primo maestro di caccia. Non tradisco la sua memoria se lo ricordo quale onesto contrabbandiere: vale a dire spallone per necessità di pagnotta, ruvido di carattere quando non brusco ma con nel fondo dell'animo un humus di dirittura morale che gli impedì di fare il salto pericoloso nel momento in cui il puro e semplice contrabbando di sigarette rendeva sempre meno e si affacciavano invece più lucrosi ma spregevoli affari. Veniva, l'Annibale, da quella stessa terra dei dintorni di Bellano che è detta Costa del Fuoco, e che aveva messo alla ribalta del mondo Berto, il pastore dalla chioma e dalla barba rosse e fluenti, lo stesso colore del suo credo politico. Uomo intollerante di ogni costrizione, pastore per necessità e vocazione, educato come un perfetto gentiluomo senza peraltro aver frequentato collegio alcuno, migrava, come altri pari suoi, verso l'alpe di Giumello quando si caricavano gli alpeggi e trascorreva là buona parte del suo anno diviso tra il lavoro e micidiali sbornie che consumava insieme con gli altri. Di queste figure è rimasta una solida memoria così come, tramandata sino a me, è giunta la singolare maniera con cui la compagnia dei pastori festeggiava il sopraggiungere del tempo della transumanza: con la schiacciata finale. A onor del vero debbo confessare che, la prima volta che questa storia mi venne raccontata, pensai subito che la schiacciata altro non fosse che un cibo, un dolce particolare del cui sapore non avevo alcuna esperienza. Tra le risa del mio interlocutore appresi invece che altro non era se non una visita in compagnia alle compiacenti signorine che esercitano il più antico mestiere del mondo, per sfogare su di loro, e tutti insieme (guai, infatti, a chi si tirava indietro) i bisogni di un'astinenza durata mesi e mesi. Mi è stato 8 descritto, con molta tenerezza, l'impaccio di questi uomini nel momento del contatto, impaccio che veniva mitigato facendo ricorso all'eternamente presente vino. Morì, il pastore Berto, nella sua casa della Costa del Fuoco: lo trovarono seduto vicino al camino, sul tavolo era appoggiato il "ciapèl", la ciotola di legno per bere, mezza piena di genuino vino rosso, come se ne avesse offerto un sorso alla morte che se lo veniva a prendere o addirittura avesse bevuto con lei. Confuso di nebbia invece è il ricordo di un'altra lariana dei tempi andati, la pedalante Nives che appunto visse la più straordinaria avventura della sua vita in un giorno di nebbia e nella lontanissima, per lei e per quei tempi, metropoli di Milano. Le malelingue di allora, alleate a quelle odierne, la descrivono come una borsanerista e non mi è facile comprendere perché ci si accanisca così quando invece la Nives era semplicemente la sorella maggiore in una famiglia la cui madre prese il passo per l'aldilà durante gli anni duri della guerra. Le toccò, a diciassette anni, il compito di provvedere a una schiera di cinque fratelli e lo fece servendosi di una scassatissima bicicletta con la quale percorse le strade di mezza Lombardia per commerciare tutto quanto le capitava per mano: pelli, generi commestibili, capi di vestiario e quant'altro. Fu quella la sua scuola di vita poiché, capitandole di dover star lontana da casa anche per tre o quattro giorni di fila, ebbe occasione di conoscere l'umanità: esperienza in virtù della quale anche oggi, quando le capita di ricordare quegli anni, se ne vien fuori a dire che a volte l'umanità fa veramente schifo. Con semplicità, invece, direi quasi con un candore che vince qualunque possibilità di ombra su quanto le capitò a Milano, racconta ancora di quel giorno in cui si imbatté in una tradotta di alpini che partivano alla volta della Russia e, rispondendo ai loro motti e ai loro saluti, finì per accettare l'invito a salire con loro, onde risparmiarsi un poco di strada con la cigolante bicicletta. La nostalgia che gravava in quel vagone era spessa, pesante come la nebbia che annullava il paesaggio circostante e la Nives allora, orgogliosa del suo essere donna, si adagiò sul fondo del vagone dispensando a qualcuno di loro (parecchi, in verità) un ultimo momento di gioia. «Ragazzi che non sarebbero mai più tornati a casa – mi ha detto la Nives – bravi ragazzi che non avevano ancora avuto una donna. Non si poteva lasciarli morire così». E per uno di loro almeno, ignoto, uno dei tanti, la vita continuò. Nives volle 9 chiamare quel figlio di milite ignoto Giuseppe e Pino fu sin dai primi mesi di vita perché nel cuore forte della Nives quel vezzeggiativo suonava come l'eco della parola Alpino. La Santa degli Ultimi tra i Fantasmi del Lago La Provincia, 9 dicembre 2001 C’è a Bellano un angolo dove sembra, dove a me sembra, che tutte le memorie, le cose dette e fatte, le figure, i fantasmi, in fondo, del passato si siano radunati. Sfrattati dal tempo che li allontana sempre di più dall'attualità e dalla cronaca, si ritrovano lì a contarsi e a contarsela su. Il luogo si presta assai a fungere da campo di concentramento per residuati degli anni trascorsi poiché è protetto da mura antiche: è la piazzetta di Santa Marta, chiusa dalla chiesa omonima, dalle mura del palazzo che fu la Cà di Matéi, dall'edificio che ospita il negozio dello zio Piero e da quello delle vecchie carceri mandamentali le cui finestre, protette da spessi vetri, sembrano occhi di miope sgranati nell'attesa di qualche inopinato intervento edilizio. Mi piace visitare questo luogo potendo contare sulla garanzia di farlo da solo. Sfrutto perciò le primissime ore del pomeriggio e lo raggiungo percorrendo via Manzoni, la contrada che taglia il vecchio nucleo di Bellano per il suo asse maggiore. Lungo la stretta via mi abbandono, guardando gli scuri delle case, alla fantasia di capifamiglia abbandonati nel sonnellino pomeridiano, mamme affaccendate all'acquaio, bambini scalpitanti, annoiati per quell'ora buca, nell'attesa infinita che apra l'oratorio. È appunto fantasia, poiché quelle finestre, per la gran parte, non si aprono più su case abitate: ma non mi garba pensare allo stato in cui quei locali sono probabilmente combinati: mobili ammonticchiati, polvere, odore di chiuso, qualche segnale di vita interrotta, magari un calendario di Frate Indovino fermo a chissà quale anno o un piattino di Papa Giovanni con stampigliata la data del viaggio a Roma. Finalmente sbuco nella piazzetta di Santa Marta e l'amaro in bocca si stempera. Anzi, a dire il vero, ritrovo l'allegria dell'immaginare e dell'eventuale 10

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