Presentazione C’è un luogo in India che, più di ogni altro, potrebbe assurgere a simbolo di una nazione trasformata dal boom degli ultimi decenni, uno sfacciato monumento alla ricchezza di pochissimi. Il libro parte proprio da qui, Antilla, la residenza del magnate Mukesh Ambani che, con i suoi ventisette piani di lusso, è la nuova reggia indiana. Ma la crescita economica non si è diffusa agli strati più poveri della popolazione; anzi, non ha fatto altro che acuire discriminazioni e disuguaglianze già presenti nella società. Non si può restare indifferenti quando Arundhati Roy descrive la guerra in atto per il possesso della terra nella giungla dell’India centrale sotto assedio, con trecentocinquantamila persone obbligate ad abbandonare i loro villaggi e migliaia di suicidi; le decine di migliaia di torturati e i settantamila morti in Kashmir. E dietro tutto questo si agitano i fantasmi che muovono i grandi capitali mondiali e manipolano le scelte della politica: le ricche fondazioni americane, la Banca Mondiale, le ong. Con la sua inconfondibile penna, battagliera e avvincente, la Roy ci conduce fin nel cuore autentico dell’India, illuminando attraverso queste pagine il lato oscuro della democrazia più grande del mondo. Arundhati Roy, nata nel Kerala, si è laureata alla Delhi School of Architecture e vive a New Delhi. È stata assistente al National Institute of Urban Affairs e ha studiato Restauro dei monumenti a Firenze. Ha scritto alcune sceneggiature e collabora a varie testate, fra cui «Internazionale». Il dio delle piccole cose, suo romanzo d’esordio, pubblicato in Italia da Guanda, è stato un caso letterario e un best seller in tutto il mondo. Guanda ha pubblicato anche L’impero e il vuoto. Conversazioni con David Barsamian e le raccolte di saggi Guerra è pace, Guida all’impero per la gente comune, La strana storia dell’assalto al parlamento indiano, Quando arrivano le cavallette e In marcia con i ribelli. www.guanda.it facebook.com/Guanda @GuandaEditore www.illibraio.it Titolo originale: Capitalism. A Ghost Story I saggi I fantasmi del capitale, Preferirei non essere Anna, Morti che parlano e Conseguenze dell’impiccagione di Afzal Guru contenuti in questa raccolta sono apparsi in una precedente versione su «Internazionale» Disegno e grafica di copertina di Guido Scarabottolo ISBN 978-88-2351295-5 Copyright © Arundhati Roy, 2014 All rights reserved Published by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria © 2015 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale 2015 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata. Dice il tuo sangue: come intrecciarono il ricco e la legge? Con quale ordito di ferro e zolfo, e come a gradi caddero i poveri nei tribunali? Come divenne la terra sì amara per i suoi poveri figli, aspramente allattati con pietre e con dolori? Così avvenne e così lo lascio scritto. Me l’hanno impresso le vite sulla fronte. PABLO NERUDA, I giudici PRIMA PARTE 1 I fantasmi del capitale È un palazzo o una casa? Un tempio alla nuova India o un deposito per i suoi fantasmi? Da quando Antilla è spuntata in Altamount Road a Mumbai, con la sua aura di mistero e tacita minaccia, le cose non sono più le stesse. «Ecco qua» mi ha detto l’amica che mi ha accompagnata a vederla. «Rendi omaggio alla nostra nuova sovrana.» Antilla appartiene all’uomo più ricco dell’India, Mukesh Ambani. Avevo letto di quella dimora, la più costosa mai costruita: ventisette piani, tre piattaforme per elicotteri, nove ascensori, giardini pensili, sale da ballo, stanze dove si può cambiare clima a piacimento, palestre, parcheggio a sei livelli, seicento addetti alla manutenzione. Nulla di tutto ciò mi aveva preparata al vertiginoso prato verticale: una muraglia d’erba, fissata a un’enorme griglia di metallo, che corre lungo i ventisette piani. Qua e là i fili apparivano inariditi; pezzi di prato si erano staccati in nitidi rettangoli. A quanto pareva, il Trickledown,1 lo sgocciolio verso il basso, non aveva funzionato. Ma il Gush-Up, lo zampillo verso l’alto, era evidente. Ecco perché, in un paese di un miliardo e duecentomila persone, i cento individui più ricchi sono proprietari di beni che equivalgono a un quarto del prodotto interno lordo nazionale.2 Secondo la voce che circola (o almeno circolava) per le strade (e sulle pagine del «New York Times»), dopo tanti sforzi e tanto giardinaggio, gli Ambani non abitano ad Antilla.3 Nessuno lo sa per certo. La gente continua a mormorare di spettri e di malasorte, di Vastu e di feng shui. Forse è tutta colpa di Karl Marx. (È lui il colpevole di tante maledizioni.) Il capitalismo, ha scritto, «che ha suscitato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate».4 In India, i trecento milioni di noi che rientrano nella nuova classe media successiva alle «riforme» del Fondo Monetario Internazionale (e costituiscono il mercato interno) vivono fianco a fianco con gli spiriti degli inferi, con il poltergeist dei fiumi morti, dei pozzi disseccati, delle montagne brulle come il Monte Calvo e delle foreste depredate e spogliate; con i fantasmi dei duecentocinquantamila agricoltori oberati di debiti che si sono tolti la vita e degli ottocento milioni di nostri concittadini impoveriti e diseredati per fare spazio a noi.5 Gente che sopravvive con meno di venti rupie al giorno.6 Il patrimonio personale di Mukesh Ambani ammonta a venti miliardi di dollari.7 Ambani ha il pacchetto di maggioranza della Reliance Industries Limited (RIL), un’azienda con una capitalizzazione di mercato pari a quarantasette miliardi di dollari, attiva globalmente nel campo dei prodotti petrolchimici, petroliferi, del gas naturale, delle fibre poliestere, delle Zone Economiche Speciali, della vendita al dettaglio di derrate deperibili, delle scuole superiori, della ricerca scientifica e dei servizi di conservazione delle cellule staminali. La RIL ha acquistato di recente il novantacinque per cento delle azioni di Infotel, un consorzio televisivo che controlla ventisette canali di notizie e intrattenimento, tra i quali la CNN-IBN, la IBN Live, la CNBC, la IBN Lokmat e la ETV, in quasi tutte le lingue regionali indiane.8 Infotel dispone dell’unica licenza a copertura nazionale per la banda larga 4G, un sistema di comunicazione dati ad alta velocità che, se la tecnologia funzionerà, potrebbe rappresentare il futuro dello scambio di informazioni.9 Il signor Ambani possiede inoltre una squadra di cricket. La RIL fa parte della manciata di imprese che gestiscono l’India. Alcune delle altre sono la Tata, la Jindal, la Vedanta, la Mittal, la Infosys, la Essar e la seconda Reliance, chiamata Reliance Anil Dhirubhai Ambani Group (ADAG), il cui proprietario è il fratello di Mukesh, Anil. La loro corsa alla crescita le ha portate a espandersi in Europa, nel centro dell’Asia, in Africa e nell’America Latina. Tessono reti che arrivano lontano, visibili e invisibili, in superficie e sottoterra. La Tata, per esempio, dirige più di cento aziende distribuite in ottanta paesi. È una delle società indiane più grandi e più antiche nel settore privato. Possiede miniere, giacimenti di gas, acciaierie, compagnie telefoniche, emittenti televisive, reti a banda larga e amministra intere municipalità. Produce automobili e camion, e tra le sue proprietà si contano la catena alberghiera Taj Hotels, la Jaguar, la Land Rover, la Daewoo, la Tetley Tea, una casa editrice, una catena di librerie, un famoso marchio di sale iodato e il gigante dei cosmetici, la Lakmé. Il suo slogan pubblicitario potrebbe essere benissimo: «Non potete vivere senza di noi». In base al Vangelo del Gush-Up, più si ha, più si può avere. Grazie all’era della Privatizzazione Universale, l’economia indiana ha un tasso di crescita fra i più alti al mondo. Tuttavia, come in ogni brava ex colonia, i minerali costituiscono uno dei principali prodotti di esportazione. I nuovi megagruppi dell’India, la Tata, la Jindal, la Essar, la Reliance, la Sterlite, sono riusciti ad accaparrarsi il controllo del rubinetto da cui sgorga denaro estratto dalle viscere della terra.10 È un sogno divenuto realtà per gli uomini d’affari: poter vendere qualcosa che non devono comprare. L’altra principale fonte di ricchezza per le imprese proviene dai loro patrimoni terrieri. In tutto il pianeta, governi locali deboli e corrotti hanno aiutato operatori di Wall Street, aziende agroindustriali e miliardari cinesi ad accumulare immense estensioni di terreno. (Ovviamente, questo comporta anche il controllo dell’acqua.) In India, le terre di milioni di piccoli proprietari vengono acquisite e consegnate a società private per motivi di «interesse pubblico»: per trasformarle in Zone Economiche Speciali (Special Economic Zones, o SEZ), per realizzare progetti infrastrutturali, per costruire dighe, autostrade, fabbriche di automobili, industrie chimiche e piste di Formula 1.11 (La sacralità della proprietà privata non vale mai per i poveri.) Come sempre, gli individui coinvolti si sentono promettere che la migrazione forzata dalle loro zone d’origine e l’esproprio di tutto ciò che hanno sono finalizzati alla creazione di posti di lavoro. Ma ormai sappiamo che il rapporto tra crescita del PIL e aumento delle opportunità d’impiego è solo un mito. Dopo vent’anni di «crescita», in India il sessanta per cento della forza lavoro gestisce un’attività in proprio e il novanta per cento dei lavoratori opera nel settore informale.12 Nel periodo successivo all’indipendenza fino agli anni Ottanta i movimenti popolari, dai naxaliti al Sampoorna Kranti di Jayaprakash Narayan, hanno lottato per la riforma agraria, per la ridistribuzione della terra, che andava tolta ai latifondisti di stampo feudale e assegnata ai contadini privi di beni. Oggi qualsiasi discorso inerente a una ridistribuzione della terra o della ricchezza sarebbe considerato non solo antidemocratico, ma addirittura folle. Persino i gruppi più militanti si sono ridotti a combattere perché la gente possa conservare la proprietà di quei pochi terreni che ancora possiede. I milioni di diseredati, per lo più Dalit e Adivasi, espulsi dai loro villaggi, relegati negli slum e nelle baraccopoli di piccole città ed enormi centri urbani, sono scomparsi persino dalle analisi più radicali. Mentre il Gush-Up concentra la ricchezza all’apice di uno spillo luccicante in cima al quale piroettano i nostri miliardari, immani ondate di denaro si abbattono contro le istituzioni democratiche (tribunali, parlamento) e contro i media, con gravi conseguenze sul modo corretto in cui dovrebbero funzionare. E più il circo delle elezioni diventa chiassoso e sgargiante, meno siamo sicuri che la democrazia esista davvero.
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