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I beati anni del castigo PDF

78 Pages·2015·0.01 MB·Italian
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LDB Fleur Jaeggy I beati anni del castigo Adelphi eBook Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata     In copertina: Vilhelm Hammershoi (1864-1916), Interno con giovane donna vista da dietro, 1903-1904 ca. Randers Kunstmuseum, Jutland     Prima edizione digitale 2015     © 1989 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO www.adelphi.it ISBN 978-88-459-7649-0 I BEATI ANNI DEL CASTIGO A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve. Fotografie mostrano le sue orme e la positura del corpo nella neve. Noi non conoscevamo lo scrittore. E non lo conosceva neppure la nostra insegnante di letteratura. A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell’Appenzell, dopo quasi trent’anni di manicomio, a Herisau. È un vero peccato che non sapessimo dell’esistenza di Walser, avremmo colto un fiore per lui. Anche Kant, prima di morire, si commosse quando una sconosciuta gli offrì una rosa. Nell’Appenzell non si può fare a meno di passeggiare. Se si guardano le piccole finestre listate di bianco e gli operosi e incandescenti fiori ai davanzali, si avverte un ristagno tropicale, un lussureggiare tenuto alla briglia, si ha l’impressione che dentro succeda qualcosa di serenamente fosco e un poco malato. Un’Arcadia della malattia. Là dentro sembra che vi sia pace e idillio di morte, nel nitore. Un tripudio di calce e fiori. Fuori dalle finestre il paesaggio chiama, non è un miraggio, è uno Zwang, si diceva in collegio, un’imposizione. Studiavo il francese e il tedesco e cultura generale. Non studiavo affatto. Della letteratura francese ricordo soltanto Baudelaire. Ogni mattina mi alzavo alle cinque per andare a passeggiare, salivo in alto e vedevo uno spicchio d’acqua dall’altra parte, giù in fondo. Era il lago di Costanza. Guardavo l’orizzonte, e il lago, ancora non sapevo che anche su quel lago ci sarebbe stato un collegio per me. Mangiavo una mela e camminavo. Cercavo la solitudine e forse l’assoluto. Ma invidiavo il mondo. Fu un giorno durante il pranzo. Eravamo tutte sedute. Arrivò una ragazza, una nuova. Aveva quindici anni, i capelli diritti come lame, lucenti, gli occhi severi e fissi, ombrati. Il naso aquilino, i denti, quando rideva, e rideva poco, erano aguzzi. Una bella fronte alta, dove i pensieri si potevano toccare, dove generazioni passate le avevano tramandato talento, intelligenza, fascino. Non parlava con nessuno. Le sembianze erano di un idolo, sprezzante. Forse per questo desiderai conquistarla. Non aveva umanità. Sembrava anche disgustata. La prima cosa che pensai: era andata più in là di me. Quando ci alzammo, mi avvicinai e le dissi: «Bonjour». Il suo «Bonjour» fu rapido. Mi presentai, nome e cognome, come una recluta, e dopo aver sentito il suo sembrava che la conversazione fosse finita. Mi lasciò lì nella sala da pranzo, in mezzo alle altre ragazze che chiacchieravano. Una spagnola mi raccontò qualcosa con timbro vivace, ma non le badai. Udivo un brusio di varie lingue. Per tutto il giorno la nuova non si fece vedere, ma la sera era puntuale in piedi dietro la sua sedia. Immobile, sembrava velata. A un cenno della direttrice tutte siamo sedute e, dopo qualche attimo di silenzio, riprende il brusio. Il giorno dopo è lei che mi saluta per prima. Nelle vite di collegio ciascuna di noi, se ha un po’ di vanità, si costruisce la propria immagine, una specie di doppia vita, si inventa un modo di parlare, di camminare, di guardare. Quando vidi la sua calligrafia, rimasi senza parola. Quasi tutte le nostre calligrafie erano simili, vaghe, infantili, le o rotonde, larghe. La sua era completamente costruita. (Vent’anni dopo vidi qualcosa di simile in una dedica di Pierre Jean Jouve su un esemplare di Kyrie). Naturalmente finsi di non stupirmi, non la guardai quasi. Ma di nascosto mi esercitai. E ancora oggi scrivo come Frédérique, e mi dicono che ho una bella e interessante calligrafia. Non sanno quanto l’ho studiata. A quel tempo non studiavo, e non ho studiato mai, perché non ne avevo voglia, ritagliavo riproduzioni degli espressionisti tedeschi e cronache di delitti. E le incollavo in un quaderno. Le feci capire che mi interessava l’arte. Così Frédérique mi concesse l’onore di lasciarsi accompagnare nei corridoi e nelle sue passeggiate. A scuola era – mi sembra inutile dirlo – la più brava. Sapeva già tutto, credo dalle generazioni che l’avevano preceduta. Aveva qualcosa che le altre non avevano, non mi restava che giustificare il suo talento come un dono dei morti. Bastava sentirla in aula leggere i poeti francesi, erano scesi in lei, lei li ospitava. Noi eravamo forse ancora innocenti. E l’innocenza ha in sé forse una certa rudezza, pedanteria e affettazione, come se tutte noi fossimo vestite alla zuava. Venivamo da tutto il mondo, molte le americane e le olandesi. Una ragazza era di colore, oggi si dice, era una negretta, riccia, una bambola che ammiravamo nell’Appenzell. Un giorno il padre l’aveva portata. Era il Presidente di uno Stato africano. Una ragazza di ciascuna nazione venne scelta a fare da ventaglio davanti all’ingresso del Bausler Institut. C’era una rossa, belga, una bionda svedese, l’italiana, la ragazza di Boston, ognuna applaudiva il Presidente, erano schierate con le loro bandiere in mano, e davvero formavamo il mondo. Io ero in terza fila, l’ultima, vicino a Frédérique. Il cappuccio del suffle coat in testa. Davanti – se il Presidente avesse avuto un arco, la freccia l’avrebbe colpita al cuore – la direttrice del collegio, la signora Hofstetter, alta, massiccia, piena di dignità, il sorriso infossato nel grasso. Accanto a lei il marito, il signor Hofstetter, magro, piccolo e timido. Issarono la bandiera svizzera. Nella gerarchia, la piccola negra diventava la più importante. Era freddo, indossava un cappottino a campana azzurro, il colletto di velluto blu. Devo confessare che al Bausler Institut il Presidente nero fece la sua impressione. Il capo di Stato africano ebbe fiducia nella famiglia Hofstetter. Ci fu qualche ragazza svizzera che non apprezzò la pompa con cui il Presidente venne ricevuto. Dicevano che ogni padre deve essere uguale all’altro. Qualche educanda sovversiva si trova sempre, nascosta in un collegio. Sono le prime avvisaglie dei suoi pensieri politici, o di ciò che si potrebbe chiamare un’idea generale del tutto. Frédérique aveva in mano una bandiera svizzera, sembrava tenesse un palo. La bambina più giovane fece una riverenza e offrì un mazzo di fiori campestri. Non ricordo se la negretta trovò mai un’amica. La vedemmo spesso tenuta per mano dalla direttrice, che la portava a spasso, lei personalmente, la signora Hofstetter, forse aveva paura che la mangiassimo. O che non si mantenesse pura. Non giocò mai a tennis. Frédérique di giorno in giorno si faceva più lontana. Qualche volta andavo a trovarla nella sua stanza. Io dormivo in un’altra casa, lei stava con le grandi. Per una differenza di pochi mesi, fui costretta a stare con le piccole. Nella mia stanza c’era una tedesca, ho dimenticato il nome, tanto era senza interesse, mi regalò un libro sugli espressionisti tedeschi. L’armadio di Frédérique era ordinatissimo, io non sapevo come piegare i pullover in maniera che non un centimetro fosse fuori posto, e avevo un cattivo voto per l’ordine. Imparai da lei. Dormendo in due case diverse, sembrava che fossimo separate da una generazione. Un giorno trovai nella mia casella un biglietto amoroso, era una bambina di dieci anni che mi pregava di diventare la mia protetta, voleva fare coppia con me. D’impulso risposi di no, malamente, e ancora oggi mi dispiace. Mi dispiacque anche allora, sul momento, dopo aver risposto che non volevo una sorella, che non mi interessava proteggere una piccola. Avevo cominciato a essere sgarbata perché Frédérique mi sfuggiva e dovevo conquistarla, perché sarebbe stato troppo umiliante perdere. Guardai troppo tardi la piccola, dopo averla offesa. Era veramente carina, attraente, avevo perduto una schiava, senza gustarne qualche piacere. Da quel giorno la piccola non mi rivolse più la parola, né mi salutò. Come si vede, non avevo ancora imparato l’arte di mediare, pensavo ancora che per ottenere qualcosa bisognasse andare diritti allo scopo, mentre sono soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce. Eppure con Frédérique usavo una tattica. Avevo una certa esperienza

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