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Hotel del ritorno alla natura PDF

93 Pages·2014·0.59 MB·Italian
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Uno scienziato tedesco e la sua compagna vivono in solitudine su una delle isole Galápagos, convinti di abbandonare così la civiltà corrotta e «riavvicinarsi allo stato di natura». Ma anche la contessa von Kleber, affiancata da due gigolò, ha dei piani su quel frammento abbagliante di terra circondata dal mare: costruirsi l’Hôtel del Ritorno alla Natura, per tutti i devoti dell’idillio. Non sarà però l’idillio a regnare sulla splendida isola: piuttosto la rovina e il terrore, scanditi dal ritmo inesorabile di Simenon. Scritto nel 1935 e pubblicato nel 1938, questo romanzo è un terribile apologo: come la natura incontaminata possa allettare i suoi devoti alla più feroce autodistruzione. E potrà sembrare una risposta vaticinatoria alla voga oggi dominante secondo cui la natura, nella sua purezza, sarebbe qualcosa di bonario e roseo – e l’unico problema per noi quello di adeguarsi a essa. Di fatto, tale voga dura da più di due secoli, e l’ispirazione per questo affascinante romanzo fu offerta a Simenon da una storia vera, un caso criminale che avvenne nel 1934 a Floreana, nelle Galápagos, con protagonisti assai simili a quelli che appaiono nel romanzo. Georges Simenon HÔTEL DEL RITORNO ALLA NATURA traduzione di Giandonato Crico © 1938 titolo originale: Ceux de la soif © 1994 Adelphi, Milano Biblioteca Adelphi 214 [ISBN] 88-459-0706-6 HÔTEL DEL RITORNO ALLA NATURA 1 Chi dei due era arrivato lì per primo? E perché scegliere proprio quel posto, anziché un altro? Che cosa aveva di diverso dal terreno circostante? Difficile dirlo; eppure la sterpaglia era meno folta, per quanto riguarda il terreno, e si capiva che era là, e non altrove, che bisognava fermarsi. I due uomini, che in quel momento ignoravano l'uno la presenza dell'altro, guardavano nella stessa direzione, verso il mare inondato di sole su cui sembravano invischiate le vele di una goletta. Poi ci fu quel fremito che annuncia il risveglio di un dormiente, o il pigro stirarsi di un animale, ed entrambi smisero nello stesso istante di fissare il mare e si voltarono. Nessuno dei due si mostrò sorpreso. Quello con la barba grigia più folta balbettò con una deferenza che lo imbarazzava: «Professore…». L'altro, che portava soltanto un corto pizzo, restò in silenzio. Ecco! Succedeva così ogni volta che si incontravano. In effetti, il dottor Frantz Müller avrebbe anche potuto rivendicare una sorta di diritto di proprietà sull'isola. In fondo era lui, e non altri, che a Berlino aveva avuto l'idea di andare a ritirarsi nell'isolotto più sperduto delle Galápagos. E chi aveva tracciato, giorno dopo giorno, a piedi nudi, quel sentiero ormai percettibile che scendeva sino al mare? Chi, sostando sempre nello stesso punto, aveva creato, sì, creato quella radura in cui ora veniva anche l'altro, l'intruso? Da cinque anni, ormai, Müller viveva qui con Rita, e per giunta era stato lui a dare agli Herrmann i semi di pomodoro e di melanzana. Herrmann lo sapeva bene, ma non era questo a renderlo così umile. La ragione veniva da lontano, se l'era portata dietro dalla Germania. Là, tutti conoscevano il professor Müller come medico eminente, autore di opere filosofiche. Herrmann, invece, era assistente preparatore all'Università di Bonn: proprio la professione adatta a fargli misurare tutta la distanza che c'era fra Müller e lui! Le cose andavano sempre nello stesso modo: il professore non salutava, né rispondeva al buongiorno. Lo aveva dichiarato egli stesso, una volta per tutte: non era andato sin laggiù per scambiare convenevoli. Non era superbo, né cattivo, e probabilmente non serbava rancore agli Herrmann per aver turbato la pace della sua isola. Anche quel giorno indossava il solito pigiama a strisce blu, troppo largo per il suo corpo magro. I capelli scarmigliati, di un grigio uniforme, circondavano un volto segnato, dai tratti fini. Quando guardava il mare, batteva le palpebre e Herrmann lo sentiva pensare, pensare… Herrmann non era più robusto di Müller, ma aveva lineamenti meno definiti. Anche quando era in pantaloncini corti, sembrava di vederlo col suo completo nero sul tram elettrico di Bonn, con un ombrello al braccio e lo sguardo assorto dietro gli occhiali. Ora gli era rimasta un'unica lente, ma non c'era niente di ridicolo, visto che non c'era nessuno che se ne potesse accorgere. «Speriamo che abbiano portato le medicine» sospirò a voce abbastanza bassa da consentire al professore di non udirlo, se così gli garbava. Gli sarebbe talmente piaciuto parlare! E specialmente di quello: era il punto debole di Müller, lo sapeva, e si era accorto che, ogni volta che scorgeva sua moglie, il professore le guardava con curiosità il ventre che cominciava a ingrossarsi per la gravidanza. Un bambino che sarebbe nato di lì a cinque mesi, un bambino concepito sull'isola! Non meritava forse di parlarne? Nel giro di un'ora la goletta sarebbe stata all'ancora in mezzo alla baia e una lancia avrebbe portato a terra viveri e merci varie. Questo avveniva ogni sei mesi; poi si poteva stare di nuovo tranquilli. «Tuo figlio sta meglio?» acconsentì a chiedere il professore. Herrmann cercò Jef con gli occhi tra i cespugli, ma non lo vide. Si sentì di nuovo commosso. Avrebbe voluto che nulla venisse a turbare l'armonia di quel mattino, la gioia di quella conversazione; eppure, il suo istinto lo avvertiva che era già tutto finito. Cercava a sinistra la magra sagoma del figlio, ma questi sbucò a destra, all'improvviso, vicinissimo a Müller. Portava gli stessi pantaloni kaki del padre; aveva il torace incassato e il volto irregolare, con la bocca troppo grande e i denti mal piantati. «Jef?» gridò Herrmann. Troppo tardi! Un colpo di bastone, e il ragazzo aveva abbattuto un piccione che non si era scostato dal sentiero; adesso si era accucciato e lo guardava morire. Müller, fatalmente, si voltò e se ne andò: gli faceva orrore veder uccidere gli animali. Non aveva forse preso la precauzione, a Berlino, prima di partire, di farsi strappare tutti i denti. per non cedere alla tentazione di mangiare carne in caso di necessità? Ora si allontanava nel sole, facendo frusciare i rami sul suo cammino. Tornava a casa, dietro il campo di limoni, dove lo aspettava Rita. Herrmann si sentì improvvisamente triste, ma non osò dire nulla al figlio, accovacciato accanto all'uccello. L'aria era limpida come l'acqua della laguna; bastava chinarsi per veder vagare pesci di tutti i colori. Non c'era un solo fremito di vita, e la quiete era così totale che il preparatore si accorse di un toro selvatico, piccolo e scuro, che lo fissava da molto tempo a cinquanta metri da lui. Nessuno dei due si era mosso, e il toro rimase a guardarlo con grandi occhi privi di curiosità. «Vieni, Jef, andiamo in spiaggia». Il toro non si mosse nemmeno quando gli passarono accanto. «La nave è già arrivata?». «Getterà l'ancora fra un'ora». Come sempre, Rita era nuda; non per voluttà o per civetteria, ma perché erano venuti alle Galápagos per riavvicinarsi allo stato di natura. Non era brutta, e nemmeno bella. A Berlino era stata una studentessa appassionata di teorie filosofiche, quindi la moglie di un collega di Müller: aveva indossato vestiti come tutti, e offerto tè e cene in una casa confortevole nel dintorni della città. «Parto con il professor Müller» aveva annunciato un giorno a suo marito. «Fra noi non c'è niente, e non ci sarà mai niente; ma voglio accompagnarlo per aiutarlo nel suo lavoro e per vivere secondo le mie convinzioni». Ora era occupata a pulire dei coltelli e i suoi seni, che erano un po'"flaccidi, pallidi nonostante il sole, dondolavano a ogni movimento delle braccia e delle mani. «A cosa pensa, Frantz?». Malgrado quella nudità, e il letto in comune, non si davano del tu, e quando parlava di lui con la signora Herrmann Rita diceva sempre «il professore». Non aveva bisogno di guardarlo per sapere che era scontento. Müller prese un coltello e finse di esaminare attentamente una macchiolina di ruggine. Era un segno! «Ha incontrato Jef?». «Mi passi un uovo, Rita». Era un'altra delle cose che avevano cambiato nella loro vita: non c'erano più pasti fissi né orari di alcun genere. Ciascuno mangiava a modo suo, quando aveva fame. Müller ruppe l'uovo in una ciotola, lo sbatté e aggiunse latte di cocco, zucchero di canna e succo d'ananas; poi bevve il liquido e si asciugò la barbetta. A quel punto, immancabilmente, sarebbe andato a passeggiare nell'orto con la stessa espressione scontenta. Talora Rita si chiedeva se, una volta o l'altra, non sarebbe arrivato a strangolare Jef. Gli Herrmann li avrebbe anche sopportati, con tutte le loro fisime; eppure detestava, rientrando, trovare la signora Herrmann seduta nella sua capanna come una borghesuccia in visita. E Herrmann, con i suoi occhiali senza una lente e i suoi «Professore…», era altrettanto ridicolo. E pensare che gente simile, nata per vivacchiare alla meglio sulle rive del Reno e per bere cioccolata, la domenica, nelle Konditoreien, aveva attraversato i mari per Jef! Per lui, solo per lui, perché i medici tedeschi l'avevano condannato! Tubercolosi ed epilessia! Per di più era idiota, e a quindici anni pronunciava solo poche sillabe inintelligibili, che la madre riusciva a capire. Faceva: «Huhu… Huhu…». E la signora Herrmann traduceva, sorridente, come per scusarlo: «Jef dice che vorrebbe una banana». Una creatura del genere su un'isola in cui lui, Müller, lasciandosi alle spalle una delle migliori cliniche di Berlino, si era rifugiato per trovare la pace! E per di più cattivo, scaltro come una scimmia! Aveva scoperto che le grosse tartarughe, anche quelle che pesano duecento chili e che sopporterebbero su di sé il passaggio di una locomotiva, alla giuntura delle squame sono sensibili come neonati, e si divertiva a torturarle per ore intere. Allo stesso modo, uccideva gli uccelli che, nell'isola, non avevano paura dell'uomo. La cosa più incredibile è che nonostante questo gli Herrmann avessero avuto la spudoratezza di concepire un altro figlio! Herrmann non se ne rendeva conto e mostrava il ventre della moglie con l'orgoglio di uno sposo novello. «Rita». «Sì». «Dovrà mettersi qualcosa…» La donna si infilò sorridendo un paio di pantaloncini corti. Müller non era geloso, ma aveva ancora idee di un certo tipo, anche perché a bordo della San Cristóbal, che ogni sei mesi arrivava dall'Ecuador, c'erano spesso giornalisti che venivano a intervistarlo. Ed è per questo che Rita sorrideva: conosceva le piccole debolezze di Müller e sapeva quanto sarebbe rimasto deluso se questa volta non ce ne fossero stati. Ora lui si stava guardando intorno e creava un certo disordine nella capanna per allontanare ogni idea di vita convenzionale. A dire il vero, l'abitazione consisteva semplicemente in alcuni pali di legno su cui poggiava un tetto di lamiera ondulata. Per terra Müller aveva steso delle stuoie fatte di canne di bambù tagliate, e aveva costruito con le sue mani un gran tavolo, pesante e sempre ingombro di utensili, e un letto di legno mal squadrato. Per sé aveva invece portato da Berlino una sedia, un'unica sedia pieghevole in metallo. Rita fermò con una spilla i capelli castani che continuavano a caderle sul viso. «Scendiamo?» chiese. Scendere voleva dire andare sino alla spiaggia dove sarebbe approdata la lancia della San Cristóbal, a circa un'ora di marcia da lì. «Prendiamo Hans?». Era questo il nome che avevano dato a un asino che brucava nei pressi della capanna, e che seguì la coppia a piccoli passi lungo quello che si sarebbe potuto definire un sentiero. Müller avanzava per primo, e dietro di lui Rita, a seni nudi, coi polpacci finemente venati d'azzurro, lo seguiva in silenzio. Faceva molto caldo. La stagione delle piogge volgeva al termine e, in certi punti, dovettero attraversare il ruscello che precipitava a balzi verso il mare. A tratti si camminava all'ombra dei limoni, o si sguazzava in una boscaglia stentata, costellata di rocce nere. Da qualche parte gli Herrmann dovevano essere anche loro in marcia, compresa la signora Herrmann, che non mancava mai di andare a vedere la goletta. Tutto era pervaso da un languore desolato. Era una pace triste, quella che regnava sull'isola, ma né Müller né Rita né gli Herrmann vi avevano mai fatto allusione. Cinquecento metri più in basso apparve la San Cristóbal, con le vele già ammainate, e Rita, che aveva intravisto un abito bianco a prua, esclamò: «C'è una donna a bordo». Era un'apparizione alquanto singolare, perché la figura, sporgendosi dal bompresso, dominava il mare col suo atteggiamento bizzarro, come di sfida, quasi stesse per spiccare il volo. La si sarebbe detta una di quelle polene scolpite dai marina, di una volta, ma la stoffa bianca dell'abito fluttuava nella brezza e il viso della donna, arrovesciato all'indietro, era come ebbro di voluttà. Malgrado la distanza si sentivano dei rumori e il mormorio di alcune voci; poi, all'improvviso, si udì il frastuono dell'ancora che cadeva in mare e della catena che si srotolava. Müller continuava a camminare; Rita e l'asino lo seguivano. Ogni tanto si perdevano nelle ombre del sentiero per poi riemergere qua e là alla superficie, come nuotatori. I suoni si moltiplicavano. I paranchi cigolavano. La scialuppa era in acqua e allora, per la prima volta, si sentì la voce della donna. Müller e Rita, sprofondati nel punto più basso del sentiero, erano ad appena cento metri dal mare invisibile. Acuta, altera, la voce, una voce abituata al comando, chiamava: «Kraus! Nic! Venite qui! Guardate, questo è il mio regno. Da oggi sono la regina di Floreana!». Non si sentirono risate, ma solo un mormorio di approvazione. Rita affrettò il passo per raggiungere il professore, ma questi continuò a camminare a testa bassa. «Il professor Müller?». Senza dubbio l'umile Herrmann non si sentì mai tanto imbarazzato, né tanto fiero, in vita sua. I cinque abitanti dell'isola erano riuniti sulla spiaggia a guardare la scialuppa che si avvicinava. La sconosciuta era protesa in avanti, a prua, sempre nella sua posa da polena; nel momento stesso in cui la lancia raschiò la sabbia nera saltò a terra e strinse le mani di Herrmann. «Non sono io…» balbettò questi indicando Müller, che, infastidito, voltava ostentatamente le spalle. «Oh, mi scusi, professore! Lei non sa quanto io sia felice di abbracciarla… Ho letto tutti i suoi libri… sono una sua appassionata discepola, come lei ne ha in ogni parte del mondo…». Gli occhi di Müller erano ridotti a una fessura, e la donna, notando i seni nudi di Rita, esclamò col brio innaturale di una donna di mondo che entri in un salotto: «E questa è la sua incantevole compagna?». E abbracciò anche lei. Nulla poteva fermarla. Era lei sola a parlare, lei sola ad agitarsi sotto il sole, e sotto le sue ascelle si disegnavano due chiazze di sudore. «Perdonatemi, non mi sono ancora presentata! Contessa von Kleber. Nic! Venite, lasciate che vi presenti… Nic Arenson, uno dei miei mariti e mio aiutante in campo… E questo è Kraus! Un giovane che ha abbandonato papà e mamma per seguirmi…». Niente la smontava, né il silenzio di Müller, né il viavai dei marinai ecuadoriani che cominciavano ad ammassare le casse sulla spiaggia. In mancanza di un'altra ispirazione, appoggiò affettuosamente le mani sulle spalle di Rita. «Spero che diventeremo amiche, e che lei abbia le mie stesse idee. Da domani vivrò nuda anch'io. Non sono gelosa. E lei?». Il padrone della San Cristóbal, un meticcio di Guayaquil dal torace carnoso, si guardava intorno con aria seccata. «Dove dobbiamo mettere tutta questa roba? Lo sapete che è la stagione delle piogge?». «Nelle caverne, naturalmente!» ribatté la contessa. Il meticcio cercò Müller con gli occhi, come per dire: «Che gliene pare di questo bel tipo?». «Lo sa che le caverne sono a due ore di marcia, e a quasi seicento metri d'altezza?». «E allora?». «Non ci sono strade, qui. I miei uomini…». Nulla, assolutamente nulla poteva fermarla. Con un gesto indicò l'asino. «E questo? Caricatelo, è fatto apposta!». Certo, la contessa stava vivendo un momento di intensa esaltazione, ma si poteva supporre che, a freddo, i suoi movimenti fossero egualmente esagitati. «È suo quell'asino, professore? E perché ha le orecchie mozze?». Müller mormorò educatamente: «Per distinguerlo dagli asini selvatici» «Ci sono asini selvatici, sull'isola? Nic, avete sentito? Andremo a caccia di asini! Mio

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