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Hannah Arendt PDF

283 Pages·1999·1.55 MB·Italian
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Lefort, Abensour, Guaraldo, Lyotard, Esposito, Vatter, Tassin, Kohn, Honig, Cavarero, Bernstein, Savarino Hannah Arendt Introduzione e cura di Simona Forti Bruno Mondadori Readings di filosofia, scienze umane e sociali Simona Forti insegna Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università del Piemonte Orientale. Ha svolto attività di ricerca alla New School for Social Research di New York e al Dipartimento di Studi politici dell’Università di Torino. Si occupa di storia della filosofia politica del ’900. I suoi contributi sono apparsi in “Filosofia politica”, di cui è redattrice, “Micromega”, “Teoria politica”, e in volumi collettanei. Su Hannah Arendt ha pubblicato Vita della mente e tempo della polis, Franco Angeli, Milano 1994 (1996). La collana “Readings di filosofia, scienze umane e sociali” è diretta da Andrea Borsari La casa editrice, esperite le pratiche per acquisire i diritti di riproduzione dei brani prescelti, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragione in proposito. © Edizioni Bruno Mondadori Milano, 1999 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. Progetto grafico: Massa & Marti, Milano Realizzazione epub: Adriana Paolini - Marco Pavesi ([email protected]) http://www.brunomondadori.com 978-88-6774-063-5 Indice Cover Titolo Copyright Indice Hannah Arendt: filosofia e politica La questione della politica Contro un fraintendimento del totalitarismo Il totalitarismo: dominio totale e distruzione della politica Cristalli di storia: il totalitarismo tra abisso e redenzione Il paradosso della realtà Politica dell’irrealtà Realtà e Abisso L’Abisso e la Redenzione Sopravvissuto Polis o communitas? La fondazione della libertà Necessità e libertà Fondazione e libertà Ripetizione e libertà Storia e libertà L’azione “contro” il mondo. Il senso dell’acosmismo Per una comprensione dell’azione Identità e differenza Note arendtiane sulla caverna di Platone Provocazione e appropriazione: la risposta a Martin Heidegger «Quaestio mihi factus sum». Una lettura heideggeriana di Il concetto d’amore in Agostino Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt Bibliografia degli scritti su Hannah Arendt Elenco dei testi citati Note - Introduzione Note - Capitolo 1 Note - Capitolo 2 Note - Capitolo 3 Note - Capitolo 4 Note - Capitolo 5 Note - Capitolo 6 Note - Capitolo 7 Note - Capitolo 8 Note - Capitolo 9 Note - Capitolo 10 Note - Capitolo 11 Note - Capitolo 12 Avvertenza Lungo tutto il corso del volume i riferimenti bibliografici rimandano a una Bibliografia degli scritti di Hannah Arendt, ordinata cronologicamente, per quanto riguarda le citazioni della letteratura primaria; a una Bibliografia degli scritti su Hannah Arendt, che comprende la letteratura secondaria su Arendt; a un Elenco dei testi citati, entrambi in ordine alfabetico per autore, per quanto riguarda tutte le referenze a scritti diversi da quelli di Arendt stessa. Hannah Arendt: filosofia e politica di Simona Forti 1. Rimasta per lungo tempo un pariah della cultura filosofica, conosciuta soltanto come la discussa studiosa del totalitarismo o l’ideatrice della contestata formula della “banalità del male”, Hannah Arendt è stata consacrata “classico” della filosofia politica del Novecento da Jürgen Habermas. Più o meno da allora, ha goduto di una progressiva fortuna fino a raggiungere, in questi ultimi anni, i vertici di una notorietà quasi eccessiva e “alla moda”. La letteratura critica, cresciuta a dismisura nell’ultimo decennio, trova dunque nell’ipotesi interpretativa habermasiana un luogo di confronto obbligato. Nel saggio La concezione comunicativa del potere, (Habermas, 1976) egli celebra Vita activa (Arendt, 1958a) come l’architesto della “teoria dell’agire comunicativo”, al quale va attribuito il merito di aver riscattato l’agire politico da una troppo salda connessione con l’agire strumentale. Tuttavia, vestendo i non consueti panni del “realista politico”, Habermas rimprovera ad Hannah Arendt un eccesso di ingenuità teorica: la fede in un’“intersoggettività inalterata”, il mantenimento, ancora metafisico, della separazione tra teoria e prassi, ma anche l’angusto e anacronistico ritorno al pensiero greco. Insomma, l’impotenza pragmatica e teorica del concetto arendtiano di potere, privato di ogni elemento strategico, sarebbe dovuta a un pensiero rigidamente normativo che si avvale, senza rielaborarle, delle superate dicotomie aristoteliche. L’“ipostatizzazione dell’immagine della polis, proiettata nell’essenza stessa della politica” (ivi, trad. it., pp. 60-65) precluderebbe ad Hannah Arendt la comprensione della realtà istituzionale e sociale della modernità. Ora, se da una parte, ha contribuito a restituire ad Hannah Arendt la dignità di grande pensatrice, dall’altra, Habermas ne ha costruito quell’immagine di «nostalgica ed utopista della polis» che ancora oggi stenta a morire nella comunità scientifica. Il duplice gesto habermasiano dà così il via a quella che potremmo definire l’“urbanizzazione della provincia arendtiana”: innumerevoli studi che riprendono le critiche del francofortese, ma volti a depurare le grandi intuizioni arendtiane dalle valenze utopistiche ed “irrazionalistiche” per consegnarle a un progetto politico “ragionevole”, se non razionalistico.[1] Questa “normalizzazione” ermeneutica ha adombrato l’aspetto intenzionalmente provocatorio del pensiero di Hannah Arendt, il cui elemento strategico sta proprio nel rinunciare a ogni strategia sistematica, nel presentare situazioni aporetiche, nel lasciare aperte le contraddizioni. L’ipotesi interpretativa che si origina da Habermas, insomma, rischia di non giungere al cuore della riflessione di Hannah Arendt, una riflessione “situata”, legata a «doppi vincoli tragici»,[2] che risolutamente si mantiene in quella dimora senza spazio abitata dalle tante figure di pariah che visitano i suoi scritti.[3] Fedele alla convinzione che il pensiero stesso nasce dagli avvenimenti e dall’esperienza, e ad essi deve rimanere legato, ella è come impossibilitata a seguire una qualsiasi forma di ortodossia filosofica. Confrontatasi con accadimenti gravissimi e inediti, che devono essere tradotti nel pensiero, esprime l’urgenza di una comprensione che non può però più avvalersi degli strumenti tradizionali e che per questo diventa tanto necessaria quanto irrisolvibile. Gli avvenimenti in questione ci sono ben noti: due guerre mondiali nell’arco di una generazione, l’Europa diventata una terra di apolidi, l’ascesa al potere di Hitler, due totalitarismi, la persecuzione degli ebrei, Auschwitz. Hannah Arendt è ebrea e nasce in Germania, ha meno di ventisei anni quando nel 1933 è costretta a rifugiarsi a Parigi, da dove partirà per gli Stati Uniti, paese in cui risiederà sino alla morte.[4] Lo sradicamento, il trauma del nazismo, l’esilio, interrompono la continuità della sua vita e diventano la cifra del suo stesso pensiero. Un pensiero che prende parte alla grande requisitoria novecentesca istruita nei confronti della dialettica, senza però giurare fedeltà alla fenomenologia e nemmeno in toto all’esistenzialismo, seppure riconosciuto come proprio contesto filosofico di provenienza. Qualsiasi presentazione dell’opera di Hannah Arendt che non tenga conto di questa sua doppia origine – i traumi storici, vissuti in prima persona, e l’influenza della filosofia dell’esistenza, in particolare quella di Heidegger – risulta a mio parere riduttiva. Questo è infatti il duplice segno sotto cui si colloca la sua riflessione; è la tensione tra queste due eredità, così come il tentativo costante di rinegoziare il loro lascito, a conferire originalità e al tempo stesso problematicità a un pensiero incurante degli steccati disciplinari. La storiografia più recente muove da questa consapevolezza: presupposto ormai acquisito della “seconda ondata” di studi arendtiani. Meno bisognosi di far quadrare il cerchio e consegnare una volta per tutte Hannah Arendt a una determinata scuola di pensiero, le interpretazioni più accorte sono passate da un interesse espositivo e ricostruttivo a un’interrogazione critica, problematica e per così dire laterale. Soprattutto hanno cercato di fare i conti con l’apparente paradosso di un’opera contesa da correnti filosofiche tra loro in disaccordo: il paradosso cioè di un pensiero politico presentato contemporaneamente come fautore del liberalismo, del neoaristotelismo, del comunitarismo, della tradizione repubblicana, di una teoria delle élite, così come di un anarchismo conflittualista e libertario. E il paradosso di un pensiero filosofico annesso a un tempo all’universalismo, al relativismo, al soggettivismo, al decostruzionismo, al razionalismo e al nichilismo.[5] I saggi che qui presentiamo[6] cercano di dare risposte a tali interrogativi. Ognuno di essi si appropria di una singola parte dell’eredità arendtiana, ma tutti partono dalla convinzione che il suo pensiero politico rimanga refrattario a qualsiasi tipo di classificazione, come pure ritengono inconciliabile la sua radicalità tanto con una prospettiva razionalistico-universalistica quanto con un atteggiamento nostalgico e antimoderno. Hannah Arendt è più una loro compagna di viaggio, che un oggetto di studio da cui derivare progetti per la prassi. Da lei ci si può separare per singoli percorsi, senza abbandonare l’orizzonte comune. Pur dovendo rinunciare, per ovvie esigenze editoriali, a contributi significativi,[7] quelli proposti nella raccolta sono tra i più interessanti di questi ultimi anni. Dagli intellettuali più noti agli studiosi più giovani, alle cui competenze e talenti abbiamo voluto dare spazio, tutti sono stati chiamati a offrire al lettore italiano, tanto a chi si appresti per la prima volta ad approfondire questo pensiero quanto allo studioso, “specialista” dell’argomento, una prospettiva da cui guardare ai diversi atteggiamenti con cui oggi, in Italia e all’estero, ci si continua a occupare dell’autrice. Nelle pagine che seguono, cercherò di ricostruire l’itinerario che conduce Hannah Arendt a disegnare il profilo di una politica, o meglio, di una cultura post-totalitaria; un’impresa iscritta per molti versi nella logica di «un impossibile necessario». Mi impegnerò anche a non sottrarre la parola agli autori qui chiamati a raccolta, per non togliere al lettore il piacere di farsi a sua volta interprete dell’interpretazione. 2. «Che il pensiero della Arendt implichi al suo interno una malinconia ontologica e storica è noto», così afferma Lyotard nel suo saggio dedicato ad Hannah Arendt e alla figura del sopravvissuto (infra, pp. 66 ss.). Chiedersi da dove provenga la malinconia storica ed esistenziale di chi ha assistito alla Shoah è inutile. Quanto alla sua «malinconia ontologica» o, in altri termini, alla presenza di elementi di una filosofia tragica, essa deriva, per gran parte, dalla frequentazione di Heidegger e dei suoi testi; una frequentazione scandita da prese di distanza, abbandoni e riavvicinamenti, ma pur sempre determinante, quand’anche per opposizione. Tanto che anche Bernstein, il cui articolo è sapientemente costruito per mostrare come il pensiero politico arendtiano sia un’efficace risposta critica all’“acosmismo” di Heidegger, [8] è costretto ad ammettere, implicitamente, che è impossibile delineare la filosofia politica di Hannah Arendt senza richiamarsi all’«analitica esistenziale». Sia i corsi sull’Etica Nicomachea del 1922, portati all’attenzione da Gadamer, sia quelli del 1920-21 su Agostino – il cui contenuto viene per la prima volta ricostruito e raffrontato con la lettura di Arendt da Savarino (infra, pp. 249 ss.) – sia, soprattutto, quelli sul Sofista di Platone del 1924-25, su cui ha insistito Taminiaux, testimoniano dell’importanza delle categorie heideggeriane per l’apprendistato filosofico della Arendt. [9] È indubbio che dal saggio del 1946, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (Arendt, 1946e), alla celebrazione del 1969, Heidegger a ottant’anni, (Arendt, 1969c), il giudizio di Hannah Arendt nei confronti del suo antico maestro di Marburgo sia oscillante, muovendosi tra un rifiuto risentito e un’entusiastica ammirazione. Mai, tuttavia, anche nei momenti di più bruciante delusione, [10] la Arendt manca di riconoscere il proprio debito nei confronti di colui “che ha contribuito in modo decisivo a formare la fisionomia del nostro secolo” (Arendt, 1969c, trad. it., p. 166). Un debito con cui cerca di fare definitivamente i conti nella sua ultima opera (Arendt, 1978b), dove nel confronto finale con Heidegger rende esplicita l’intenzione di procedere accanto a Heiddeger per andare “oltre” Heidegger. Nell’interpretazione di Il detto di Anassimandro (Heidegger, 1950), infatti, condotta nel capitolo La volontà di non volontà di Heidegger, ella proietta, riassumendola nei suoi tratti essenziali, la propria posizione filosofica. Nella lettura “eraclitea” che Heidegger fornisce del frammento di Anassimandro[11] intravede una versione alternativa della «differenza ontologica»: una versione «strettamente fenomenologica» che accenna insistentemente a un’altra possibilità di speculazione ontologica (Arendt, 1978b, trad. it. pp. 516-517). Nel modo heideggeriano di affrontare il tema del sorgere e del perire di tutte le cose, sono per lei racchiusi un nuovo significato dell’Essere e un diverso rilievo conferito alle faccende umane. Affermando che tutto ciò che possiamo conoscere è un «movimento per cui ogni sorgere venga-via dall’essere nascosto e si faccia innanzi al non-essere-nascosto», vi soggiorni per un poco e poi

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