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Goethe Classicismo e Rivoluzione PDF

166 Pages·1998·1.168 MB·Italian
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GIULIANO BAIONI GOETHE Classicismo e rivoluzione PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI Filologia. Letteratura. Linguistica. Critica letteraria © 1969, 1982 e 1988 Guida editori, Napoli © 1998 Giulio Einaudi editore s.p. a., Torino wwW.einaudi.it ISBN 88-06-14618-1 Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso la Stamperia Artistica Nazionale, s.p.a., Torino nel mese di luglio 1998 c.L. 14618 Anno 23456 1998 1999 2000 2001 GIULIANO BAIONI GOETHE Classicismo e rivoluzione Piccola Biblioteca Einaudi Creare un ebook da un libro fisico non è un'operazione immediata. Il modo migliore per ringraziarmi del tempo che ci ho speso è farne uno a tua volta, e renderlo pubblico su forum e servizi di file hosting. Ecco come fare, in sintesi: 1) Copia del libro, senza sottolineature 2) Programma OCR (Abby Fine Reader, magari portable) 3) Scannerizza tenendo ben premuto, 250-300 dpi 4) Passa le immagini in AFR 5) Correggi gli errori 6) Salva in doc/html e sistema indice, impaginazione, note, immagini, ecc 7) Share with the world :) Premessa Quando ricevette la notizia che a Parigi era stata proclamata la repubblica Immanuel Kant intonò con le lacrime agli occhi il biblico osanna di Simeone. Anche se dubbio, l'aneddoto sintetizza molto bene le speranze e gli entusiasmi che la Rivoluzione francese destò negli spiriti più illuminati della cultura tedesca del tempo. Il fervore religioso si univa all'ideale commozione dell'umanesimo illuminista e quanti, poeti, filosofi, scrittori e pubblicisti, avevano contribuito al rinnovamento della Germania del Settecento, salutarono la Rivoluzione come l'avveramento di tutti gli ideali di libertà e di umanità del secolo1. Il solo Goethe tacque e tutti sanno quanto gravemente gli si sia imputato questo silenzio2. In verità, il riserbo del poeta era la prima manifestazione di quella sua così discussa e problematica insensibilità politica che gli avrebbe attirato poi, durante la Restaurazione e dopo la Rivoluzione di Luglio, le critiche esasperate e inclementi dei democratici e dei liberalnazionali, da Ludwig Börne a Wolfgang Menzel, singolarmente concordi nel rimproverargli di essere stato un «servo dei principi» del tutto avulso dalla storia e dalla realtà del suo popolo3. Georg Gervinus, che per tanti versi puntualizza la situazione della critica goethiana negli anni che vanno grosso modo dal 1830 al 1880, ribadiva in sede storiografica questo severo giudizio, rimproverava aspramente il cosmopolitismo di Herder e di Wieland e condannava poi senza appello il classicismo di Goethe che dopo il viaggio in Italia si sarebbe completamente estraniato dalla storia isolandosi in una sterile considerazione della natura e rifiutando di comprendere la nuova realtà europea e nazionale sorta dalla Rivoluzione francese e dalle guerre contro la dominazione napoleonica4. La sua appassionata esaltazione di Georg Forster che, pur condannando gli eccessi e le follie della Rivoluzione, avrebbe compreso, a differenza di Goethe, che gli eventi francesi erano il prodotto di una profonda necessità storica, riflette gli umori critici e morali di tutta la generazione postgoethiana e conferma quanto fosse tipico e diffuso il giudizio di Friedrich Engels sulla figura del Goethe politico che riassume si può dire tutta la querelle goethiana insorta fin dagli ultimi anni del Settecento. «Noi non rimproveriamo a Goethe alla maniera di Börne o di Menzel, - scriveva Engels, - che non fosse liberale, bensì che a volte potesse essere anche un filisteo, non che non fosse capace di alcun entusiasmo per la libertà tedesca, bensì che sacrificasse il suo a tratti prorompente e rettissimo senso estetico a una avversione piccolo-borghese verso tutti i grandi movimenti storici contemporanei, non che fosse un cortigiano, bensì che egli, allorquando un Napoleone ripuliva quella enorme stalla di Augia che era la Germania, potesse occuparsi con tanta solenne serietà delle minuscole faccende e dei mentis plaisirs di una delle più piccole corti tedesche»5. Il giudizio di Engels - espresso, si badi bene, in difesa di Goethe e in polemica contro l'interpretazione piccolo-borghese che ne aveva dato Karl Grün nel suo saggio Über Goethe vom menschlichen Standpunkte - rappresenta ancora oggi un valido punto di partenza per una indagine che si proponga di approfondire il rapporto tra il classicismo goethiano e la Rivoluzione francese. Questa indagine tuttavia non deve limitarsi, come è spesso accaduto, a una valutazione più o meno capziosa delle sparse dichiarazioni del poeta sulla Rivoluzione o all'esame di quelle poche mediocrissime opere che, affrontandone esplicitamente il tema, sono state poi definite dalla critica Revolutionsdichtungen. Il problema del rapporto tra la poesia goethiana e i fatti francesi è infinitamente più complesso e non può certo risolversi in un esame delle posizioni 'politiche' del poeta per la semplice ragione che la sua opera, pur appartenendo ai due secoli, il Settecento e l'Ottocento, ha le sue radici in una cultura, quella del Settecento appunto, alla quale era ancora estranea la stessa nozione di politica o di ideologia politica. Non ci può dunque, oggi, interessare gran che sapere se Goethe fosse o non fosse conservatore o patriota, se non si spiega perché fosse conservatore e non fosse patriota. È fuor di dubbio che Goethe, come ha osservato Thomas Mann, nutrì la più profonda avversione per le due grandi tendenze dell'Ottocento, la democratica e la nazionale6, sicché la sua posizione al di sopra delle fazioni e delle lotte politiche doveva sembrare alla generazione di Heine, così tragicamente dilacerata tra evasione romantica e impegno civile, l'espressione dell'egoismo freddo ed estetizzante di chi non sapeva ormai creare che «statue sterili» e «parole sterili», del tutto incapace di contribuire alla rigenerazione morale e politica della nazione, perché accecato da quel primato dell'arte sulla vita che aveva diffuso in Germania soffocando gli entusiasmi civili e patriottici della gioventù tedesca7. Se ciò è vero, è tuttavia altrettanto vero che l'atteggiamento di Goethe nei confronti della realtà politica e sociale del suo tempo fu, dietro la maschera dell'olimpico freddo e imperturbabile, estremamente conscio e spesso addirittura drammatico. È ancora Engels che coglie con chiarezza l'ambivalenza della posizione goethiana. «C'è in lui, - scriveva nel 1846, - una continua lotta tra il poeta geniale, che prova disgusto per la meschinità del suo mondo, e l'avveduto figlio del patrizio francofortese, poi Consigliere segreto di Weimar, che si vede costretto a concludere un armistizio e ad abituarsi al suo mondo. Così Goethe ora è colossale ora meschino, ora un genio che sfida, deride e disprezza il suo mondo, ora un filisteo rispettoso, limitato e senza pretese»8. Noi crediamo che il significato critico di questa ambivalenza rilevata da Engels, che rappresenterà poi la base di ogni interpretazione marxista dell'opera del poeta, risulti illuminante solo se si tiene conto dell'enorme influsso che ebbe sulla sua opera e sul suo mondo morale appunto la Rivoluzione francese. Se così Engels aggiungeva al passo appena citato che Goethe era troppo realista o, come si legge, troppo «carnale» per salvarsi dalla miseria tedesca con l'evasione schilleriana nell'astrazione dell'ideale kantiano, sicché, spinto dalla sua natura, dovette accettare la meschina realtà del suo mondo9, noi crediamo invece che sia stato il trauma morale provocato in lui dalla Rivoluzione francese a far sì che non solo accettasse il filisteismo del mondo tedesco come l'unica realtà in cui gli fosse dato operare, ma lo innalzasse anche - basti pensare a Hermann und Dorothea - addirittura a condizione e a misura del suo classicismo. Il problema del classicismo goethiano si pone dunque per noi nuovamente nei termini in cui lo visse la generazione dei suoi epigoni, la generazione di Börne, Heine e Büchner che dovettero chiedersi quali fossero le ragioni della sopravvivenza di una nobilissima nozione della poesia, che si ispirava agli ideali settecenteschi dell'universale umano, nella nuova realtà creata dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione politica del 1789. Che tuttavia questo problema non possa in nessun caso intendersi nel senso di una sociologia volgare che accolga l'accezione più pedestre di una poesia impegnata, c'è appena bisogno di dirlo. Ma resta il fatto che c'è una relazione addirittura necessaria tra il classicismo di Goethe e il suo lungo, impenetrabile silenzio politico, a comprendere il quale basterebbe forse chiedersi quale fosse la ragione della singolare unanimità nella polemica condotta contro di lui nel corso dell'Ottocento. La presenza nel campo antigoethiano di «democratici» e «nazionali» come Börne e Menzel dovrebbe far riflettere sul significato di un giudizio che, se ha numeratori del tutto diversi, ha tuttavia il suo comune denominatore nella frattura che attraversa il xix secolo tra le forme e le funzioni dell'arte e le realtà politiche e sociali dell'Europa moderna. Goethe in sostanza fu considerato dalla generazione romantica e postromantica un olimpico freddo e imperturbabile perché incapace di passione politica10. In realtà la sua freddezza e la sua imperturbabilità erano l'ultima grande lezione di stile che la cultura europea del Settecento affidava alla turbolenta realtà del xix secolo e al tempo stesso l'espressione del profondo turbamento morale di un grandissimo spirito che assisteva impotente al crollo del proprio mondo. L'epistolario del 1789 non contiene una sola menzione degli eventi francesi. La prima allusione alla Rivoluzione è contenuta in una lettera a Friedrich H. Jacobi del 3 marzo 1790 nella quale Goethe, dopo aver informato l'amico dei suoi studi sulla metamorfosi delle piante e degli animali, osserva semplicemente: «Che la Rivoluzione francese sia stata anche per me una rivoluzione, te lo puoi immaginare». Vi è già nella laconicità della risposta, che forse non vuole nemmeno essere una risposta perché elude in modo così scoperto la domanda di Jacobi, quella profonda insofferenza del poeta che si esprimerà in forma così violenta in quel gruppo degli Epigrammi Veneziani che va dal 50° al 58°, nel quale Goethe, durante il suo disastroso soggiorno veneziano dell'aprile- maggio dello stesso anno, prenderà per la prima volta posizione nei confronti della ° Rivoluzione. E basti citare, per fare un esempio soltanto, il 53 epigramma: Frankreichs traurig Geschick, die Großen mögen's bedenken, Aber bedenken fürwahr sollen es Kleine noch mehr ! Große gingen zugrunde: doch wer beschützte die Menge gegen die Menge? Da war Menge der Menge Tyrann11. Non si tratta, come ognuno può vedere, di una posizione molto originale e per di più così netta e recisa e persino così semplicisticamente reazionaria da accomunare Goethe a figure della statura di Johann Ludwig Gleim che nel gennaio del 1790 aveva scritto in Auch Les etats généraux come risposta all'ode omonima di Klopstock12: Nicht mehr als etwa nur zwölfhundert Despoten wollt ihr? Ha! Mich wundert daß ihr, der Despotie so hold, nicht mehr noch ihrer haben wollt ?13. Timori, questi, che Wieland aveva già espresso con maggiore misura ed intelligenza nella sua Kosmopolitische Adresse an die französische Nationalversammlung (« Indirizzo cosmopolitico all'Assemblea Nazionale francese») dell'ottobre 1789 e che devono pertanto considerarsi patrimonio comune a quanti in Germania si mostravano turbati dagli sviluppi politici della Rivoluzione. E tuttavia, mentre Wieland, pur prospettando il timore che la nuova costituzione sostituisse soltanto il dispotismo monarchico con il dispotismo dei rappresentanti del popolo, accettava almeno gli ideali della Rivoluzione14, Goethe, al pari di Gleim, condannava senza appello gli «apostoli della libertà», i «demagoghi» e i «fanatici» che ingannavano il popolo ancor più degli stessi tiranni, con un giudizio che non aveva, almeno in apparenza, nulla di problematico e sembrava escludere a priori ogni sforzo di comprensione e di approfondimento degli eventi francesi. Ora, veramente Goethe non aveva nulla di più da dire del modestissimo Gleim ? La verità è che la Rivoluzione francese fu per lui un evento addirittura sconvolgente, un problema che lo occupò per tutta la vita e che non riuscì mai veramente a risolvere. Lo afferma almeno egli stesso, allorché, nel 1823, nel suo breve saggio sul dottor Heinroth, dopo aver ricordato come certi motivi poetici maturassero in lui per lunghi anni, scrive: «Proprio a questa considerazione si riallaccia immediatamente la direzione del mio spirito contro la Rivoluzione francese durante molti anni e si spiega l'immenso sforzo di affrontare poeticamente nelle sue cause e nelle sue conseguenze quello che fu il più terribile degli eventi. Se mi rivolgo a guardare indietro negli anni, vedo chiaramente come l'attaccamento a questo smisurato argomento abbia consumato quasi inutilmente per così lungo tempo la mia forza poetica; e tuttavia, quella impressione ha in me radici così profonde che non posso negare di pensare ancor oggi alla continuazione della 'Figlia naturale', di immaginarmi nel pensiero gli sviluppi di questo singolare prodotto senza avere il coraggio di dedicarmi concretamente alla sua esecuzione» (AA 16, 881). Perché, ora, Goethe non riuscì a risolvere nella sua opera - come egli stesso afferma - le cause e le conseguenze della Rivoluzione ? Quale era l'aspetto della Rivoluzione che si rivelava così irriducibile da logorare inutilmente durante molti anni le sue forze poetiche? È evidente che per rispondere a queste domande non è sufficiente seguire, come è stato fatto finora, l'opera del poeta dal 1789 alla Hochklassik degli anni Novanta. È invece necessario mettere in luce una particolare prospettiva che, come si può facilmente comprendere dai pochi esempi riportati più sopra, non può essere politica, né scaturire dalla sola considerazione storica delle circostanze che portarono alla Rivoluzione e deve avere al contrario le sue radici in una determinata interpretazione che Goethe diede della cultura e della società del Settecento. Ciò che conta in sostanza non è approvare o condannare l'ostilità di Goethe per la Rivoluzione, ma giudicare la validità storica e poetica della sua interpretazione della nuova cultura del Settecento, chiarirne i termini e verificarne le soluzioni. Per fare questo sarà indispensabile risalire nel tempo e riandare non solo oltre il 1789, l'anno della Rivoluzione, ma anche oltre la crisi del poeta che seguì il suo ritorno a Weimar nel 1788, e fermarsi quindi agli anni che preparano il viaggio in Italia e chiedersi non solo quali fossero le ragioni che spinsero Goethe verso l'esperienza italiana, ma anche quale fosse il rapporto tra il suo primo periodo weimariano e l'esperienza rivoluzionaria della sua giovinezza. Lo Sturm und Drang insomma, la sua interpretazione nel contesto della cultura tedesca del Settecento e l'interpretazione che Goethe ne diede nei suoi primi anni di Weimar: questo è forse il dato fondamentale che può chiarire come il poeta affrontò poi la nuova realtà creata dallo scoppio della Rivoluzione e soprattutto quale sia il rapporto tra il suo classicismo e l'evento politico che avrebbe segnato la fine della società del Settecento. Dobbiamo quindi ritornare nuovamente alla domanda posta in precedenza: in che modo Goethe si sentì partecipe di quel «terribile evento» che impegnò in modo così drammatico le sue energie poetiche? C'è una relazione verificabile tra l'opera della sua giovinezza e le idee che prepararono la Rivoluzione? E inoltre: il suo primo classicismo può essere considerato solo come il superamento da parte dell'uomo maturo dell'esperienza letteraria e sentimentale della giovinezza stürmeriana o si può intendere invece anche come una prima intuizione della situazione prerivoluzionaria in cui versava la società del suo tempo? Lo stesso viaggio in Italia non potrebbe già essere, seppure in modo inconscio e istintivo, il primo tentativo di risolvere e di chiarire quella immane crisi europea che doveva esplodere in Francia soltanto tre anni più tardi ? È evidente, in tutte queste domande, che solo una ipotesi, che cercheremo di verificare, può forse spiegare la profondità e la vastità del problema che la Rivoluzione rappresentò per il poeta e l'ipotesi è che ci fosse agli occhi di Goethe una sostanziale coincidenza o addirittura una completa identità tra la situazione prerivoluzionaria e le posizioni dello Sturm und Drang, tanto che il superamento dell'esperienza giovanile, una volta manifestatasi la crisi della vecchia Europa del Settecento, doveva poi implicitamente porsi anche come superamento della stessa realtà rivoluzionaria, in un indissolubile nodo di problemi e di soluzioni che coinvolgono e una interpretazione della nuova cultura borghese nata con lo Sturm und Drang e, più tardi ma sulle stesse basi, una particolare considerazione della nuova realtà politica di cui essa era stata l'anticipazione. Avvertenza Goethe viene citato nel testo con sigle tra parentesi dalle seguenti edizioni delle opere (la cifra dopo la sigla indica il volume, quella dopo la virgola la pagina corrispondente): AA Artemis Ausgabe Gedenkausgabe der Werke, Briefe und Gespräche, a cura di E. Beutler, Zürich 1948. HA Hamburger Ausgabe Goethes Werke, München 1988. HA Br. Goethes Briefe, München 1988. HA Br. an G. Briefe an Goethe, München 1988. Send. Werke Goethes, a cura della Deutschen Akademie der Wissenschaften di Berlino diretta da E. Grumach. Wilhelm Meisters theatralische Sendung, a cura di Renate Fischer-Lamberg, Berlin 1957. GOETHE Capitolo primo - Il Prometeo e la rivoluzione dello Sturm und Drang 1. L '«Aufklärung» e lo «Sturm und Drang». Il più genuino momento rivoluzionario dell'opera goethiana è rappresentato senza dubbio dal Prometheus, l'inno che accanto all'omonimo frammento drammatico costituisce l'attacco più radicale che la poesia dello Sturm und Drang abbia portato alla cultura e alla società dell'assolutismo. Una interpretazione di questa opera, in cui il giovane Goethe seppe esprimere con tanta violenza la situazione prerivoluzionaria europea, presuppone purtroppo ancor oggi, per il persistere di equivoci creati da una tradizione critica che risale addirittura al secolo scorso, una sia pur breve considerazione dello Sturm und Drang e della sua posizione nei confronti della coeva cultura dell'illuminismo e della posteriore epoca romantica. Si sa che la nozione di scuola o di età romantica si deve sostanzialmente a Rudolf Haym che individuava nella cultura tedesca dell'ultimo Settecento il sorgere di un movimento o di una generazione romantica che attraverso la mediazione del pensiero di Fichte si assunse il compito storico di riprendere, sviluppare e soprattutto comporre nell'unità di una sintesi tutti i fermenti poetici e culturali delle precedenti generazioni letterarie. Alla luce di questa prospettiva Winckelmann, Lessing, Klopstock, Kant, Herder, Goethe, Schiller e, naturalmente, l'intero Sturm und Drang erano visti in funzione della futura rivoluzione romantica che, inaugurando una nuova epoca nella storia dello spirito europeo, acquistava una importanza paragonabile soltanto a quella avuta dalla Rivoluzione francese15. Con ciò Haym non solo forniva alla posteriore storiografia letteraria la base di quella pericolosa contrapposizione di rivoluzione poetico-filosofica e di rivoluzione politica che l'ideologia dell'imperialismo guglielmino tradurrà poi nella nota contrapposizione di Kultur und Zivilisation16; egli creava anche le premesse per quella interpretazione irrazionalistica dello Sturm und Drang che si affermava soprattutto ad opera di Rudolf Unger e che ha poi determinato per alcuni decenni la critica dell'intera età goethiana17. Le argomentazioni di Unger possono essere qui opportunamente riassunte in una visione dello Sturm und Drang come primo nucleo del movimento romantico secondo la tesi di una unità irrazionalistica della cultura tedesca che il critico poteva costruire solo con l'ausilio di una unità nettamente opposta, ovverossia con la nozione di una Aufklärung aridamente razionalista dinnanzi alla quale si giustificava poi la rivoluzione metafisica dello Sturm und Drang. L'arbitrio di questa costruzione storiografica, che condusse nell'opera di innumerevoli ripetitori a una sistematica diffamazione dell'illuminismo, era così evidente che persino un critico come Alfred Baeumler, scavalcando a destra le posizioni di Unger in nome di una assoluta ortodossia dell'irrazionalismo romantico, poteva denunciare l'operazione iniziata da Haym il quale, come afferma Baeumler, aveva isolato artatamente i momenti irrazionalistici della cultura del Settecento creando in questo modo una falsa unità romantica, laddove il vero romanticismo non si iniziava con il gruppo di Jena, né tanto meno con lo Sturm und Drang, bensì con il gruppo di Heidelberg18. La tesi di Baeumler rivelava così sin dal 1926 le gravissime e palesi contraddizioni della critica dell'irrazionalismo, di cui esasperava e spingeva all'estremo quelle finalità ideologiche che György Lukács doveva poi denunciare soprattutto nella sua Skizze einer Geschichte der neueren deutschen Literatur. È, ora, certamente superfluo sottolineare l'importanza della sistemazione storiografica di Lukács che ha aperto strade del tutto nuove alla germanistica specialmente italiana. I suoi limiti si possono certamente individuare in quella vera e propria canonizzazione del classicismo di Weimar che ha costretto Lukács, nelle condizioni storiche particolarissime della lotta contro il fascismo, a dare una visione troppo schematica del fenomeno romantico e ha proprio per questo costituito sino ad oggi una remora per una nuova e non più differibile indagine del primo romanticismo tedesco19. I suoi meriti, tuttavia, per quanto riguarda l'interpretazione della letteratura tedesca del Settecento come momento fondamentale dell'illuminismo europeo, non si potranno mai sopravvalutare, soprattutto là dove Lukács scorge l'unità contraddittoria ma sostanziale dell'illuminismo tedesco nel difficile e contrastato processo di maturazione della coscienza borghese in seno alla società dell'assolutismo20. Proprio da questa fondamentale premessa lukàcsiana è partito da noi Giuseppe Bevilacqua21 per la sua proposta di una periodizzazione dell'Aufklärung in virtù della quale l'illuminismo tedesco non si presenta più come il blocco affatto omogeneo del «piatto razionalismo» illuminista che veniva poi, non si sa bene come e perché, infranto dalla rivoluzione «preromantica» del genio stürme- riano, ma si articola invece in tre periodi distinti la cui determinazione rappresenta un importante contributo alla sistemazione storiografica del Settecento tedesco. Bevilacqua distingueva una prima fase dell'Aufklärung, caratterizzata da un razionalismo vitale e potenzialmente rivoluzionario, come il giusnaturalismo di Pufendorf, lo spinozismo di Tschirnhaus e il pensiero di Leibniz, una seconda fase, rappresentata dal wolffismo, nella quale si opera una «rapida regressione della componente rivoluzionaria del razionalismo» e il suo assorbimento nel sistema assolutistico, e infine una terza fase, quella lessinghiana, che si ricollega alla prima e riprende il processo dell'illuminismo « al punto in cui era rimasto al momento della sua crisi involutiva»22. La periodizzazione proposta da Bevilacqua, che vede lo sviluppo dell'illuminismo tedesco non come una linea progressiva ed omogenea, ma come «la storia contrastata del latente elemento rivoluzionario del razionalismo»23, ci aiuta così a comprendere che il termine di paragone che ci consente di valutare la portata dello Sturm und Drang soprattutto goethiano non può essere semplicisticamente l' Aufklärung della critica dell'irrazionalismo, termine quanto mai generico che serve unicamente a giustificare una categoria letteraria altrettanto generica come è quella del preromanticismo24. L'importanza rivoluzionaria dell'opera del giovane Goethe va chiarita invece nel contesto del processo di emancipazione della coscienza borghese entro il quale il compito della critica non potrà essere quello di stabilire delle categorie dello spirito, fornite addirittura di un fondamento ontologico, come razionalismo, classicismo o romanticismo, ma di illuminare la diversa funzione che determinati segni, come ad esempio ragione o sentimento, genio o poesia, assumono via via nei diversi stadi di questo sviluppo della coscienza culturale borghese. Così non si vorranno, né si potranno negare nella cultura tedesca del Settecento dei momenti spesso cospicui di irrazionalismo che verranno ripresi dal romanticismo acquistando nel mutato contesto storico e culturale una valenza e una funzione diversa e spesso addirittura opposta a quella di origine. Si rifiuta invece la loro assolutizzazione in nome di un preromanticismo che, postulando uno sviluppo organico della poesia e della cultura diretto necessariamente verso una maturazione romantica, non ha mai consentito alla storiografia dell'irrazionalismo borghese di cogliere la concreta dialettica del Settecento tedesco. Si sono già ricordate le tre fasi in cui, secondo Bevilacqua, si articola lo sviluppo dell'illuminismo tedesco. Ci soffermeremo quindi, sia pure brevemente, su quella fase mediana dell'institutio wolffiana che vede la cultura tedesca venir meno alle premesse rivoluzionarie e umanistiche dell'illuminismo europeo e assestarsi in una situazione accademica nella quale i fermenti innovatori della prima fase spinoziano-leibniziana vengono puntualmente riassorbiti e neutralizzati dalla cultura ufficiale dell'assolutismo. Le ragioni di questa involuzione del pensiero borghese sono molteplici e si articolano in vari momenti e in diversi aspetti secondo un quadro quanto mai complesso in cui le condizioni sociali, spesso proibitive, della classe che porta la nuova cultura si incontrano e si intersecano come fattore involutivo sia con i motivi della tradizione politica e religiosa sia con tutte quelle istanze di rinnovamento che porteranno al sorgere di una letteratura tedesca nazionale. Questo processo di identificazione della cultura borghese con il sistema dell'assolutismo può innanzi tutto attuarsi sulla base della politica centralizzata e pianificata del mercantilismo, che nel dare inizio a quel relativo processo di razionalizzazione delle strutture medievali dell'economia e dell'amministrazione statale favorisce il commercio e le manifatture e condiziona in questo modo l'ascesa di una borghesia perfettamente integrata nello Stato assolutistico25. In una Germania del tutto priva dei grandi spazi economici nazionali che crearono la Francia e l'Inghilterra moderne, la borghesia tedesca doveva infatti adeguarsi tanto più facilmente al mercantilismo patriarcale delle piccole corti tedesche26, quanto più la stessa organizzazione statale della Chiesa luterana imponeva già di per sé la totale identificazione del suddito con la comunità politica e religiosa impersonata dal principe. Il problema della borghesia, chiusa e compressa nei limiti del particolarismo dinastico e con la pesante ipoteca dell'assoluta obbedienza luterana a questa autorità politica e religiosa, poteva consistere dunque da una parte nel recepire i nuovi valori dell'illuminismo che si andavano sviluppando in Europa e di adattarli dall'altra alla particolare situazione in cui versavano la cultura e la società tedesche. È quindi naturale che le grandi idee dell'illuminismo europeo si diffondano dapprima soprattutto nel pensiero teologico dove il progressivo superamento del pessimismo luterano - prima attraverso l'ottimismo della fisico-teologia27, poi del razionalismo wolffiano - condurrà a quella «filosofia del borghese moderato» che vuole «condurre la sua vita intellettuale ed etica in base a principi razionali, ma senza rinunciare per questo alla fede religiosa tradizionale»28. L'ottimismo teleologico wolffiano diventa così il fondamentale fattore ideologico della conservazione. Le ragioni della sua straordinaria fortuna sono certamente nell'aver esso operato a livello pratico e speculativo quella identificazione istituzionale di assolutismo politico, razionalismo filosofico e luteranesimo ortodosso che diventerà poi realtà esemplare nella struttura politica e culturale della Prussia fredericiana29. Il pensiero di Wolff infatti giustificava da una parte, con il suo ottimismo antropocentrico, l'etica edonistica e utilitaristica della nuova borghesia mercantile alla quale, conciliando fede e ragione, aveva assicurato la tranquillità religiosa30, e forniva dall'altra, con il suo principio della ragione meccanica o matematica, la sanzione filosofica del paternalismo dogmatico e normativo dello Stato assolutistico. La ragione individuale della prima fase dell'Aufklärung31 veniva così annullata dal formalismo wolffiano nel principio della ragione astratta che diventava il principale supporto speculativo della normatività di uno Stato onnipotente che, nella persona del principe illuminato, poteva, in nome delle verità universali della ragione, prescrivere ai propri sudditi la via del benessere e della felicità32. L'interprete più autorevole di questa restaurazione è, nel campo delle lettere, Johann Christoph Gottsched, il più fortunato volgarizzatore del pensiero di Christian Wolff. Con la sua Weltweisheit del 1733-34 il pensiero wolffiano diventava un diffuso e comune strumento di educazione e di formazione ideologica e culturale del pubblico borghese33, tanto più che Gottsched si preoccupava al tempo stesso di mettere a disposizione della borghesia una teoria della comprensione del teatro e della poesia che trasferiva i principi del sistema wolffiano al livello della quotidiana frequentazione culturale. Se, ora, sono ormai scontati i suoi grandi, indubbi meriti - primo fra tutti quello di avere stabilizzato in un modello normativo il tedesco, da secoli incerto e fluttuante34 - Gottsched resta tuttavia, proprio per la sua opera di diffusione di una poesia accademica della medietà borghese, il principale responsabile del compromesso tra la nuova letteratura tedesca e lo Stato assolutistico. La sua riforma della poetica, del teatro e della lingua rappresenta certo il definitivo superamento in senso borghese della convenzione letteraria cortigiana e barocca e porta le lettere tedesche dalle involuzioni mistiche e manieristiche del Seicento almeno al livello degli strumenti tecnici e formali elaborati dalla nuova letteratura europea. Ma essa riflette anche in modo quanto mai trasparente l'assestarsi della cultura borghese sulle posizioni ideologiche dell'assolutismo nello spirito del compromesso wolffiano. Come rivela, per fare un esempio soltanto, il suo rifiuto del

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